[Redditolavoro] La qualità comunitaria del pubblico impiego - una Liberazione mai completata
Laboratorio Eudemonia
eulab at sapo.pt
Sun Apr 24 11:51:39 CEST 2016
La qualità comunitaria del pubblico impiego
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(una Liberazione mai completata)
Alla voce "pubblico" Wikipedia recita:
"Nell'ambito del diritto, il termine pubblico identifica un bene materiale od immateriale accessibile a tutte le persone senza condizioni, in opposizione a ciò che è di proprietà di un privato, e che è mantenuto e protetto a servizio e godimento della collettività senza l'ingerenza di interessi privati."
Da queste chiarissime parole deriva immediatamente che ciò che giuridicamente viene qualificato come "pubblico" non può assolutamente essere concesso in modo definitivo a qualcuno in particolare, pena la decadenza della sua stessa qualità giuridica. Questa è la ragione, in verità non solo giuridica ma a norma di ogni buon senso, filosofia e logica, per la quale il prezioso bene pubblico degli impieghi, poteri e redditi del Potere Amministrativo e Giudiziario, del Pubblico Impiego, non può essere assegnato a vita e nei fatti appartenere ad alcuno bensì deve essere periodicamente redistribuito. Poiché esso va "mantenuto e protetto a servizio e godimento della collettività".
Come è potuto dunque accadere che la collettività abbia ceduto a singoli individui la proprietà di fatto esclusiva di un determinato bene pubblico quale è appunto ogni singolo ruolo del Pubblico Impiego? Non avrebbe la società dovuto proteggere questi suoi beni primari? Non è essa invece andata contro ogni suo interesse, perfino esercitando un'azione al di là dei suoi stessi poteri, poiché un complessivo bene collettivo, così importante come l'intero potere funzionale della Res Pubblica, non poteva essere certo ceduto, pena il ridursi a res privata di quest'ultima?
Ed ancora: qualsiasi governo, delegato da un popolo a fare i suoi interessi collettivi, prima di cedere a vita un impiego, un potere, un reddito della Repubblica, non avrebbe dovuto interpellare quel suo stesso popolo davanti ad un atto che avrebbe così profondamente dequalificato e ricondotto all'indietro nel tempo l'intera società? I vari governi che si sono succeduti nella storia della nostra Repubblica non avrebbero dovuto porre un sì ponderoso e pregno quesito ai loro rappresentati, prima di permettersi qualsiasi azione deliberativa in proposito?
Tutto inizia a chiarirsi risalendo ai primi momenti della nostra Repubblica, quando già sulle pagine dei lavori preparatori della Costituzione leggiamo che "[gli articoli] non innovano nè infirmano nulla di ciò che è stata finora la prassi del reclutamento degli impiegati pubblici e privati". Riferendosi con ciò, per quanto qui trattato, al concorso pubblico per accedere ai pubblici uffici. Non si fa alcun riferimento alla durata temporale dell'impiego ma si riprende pari pari il precedente sistema statale, in cui l'assegnazione a vita dei ruoli della PA creava una casta di carrieristi in vario modo e misura privilegiati rispetto agli italiani "comuni".
In effetti nella società pre-repubblicana l'attività svolta dai lavoratori pubblici non è un compito genuino e libero come qualsiasi altro quanto la realizzazione concreta e fedele di ciò che la monarchia pensa: i pubblici addetti sono il braccio, lo Stato è la mente. Il fulcro del rapporto che li lega è una interessata fedeltà reciproca: in cambio del cieco, muto, sordo e mentalmente atrofico contributo del pubblico dipendente la monarchia gli assicura un ruolo stabile. Solo così infatti essa è in grado di garantirsi un gruppo di sempre obbedienti, fidati perché immutabili, servitori.
Questo legame caratterizza il rapporto tra Stato monarchico e pubblico dipendente sin dalla sua origine. E ripercorrendo la nostra storia, dalla Legge Cavour del 1853, al Fascismo, alle riforme degli anni '50 ed '80, fino alle numerose riforme degli anni '90, per giungere ad oggi, in tutti i casi le successive leggi sono sempre attentissime a non cambiare la sostanza del rapporto. Il pubblico dipendente permane acritico, docile e fermo strumento di un potere centrale assoluto che però nel frattempo ha cessato di esistere con la fine della monarchia e l'inizio della Repubblica!
Proprio con l'avvento di questa, si sarebbe dovuta affermare una concreta e generale partecipazione democratica. Il concetto di Repubblica coincide infatti massimamente con quello di una società/comunità che si autogestisce, autogoverna ed autorinnova in continuazione per il tramite di una partecipazione popolare che si esprime innanzitutto in ambito esecutivo, per un iniziale apprendimento dei modi del vivere comune, e poi, per i migliori, nel più impegnativo ambito deliberativo. Com'è, dunque, che tale estesa partecipazione ancora oggi invece manca, così come ancora manca la consapevolezza della pregna essenza e struttura di una moderna Funzione Pubblica?
Purtroppo nei frenetici giorni della nascita della Repubblica non fu possibile, date le vitali urgenze di quei giorni, sviluppare queste riflessioni. Vedendo scorrere i filmati dell'epoca è evidente la condizione di estrema precarietà che il Paese doveva innanzitutto risolvere. Una volta superate le emergenze si sarebbe potuto e dovuto, allora sì, affrontare con decisione questi temi. Ma l'abietta letargìa cerebrale da indebito privilegio, che aveva caratterizzato fin dalla nascita i carrieristi pubblici, mantenne il sopravvento sulle necessità della giovane Repubblica.
Coloro che, per titoli, incarichi, retribuzioni ed onori ricevuti, avrebbero dovuto trainare in avanti la società con le loro ricerche, studi e riflessioni, prima di altri professori e professoresse universitarie, i ben noti baroni/baronesse, si guardarono bene dal compiere il loro dovere. Ed ancor oggi, sìa eterna loro vergogna, ad un potere deliberante reso sessant'anni fa effettivamente conforme all'ideale repubblicano non fu poi mai affiancato un complessivo potere funzionale, amministrativo e giudiziario, reso conforme anch'esso a tale ideale comunitario/democratico.
La Repubblica Italiana fu di fatto realizzata soltanto per metà ed ancor oggi versa in quelle stesse precarie condizioni. Proprio per questa ragione vera democrazia non si è mai potuta affermare né godere. Perché vera partecipazione mai c'è stata nè mai ci potrà essere fintantoché esisterà la casta dei carrieristi pubblici. Nè mai avremo Governi autorevoli, capaci e giusti, bensì solo autoritari, incapaci ed ingiusti, fintantoché sarà loro facile ricorrere all'uso della forza sulla popolazione per la presenza della fedelissima truppa statale.
Dubbio alcuno non v'è che oggi, in un tempo in cui Internet ha dato ad ogni cittadino la possibilità di ricercare e studiare al di fuori dei fuorvianti e sterili percorsi indicati da baroni e baronesse, tenutari dell'incultura del vecchio Stato ottocentesco all'interno di Università ancora mai rese davvero pubbliche, tocchi proprio a noi semplici esseri umani e persone qualunque, emeriti signore e signori nessuno, portare a termine un processo di evoluzione sociale avviato tanto tempo fa ed ormai sul punto straordinario di giungere a pieno compimento.
Sta a noi semplici cittadini, prima che i carrieristi pubblici finiscano per ricondurre l'Italia alle originarie condizioni pre-repubblicane, raccontare ad ogni amico e conoscente cosa è successo finora e cosa deve ora accadere. Sta a noi persone qualsiasi coinvolgere un movimento progressista incapace di scovare il progresso, invitandolo ad occuparsi della fondamentale Questione Pubblica. Sta a noi tutti scrivere ai redattori delle pubblicazioni sulle quali ci siamo adagiati intellettualmente per dir loro: basta con le fesserie ed andiamo al sodo!
Sta a noi pensare fin d'ora ai grandi festeggiamenti che coroneranno non soltanto questo presente nostro importante lavoro collettivo ma anche quello di tutti coloro che ci hanno preceduti e che, nel lungo scorrere del tempo, col loro impegno, coi loro sacrifici, col loro entusiasmo, hanno fatto avanzare l'umana società.
Sandra dei Sorrisi
Danilo delli Abbracci
Civilmente, legalmente, pacificamente,
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