[Redditolavoro] L'articolo 18 nella pubblica amministrazione

Partito Comunista dei Lavoratori pclavoratoribologna at gmail.com
Wed Jun 22 08:58:36 CEST 2016


L'articolo 18 nella pubblica amministrazione
Storia di una distruzione annunciata
Intorno alla classe operaia si costruisca l'unità della lotta di tutto il
mondo del lavoro, privato e pubblico


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Sotto i colpi delle continue convulsioni economiche e crisi di
sovrapproduzione, naturali nel sistema capitalistico, il capitale deve
continuamente far fronte alla caduta dei saggi di profitto, cercando di
“tamponarla” con l’aumento del saggio di sfruttamento della forza lavoro. La
maggiore facilità di licenziamento è uno dei mezzi funzionali a tal fine,
consentendo di spremere di più un minor numero di lavoratori, favorendo le
delocalizzazioni verso la manodopera super sfruttata ed un “ricambio
generazionale” di lavoratori con salari più bassi e minori diritti, più
ricattabili e precari.

Nel folle sistema capitalistico ormai senza sbocchi, in barba a carte
costituzionali e codici del lavoro, il tasso di arbitrio del licenziamento
viene spinto in avanti, di fatto, a causa dalle crisi che esso stesso
genera. L’unico ostacolo reale ed immediato lo può trovare solo nel livello
di lotta e di resistenza sviluppato dalla classe lavoratrice e dagli
sfruttati, da cui possono nascere anche conquiste giuridiche. Lo
sfondamento reazionario e padronale in Italia, sul fronte dell’art.18, è
valso perciò anche come dimostrazione di forza da parte della classe
avversa: in Italia v’era infatti una maggiore tutela giuridica del
lavoratore sul licenziamento, in virtù della precedente versione
dell’art.18 L.300/1970.

Conquistato come “sottoprodotto” di una grande stagione di lotte operaie,
l’art.18 prescriveva un semplice ed elementare diritto: essere reintegrato
sul luogo di lavoro, con l’aggiunta di un risarcimento del danno in denaro,
una volta accertata l’illegittimità del licenziamento. Tale tutela era
estesa anche al rapporto di lavoro pubblico “contrattualizzato” dagli anni
’90. Unico neo era la sua non applicazione alle aziende con meno di
quindici dipendenti (cinque per le imprese agricole). Con l’acuirsi della
crisi di sovrapproduzione ed in combinato disposto con l’arretramento della
classe lavoratrice, il capitale, alla disperata ricerca di qualunque cosa
utile a tamponare la caduta dei saggi di profitto, da tempo aveva preso di
mira anche questo elementare diritto: un altro “ostacolo giuridico” da
eliminare nel processo di smantellamento delle conquiste operaie.

L’ultimo decisivo attacco reazionario all’art.18 è così avvenuto con la
legge 92/2012, la “(contro)riforma Fornero”, sino al micidiale Jobs act del
governo Renzi (D.Lgs. 4 marzo 2015, n. 23). Lo hanno demolito in più
riprese, con il supporto di sindacati di comodo. Ed invero questo è stato
anche l’epilogo di un percorso regressivo ben preparato anni addietro dai
vari governi di destra e di centrosinistra, con la complicità delle
burocrazie sindacali. Tanto più che oggi, la proposta sulla nuova carta del
lavoro della CGIL per rispristinare l’art.18 e per superare le mille forme
di lavoro precario è anche un elenco-promemoria di tutte le conquiste man
mano eliminate nel tempo. In effetti si dovrebbero abrogare tutte le norme
sul mercato del lavoro deliberate dai governi di destra e di centrosinistra
nell’ultimo trentennio, su commissione di banchieri, Marchionne e
Confindustria.

Sta di fatto che ad oggi il precedente articolo 18, semplice espressione di
un elementare diritto, viene soppiantato da una norma regressiva,
farraginosa e complicata, che in sostanza, come avrebbe detto Marx , “fa
girare indietro la ruota della storia”. Novella giuridica suscettibile di
svariate nuove casistiche da interpretare in balia del terno al lotto della
giustizia borghese. In sostanza: anche se il licenziamento è illegittimo,
il lavoratore non ha più diritto al reintegro, ed il rapporto di lavoro
viene dichiarato risolto con tutte le disastrose conseguenze esistenziali
ed economiche, rimanendo al lavoratore solo un risarcimento in denaro
variabile in base alle varie casistiche previste.

Tolta la fuffa, il punto chiave di questa barbarie giuridica risiede nel
quinto comma del “nuovo” art.18 introdotto dalla citata L.92/2012: “*Il
giudice, **nelle altre ipotesi** in cui accerta che non ricorrono gli
estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal
datore di lavoro, **dichiara risolto il rapporto di lavoro** con effetto
dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di
un'indennità risarcitoria…”. *La locuzione “altre ipotesi” crea il
presupposto giuridico per l’arbitrario licenziamento illegittimo, senza la
tutela reale del reintegro sul luogo di lavoro, nei casi più diffusi e
frequenti. (1) Rimangono tutelati dal reintegro solo i seguenti “casi
limite”, benché estesi anche ai dirigenti e senza limite circa il numero
dei dipendenti dell’azienda: licenziamento discriminatorio, licenziamento
intimato in concomitanza col matrimonio o in violazione dei divieti
previsti in caso di maternità e paternità, licenziamento nullo perché
dichiarato tale da altre disposizioni di legge, licenziamento determinato
da motivo illecito esclusivo (art 1345 c.c., art. 1324 c.c.), licenziamento
orale.

Insomma, la tutela reale del reintegro viene relegata solo ad alcune
limitate ipotesi che spesso sono anche difficili da provare sul piano
giudiziario o comunque poco usate dai padroni sul piano formale,
trattandosi di chiari illeciti che le aziende mai paleserebbero, ancorché
perseguite di fatto sotto altra *nomen iuris*. Nel caso dilicenziamento
senza *giustificato motivo oggettivo*, e solo per i “datori di lavoro” con
più di quindici dipendenti nell’ambito dello stesso comune o più di
sessanta sul territorio nazionale*, *la reintegra si applica
eccezionalmente, cioè solo nel caso in cui il motivo della* inidoneità
fisica o psichica del lavoratore* sia stato ritenuto ingiustificato dal
giudice o esso sia stato intimato ad un *lavoratore malato o infortunato* in
violazione dell’art. 2110 c.c., o nell'ipotesi in cui accerti la *“manifesta”
insussistenza del fatto* posto a base del licenziamento per giustificato
motivo oggettivo. Si noti: l’ipotesi della “insussistenza del fatto” non
basta come tale, ma deve essere “manifesta”, il che crea un altro ampio
margine di arbitrio anche nell’interpretazione della norma rispetto ai casi
concreti ed ulteriori difficoltà difensive del lavoratore sul piano legale;
tanto più in periodo di crisi acuta dove il carattere manifesto o meno di
certe condizioni aziendali diviene ancor più aleatorio. In quanto al
*giustificato
motivo soggettivo o alla giusta causa, *anchese non ne ricorrono gli
estremi la reintegra non si applica, salvo che in un caso: per
insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le
condotte punibili con una sanzione conservativa.

Ma a lorsignori non è bastato abbattere nel modo appena descritto l’art.18
solo per il settore privato. In realtà il capitale esige di estendere il
maggior arbitrio del licenziamento anche nel settore pubblico, come uno
degli elementi funzionali alla privatizzazione ed al taglio della spesa
sociale, sempre nell’ottica di tamponare la caduta dei saggi di profitto. Ed
infatti con la privatizzazione si creano spazi di mercato più extraprofitti
da ruberie; con il taglio della spesa sociale si recuperano risorse da
regalare al capitale con sgravi e contributi; il tutto si aggiunge alla
grande rapina di spesa pubblica per gli interessi usurai sui titoli
pubblici, detenuti dagli stessi magnati che hanno causato il debito, il
quale peraltro si autoalimenta con un meccanismo anatocistico, pagato dai
lavoratori con le varie tassazioni.

Non solo: il maggior arbitrio del licenziamento nel settore pubblico
aumenta in modo esponenziale il potere delle varie cricche borghesi che
gestiscono la P.A. Ad esempio, sarebbe più facile esercitare ritorsioni e
licenziamenti arbitrari del lavoratore pubblico che si opponesse ad abusi,
saccheggi delle risorse pubbliche e dell’ambiente, in danno della spesa
sociale, della salute pubblica e delle masse sfruttate. O che fosse
perseguitato a causa della sua attività sindacale o politica non gradita al
potere. Ottenuta la demolizione dell’art.18 per il settore privato, è
iniziata perciò la solita canea reazionaria, che ne reclama l’estensione
anche ai lavoratori pubblici; le finalità di questa campagna ovviamente non
sono quelle di elevare il livello qualitativo e quantitativo dei servizi
pubblici e la loro accessibilità per le masse popolari, bensì di
smantellamento graduale della natura pubblica della loro gestione per le
nefaste finalità predette in danno alle classi lavoratrici e povere.

Ma qui è sorto un problema giuridico: il sistema capitalistico, come rimane
impigliato nelle sue contraddizioni sul piano economico (crisi di
sovrapproduzione e suoi effetti), così lo può rimanere nell’ambito del
proprio ordinamento giuridico, a furia di concepire finzioni giuridiche,
quali l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge
necessariamente inesistente nella società divisa in classi o
l’"imparzialità" della Pubblica Amministrazione stabilita dall’art.97 della
Costituzione, a fronte della natura di classe dello Stato.

Ma è proprio rispetto a quest’ultimo principio dell’art.97 della
Costituzione che è caduto in contraddizione, sul piano tecnico-giuridico,
il tentativo reazionario di estendere il licenziamento arbitrario al
settore pubblico. Ed infatti la recente *Sentenza 11868/2016 del 9/6/2016
della Corte Suprema di Cassazione**sancisce che **le suddette “**modifiche”
apportate all’articolo 18 **dello Statuto dei lavoratori dalla legge
92/2012 (la riforma Fornero), **non si possono estendere ai dipendenti
delle pubbliche amministrazioni**, precipuamente, proprio in virtù del
citato art.97 della Costituzione. *Segnatamente la Corte ha affermato che
il comma 8 dell’art.1 della L.92/2012 (legge Fornero), non estende
“automaticamente” ai lavoratori pubblici la novella dell’art.18, ma rinvia
ad un successivo intervento normativo di “armonizzazione” della disciplina
del pubblico impiego contrattualizzato. Ne deriva, secondo la Corte, che
l’art.18 “pre-Fornero” non è stato espunto dall’ordinamento, proprio perché
rimane ancora in vigore nel settore pubblico.

La tutela da riconoscere ai dipendenti pubblici, in caso di licenziamento
illegittimo, resta quella assicurata dalla previgente formulazione
dell’art.18 citato, cioè la tutela reale, grazie alla quale il lavoratore
ha sempre il diritto ad essere reintegrato quando il licenziamento risulta
illegittimo. *Prima facie* la detta formulazione potrebbe far ritenere solo
un rinvio del pericolo che l’abolizione dell’art.18 “pre-Fornero” si
estenda anche al settore pubblico, al successivo intervento di
armonizzazione normativa. Ma non pare che le cose stiano così: leggendo in
particolare il punto 3.3 della citata sentenza, si evincono diversi
impedimenti all’estensione della legge Fornero al pubblico impiego anche in
sede del paventato rinvio. Un punto significativo rilevato dalla Corte è
che nell’impiego privato la limitazione del potere di licenziare “ha il
solo scopo di tutelare il dipendente”; nell’impiego pubblico la limitazione
“è posta soprattutto a tutela degli interessi collettivi, non tanto e non
solo del dipendente, rilevando in tal caso l’art.97 della Costituzione”
cioè la tutela della “imparzialità e del buon andamento della P.A.”.

Ma vengono evidenziate anche altre ragioni giuridiche: *a) *le finalità
della detta Legge 92/2012 ex se afferiscono esclusivamente all’impresa
privata; *b)* le ipotesi disciplinari della legge Fornero sono – testuale -
“*pensate solo in relazione al lavoro privato*” e dunque non sono
estensibili all’impiego pubblico contrattualizzato, tipicizzato dalla
inderogabile disciplina del D. Lgs.1501/2009; *c)* la inconciliabilità del
“nuovo” art.18 con le norme del procedimento disciplinare di cui al D. Lgs
165/2001 (legge quadro del pubblico impiego).

Insomma si afferma il principio che la modulazione delle tutele per
l’impiego pubblico contrattualizzato richiede una ponderazione di interessi
del tutto specifica e diversa rispetto al lavoro privato.

Ne deriva un’altra conclusione importante sancita dalla Corte: il rinvio
alla futura “armonizzazione” non significa, stante l’assetto normativo
predetto, la possibilità futura di estensione della legge Fornero al
pubblico impiego con riguardo all’art.18: se e quando si dovesse procedere
alla suddetta “armonizzazione” , non sarà comunque possibile estendere la
detta “riforma Fornero” dell’art.18 al settore pubblico. Ciò perché, sempre
secondo la Corte, il rinvio alla nuova normativa di armonizzazione
pubblico-privato “nasce limitato” dalla normativa specifica sul pubblico
impiego che, appunto, ha inteso escludere in ogni caso, una tutela diversa
da quella reale nelle ipotesi di licenziamento illegittimo, peraltro a
prescindere dal numero di dipendenti. In altri termini, sotto il profilo
giuridico, l’abolizione del diritto di reintegra ex art.18 può riguardare
solo il settore privato, non anche quello pubblico.

Ma il punto fermo sotto il profilo sociale e politico è che *questa
barbarie giuridica, cioè l’essere privati del reintegro pur essendo stati
licenziati illecitamente, è da respingere al mittente sia per il lavoratore
privato sia per il lavoratore pubblico. *Le conquiste parziali ed immediate
ottenute dai lavoratori, nel creare una barriera giuridica contro i
licenziamenti hanno consentito di inserire nell’ordinamento – ancorché
borghese – delle tutele particolari per i lavoratori subordinati. Così
nello stesso ordinamento borghese alcuni principi giuridici conquistati
come sottoprodotto delle lotte, assurgono anche ad una sorta di
“confessione” del capitalismo rispetto alle sue stesse ingiustizie: nel
diritto del lavoro è infatti divenuto principio consolidato che
l’uguaglianza, pur sancita formalmente, non corrisponde alla realtà, sicché
l’operaio e il padrone formalmente uguali di fronte alla legge, non lo sono
di fatto, essendo il secondo, individualmente preso, in stato di soggezione
rispetto al potere economico e politico del secondo.

In tal senso il populismo grillino, al motto di “uno vale uno”, sottende
l’avversità borghese all’unità sindacale e politica della classe avversa,
unica che può dare forza ai lavoratori, e magari propugna l’estensione del
licenziamento arbitrario al pubblico impiego per eliminare quella che
considera in quanto tale “una zavorra” per la società (insieme ai
pensionati), recuperando risorse in favore delle piccole e medie imprese,
ma sempre in danno ai lavoratori ed alla povera gente.D’altro lato, se nel
pubblico impiego, per le suddette peculiarità giuridiche del rapporto, vi
possono essere maggiori tutele rispetto al lavoro privato, il problema
semmai è quello estenderle a quest’ultimo, non di abbatterle per il primo.
E va smentito l’assunto, falso ma passato come senso comune, della assoluta
“non licenziabilità e irresponsabilità” del pubblico dipendente. La
pubblica amministrazione è piena di casi di mobbing, ritorsioni,
discriminazioni, arbitrari processi disciplinari, su cui si paventano
licenziamenti illeciti per meri fini persecutori, verso lavoratori “rei”
solo di fare il proprio dovere verso l’interesse sociale, cercando di
impedire o rivelando piccoli e grandi abusi di potere e ruberie, perpetrati
dalle varie camarille borghesi che saccheggiano l’erario e l’ambiente; o
solo perché è invisa al potere la loro militanza politica e sindacale. Anche
l’uso arbitrario-clientelare degli “incentivi” e degli incarichi di
responsabile di servizio o dirigenziale conferiti *intuitu personae (*cioè
derivanti dall'affidamento a elementi discrezionali e parziali, derivanti
da valutazioni di natura personale*),* consentiti dalla americanizzazione
aziendalistica della P.A. avutasi con la controriforma di Bassanini,
rappresentano uno strumento di asservimento del dipendente pubblico al
potere borghese nell’ambito delle strutture della P.A., di clientelismo e
corruttele. Ed è evidente che il licenziamento illecito ed arbitrario senza
possibilità di reintegro del pubblico dipendente rafforzerebbe tale potere
di ricatto da parte delle camarille borghesi, “legali” o mafiose, che
saccheggiano le pubbliche risorse, devastano l’ambiente e la società, tra
enti locali, regioni e apparati statali.

Inciso: la difesa legale di un lavoratore pubblico da ritorsioni e
licenziamenti arbitrari potrebbe appigliarsi al concetto di “*imparzialità
e buon andamento della P.A.”* di cui all’art.97 della Costituzione,
richiamato dalla Corte solo per “necessità tecnica”, non di certo per la
finzione giuridica ed illusoria dello Stato come entità imparziale al di
sopra delle classi.

Nel contempo è evidente che la ricerca del potenziamento quali-quantitativo
dei servizi pubblici sotto il controllo sociale dei lavoratori, inclusa la
rimozione di alcune sacche di parassitismo e del “servilismo burocratico”
verso i potenti, va esattamente nella direzione opposta a quella del
taglio, dello smantellamento e della privatizzazione del servizio pubblico.

Su queste basi, la divisione e la guerra tra lavoratori privati e pubblici
che il capitale tenta di innestare anche sulla questione della mancata
estensione del nuovo regime dell’art.18 al settore pubblico, va respinta al
mittente. *Ogni abbattimento dei diritti dei “lavoratori privati” è
l’apripista per l’attacco ai lavoratori pubblici, e viceversa.*

Ma anche qui il compito da svolgere è quello di unire ciò che il capitale
divide: la lotta *per il ripristino del precedente art.18 nel settore
privato e per la sua difesa nel settore pubblico*,*con cui semplicemente si
afferma per tutti i lavoratori e senza limiti riferiti al numero di
dipendenti, il diritto di reintegro in caso di licenziamento
illegittimo,* rappresenta
un terreno di costruzione dell’*unità tra lavoratori privati e pubblici*,
unitamente alla *difesa ed al potenziamento servizi pubblici* dal
saccheggio delle privatizzazioni.

La classe operaia deve invertire la direzione di arretramento,
riconquistare la propria unità, la coscienza del proprio ruolo
rivoluzionario, ed assumere la direzione delle lotte di tutto il mondo del
lavoro e di tuti gli sfruttati. Incluse le lotte dei lavoratori
pubblici. Legando
queste battaglie immediate e parziali, tutte, alla necessità di rovesciare
la minoranza di banchieri e capitalisti che, travolti dalla crisi del loro
sistema, cercano disperatamente di rimanere a galla anche saccheggiando ciò
che rimane dei servizi pubblici e delle tutele come l’art.18, nella
prospettiva di ricostruire i servizi pubblici in un contesto di radicale
riorganizzazione dell’economia e della società su nuove basi, quelle
socialiste.

Il Partito Comunista dei Lavoratori è nato e lavora per questa prospettiva.






(1) Oltre che le illegittimità del licenziamento nel merito, anche le
violazioni di forma o di procedura non comportano più il diritto al
reintegro; si tratta dei licenziamenti privi di motivazioneexart. 2, comma
2 legge 604/66, dei licenziamenti posti in essere con violazione della
procedura disciplinare di cui all’art.7 legge 300/70 e della procedura per
il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 7 legge 604/66.



Tiziano Di Clemente
Fonte:
www.pclavoratori.it  -  info a pclavoratori.it


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