[Redditolavoro] documento definitivo su guerra e Siria, aperto alla firma di gruppi e reti
procomta
ro.red at libero.it
Wed Jun 27 13:25:36 CEST 2012
La situazione in Siria e il movimento contro la guerra
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>>La grave situazione in Siria, pone i movimenti che in questi anni si sono
>>battuti contro la guerra di fronte a nuovi e vecchi problemi che producono
>>lacerazioni, immobilismo e un vuoto di iniziativa.
Siamo attivi in reti, realtà politiche e movimenti che in questi anni – ed
anche in questi mesi – non hanno esitato a schierarsi contro l’escalation
della guerra umanitaria con cui l’alleanza tra potenze della Nato e
petromonarchie del Golfo, sta cercando di ridisegnare la mappa del Medio
Oriente.
a) Interessi convergenti e prospettive divergenti al momento convivono
dentro questa alleanza tra le maggiori potenze della Nato e le potenze che
governano “l’islam politico”. E’ difficile non vedere il nesso tra l’invasione/disgregazione
della Libia, l’escalation in Siria, la repressione saudita in Barhein e
Yemen e i tentativi di normalizzazione delle rivolte arabe lì dove sono
state più impetuose (Tunisia, Egitto). La dottrina del Dipartimento di Stato
Usa “Evolution but not Revolution” aveva decretato quello che abbiamo sotto
gli occhi come l'unico sbocco consentito della Primavera Araba. Da queste
gravi responsabilità è impossibile tenere fuori le potenze dell'Unione
Europea, in particolare Francia, Gran Bretagna e Italia, che hanno prima
condiviso l’aggressione alla Libia, hanno mantenuto intatto il loro sostegno
politico e militare ad Israele ed oggi condividono la stessa politica di
destabilizzazione per la Siria.
b) I movimenti che si oppongono alla guerra, in questi ultimi anni hanno
dovuto fare i conti con diverse difficoltà. La prima è stata la rimozione
della guerra dall’agenda politica dei movimenti e delle forze della sinistra
o, peggio ancora, una complice inerzia verso le aggressioni militari come
quella in Libia. Dalla “operazione di polizia internazionale in Iraq” del
1991 alla “guerra umanitaria in Jugoslavia” nel 1999 per finire con le
“guerre per la democrazia” del XXI Secolo, le guerre asimmetriche scatenate
dai primi anni Novanta in poi dalle coalizioni di grandi potenze contro
paesi più deboli (Iraq, Somalia, Afghanistan, Jugoslavia, Costa d'Avorio,
Libia), hanno sempre cercato una legittimazione morale che poco a poco
sembra essere penetrata anche nella elaborazione e nel posizionamento di
settori dei movimenti pacifisti e contro la guerra. I sostenitori della
“guerra umanitaria” statunitensi ma non solo, stanno cercando di definire
una cornice legale agli interventi militari attraverso la dottrina del
“Rights to Protect” (R2P). Gli obiettivi di queste guerre sono stati sempre
presentati come la inevitabile rimozione di capi di stato o di governi
relativamente isolati o addirittura resi invisi alla cosiddetta “comunità
internazionale” sia per loro responsabilità che per le martellanti campagne
di demonizzazione mediatiche e diplomatiche.
c) Saddam Hussein, Aydid, Milosevic, il mullah Omar, Gbagbo, Gheddafi e
adesso Assad, sono stati al centro di una vasta operazione di cambiamento di
regime che è passata attraverso gli embarghi, i bombardamenti e le invasioni
militari da parte delle maggiori potenze della Nato e i loro alleati
regionali, operazioni su vasta scala che hanno disgregato paesi immensamente
più deboli perseguendo la “stabilità” degli interessi occidentali attraverso
la destabilizzazione violenta di governi o regimi dissonanti. A prescindere
dalle maggiori o minori responsabilità di questi leader verso il benessere e
la democrazia dei loro popoli, le maggiori potenze hanno agito
sistematicamente per la loro rimozione violenta attraverso aggressioni
militari e imposizione al potere di nuovi gruppi dirigenti subordinati agli
interessi occidentali.
Seppure negli anni precedenti la consapevolezza che la divisione tra
“buoni e cattivi” non sia mai stata una categoria limpida e definita – anzi
è servita a occultare le vere motivazioni delle guerre - nel nostro paese ci
sono stati movimenti di protesta che si sono opposti alla guerra
prescindendo dai soggetti in campo e che si sono posizionati sulla base di
una priorità: quel no alla guerra senza se e senza ma che in alcuni momenti
ha saputo essere elemento di identità e mobilitazione straordinario. Sembra
però che la coerenza con questa impostazione si stia sempre più affievolendo
e in alcuni casi ribaltando. La macchina del consenso alle guerre ha visto
infatti crescere gli elementi di trasversalità. Prima erano solo personalità
della destra a sostenere gli interventi militari, adesso vi si arruolano
anche uomini e donne della sinistra. Questa difficoltà era già emersa nel
caso dell'aggressione militare alla Libia ed oggi si rivela ancora più
lacerante rispetto alla possibile escalation in Siria.
e) Le iniziative contro la guerra che ci sono state in questi mesi, seppur
minoritarie, sono riuscite a ostacolare l’arruolamento attivo di alcuni
settori pacifisti nella logica della guerra umanitaria, hanno creato una
polarizzazione che in qualche modo ha esercitato un punto di tenuta di
fronte alla capitolazione politica, culturale del pacifismo e
dell'internazionalismo. Ma la realtà sta incalzando tutte e tutti, ragione
per cui è necessario affrontare una discussione nel merito dei problemi che
la crisi in Siria ci porrà davanti nei prossimi mesi.
In tutte le guerre asimmetriche – che di fatto sono aggressioni
unilaterali - le potenze occidentali hanno sempre lavorato per acutizzare le
contraddizioni e i contrasti esistenti nei paesi aggrediti. La questione
semmai è che l'ingerenza esterna da parte delle potenze della Nato e dei
loro alleati ha agito sistematicamente per una deflagrazione violenta dei
contrasti interni che consentisse poi l'intervento militare e servisse a
legittimare la “guerra umanitaria”. La guerra mediatica ha bisogno sempre di
sangue, orrori, cadaveri, stragi da gettare nella mischia e negli occhi
dell'opinione pubblica. Di solito le notizie su questo vengono martellate
nei primi venti giorni. Smentirle o dimostrarne la falsità o la maggiore o
minore manipolazione, diventa poi difficile se non impossibile. Ciò
significa che tutto viene inventato o manipolato? No. Ma un conflitto
interno senza ingerenze esterne può trovare una soluzione negoziata, se le
ingerenze esterne lavorano sistematicamente per impedirla si arriva sempre
ai massacri e poi all'intervento militare “stabilizzatore”. Chiediamoci
perchè tutti i piani e gli accordi di pace in questi venti anni sono stati
fallire (ultimo in ordine di tempo quello di Kofi Annan sulla Siria). Il
loro fallimento è funzionale al fatto che l'unico negoziato accettabile per
le potenze occidentali è solo quello che prevede la resa o l'uscita di
scena – anche violenta – della componente dissonante. Questo è quanto
accaduto ed è facilmente verificabile da tutti.
Le soluzioni avanzate dalle sedi della concertazione internazionale
(Consiglio di Sicurezza dell’Onu, organizzazioni regionali come Unione
Africana, Lega Araba e Alba), non state capaci di opporsi alle politiche di
“cambiamento di regimi” decise dagli Usa o dalla Ue. I leader dei regimi o
dei governi rimossi, hanno cercato in più occasioni di arrivare a
compromessi con gli Usa o la Nato. Per un verso è stata la loro perdizione,
per un altro era una strada sbarrata già dall'inizio. Più cercavano un
compromesso e maggiori diventavano le sanzioni adottate negli embarghi. Più
si concretizzavano le condizioni per una ricomposizione dei contrasti
interni e più esplodevano autobombe o omicidi mirati che riaprivano il
conflitto. Se l'unica soluzione proposta diventa il suicidio politico o
materiale di un leader o lo sgretolamento degli Stati, qualsiasi negoziato
diventa irrilevante.
Dalla storia della Siria non sono rimovibili le modalità autoritarie con
cui in varie tappe è stata affrontata la domanda di cambiamento di una parte
della popolazione siriana. Non è possibile ritenere che la leadership
siriana sia l’unica a aver gestito in modo autoritario le contraddizioni e
le aspettative nel mondo arabo. Questa caratteristica è comune a tutti i
paesi del Medio Oriente ed è una conseguenza dell'imposizione dello Stato di
Israele nella regione e un retaggio del colonialismo. Ciò non giustifica la
leadership siriana ma ci indica anche chiaramente come la sua sostituzione
non corrisponderebbe affatto ad un avanzamento democratico o rivoluzionario
per il popolo siriano. E’ sufficiente guardare quale tipo di leadership si è
impossessata del potere una volta cacciati Mubarak in Egitto, Ben Alì in
Tunisia, Gheddafi in Libia o chi sta imponendo il tallone di ferro su
Barhein, Yemen, Oman. Sono paesi in cui c’è gente che ha lottato seriamente
per maggiore democrazia e diritti sociali più avanzati, ma chi ne sta
gestendo le aspettative sono le potenze della Nato, le petromonarchie del
Golfo e le componenti più reazionarie dell’islam politico. Le componenti
progressiste della Primavera Araba sono state – al momento – isolate e
sconfitte da questa alleanza tra potenze occidentali e le varie correnti
dell’islam politico.
Dentro la crisi in corso in Siria, la leadership di Bashar El Assad ha
conosciuto due fasi: una prima in cui ha prevalso la consuetudine
autoritaria, una seconda in cui è cresciuto il peso politico delle forze che
spingono verso la democratizzazione. I risultati delle ultime elezioni
legislative non sono irrilevanti: ha votato il 59% della popolazione
nonostante la guerra civile in corso in diverse parti del paese (in Francia,
in condizioni completamente diverse, alle ultime elezioni ha votato il 53%,
in Grecia nelle elezioni più importanti degli ultimi decenni ha votato il
62%); per la prima volta si è rotto il monopolio politico del partito di
governo, il Baath, e nuove forze sono entrate in Parlamento indicando questa
rottura come obiettivo pubblico e dichiarato, si è creato cioè l'embrione di
uno spazio politico reale per un processo di democratizzazione del paese; le
forze che si oppongono alla leadership di Assad vedono prevalere le
componenti armate e settarie, un dato che si evidenzia nei massacri e
attentati che vengono acriticamente e sistematicamente addossati alle truppe
siriane mentre più fonti rivelano che così non è. Le forze di opposizione
con una visione progressista sono ridotte a ben poca cosa e non potranno che
essere stritolate dall’escalation in corso; infine, ma non per importanza, l’ingerenza
esterna è quella che sta facendo la differenza. Non è più un mistero per
nessuno che le forze principali dell’opposizione ad Assad siano sostenute,
armate e finanziate dall’alleanza tra le potenze della Nato (Turchia
inclusa) e i petromonarchi di Arabia Saudita e Qatar. E’ un’alleanza già
sperimentata in passato sia in Afghanistan che nei Balcani e nel Caucaso, un’alleanza
che si è rotta alla fine degli anni Novanta e poi ricomposta dopo il
discorso di Obama al Cairo che annunciava e auspicava gli sconvolgimenti nel
mondo arabo. Queste forze e l’alleanza internazionale che li sostiene
puntano apertamente ad una guerra civile permanente e diffusa per
destabilizzare la Siria. I corridoi umanitari a ridosso del confine con
Turchia e Libano e la No fly zone, saranno il primo passo per dotare di
retrovie sicure i miliziani dell’Esercito Libero Siriano, spezzare i
collegamenti tra la Siria e i suoi alleati in Libano (Hezbollah
soprattutto), destabilizzare nuovamente il Libano e rompere il Fronte della
Resistenza anti-israeliana. Se il logoramento e la destabilizzazione tramite
la guerra civile permanente non dovesse dare i risultati desiderati, è
prevedibile un aumento delle pressioni sulla Russia per arrivare ad un
intervento militare diretto delle potenze riunite nella coalizione ad hoc
dei “Friends of Syria” guidata dagli Usa ma con molti volonterosi
partecipanti come la Francia di Hollande o l’Italia di Monti e del ministro
Terzi.
In questi anni, nelle mobilitazioni in Italia contro la guerra o per la
Palestina, abbiamo registrato ripetuti tentativi di gruppi e personaggi
della vecchia e nuova destra di aderire e partecipare alle nostre
manifestazioni. Un tentativo agevolato dall’abbassamento di molte difese
immunitarie nella sinistra e nei movimenti sul piano dell’antifascismo ma
anche dalla voragine politica lasciata aperta dall’arruolamento di molta
parte della sinistra dentro la logica eurocentrista, dalla subalternità all’atlantismo
e dalla complicità – o al massimo dall’equidistanza – tra diritti dei
palestinesi e la politica di Israele. Se la sinistra e una parte dei
movimenti hanno liberato le piazze dalla mobilitazione contro la guerra, dal
sostegno alla resistenza palestinese e araba ed hanno smarrito per strada la
loro identità, è diventato molto più facile l’affermazione di alcuni gruppi
marginali della destra e della loro chiave di lettura esclusivamente
geopolitica ed eurasiatica della crisi, dei conflitti e delle relazioni
sociali intesi come lotta tra potenze. I gruppi della destra veicolano un
antiamericanismo erede della sconfitta subita dal nazifascismo nella seconda
guerra mondiale e completamente avulso da ogni capacità di lettura dell’egemonia
imperialista sia nel suo versante statunitense che in quello europeo. Una
chiave di lettura sciovinista e reazionaria che nulla a che vedere con una
identità coerentemente anticapitalista ed internazionalista. Non solo. La
paura di gran parte della sinistra di declinare la solidarietà con i
palestinesi come antisionista e anticolonialista, ha regalato a questa
destra e alla sua declinazione razzista e antiebraica uno spazio di
iniziativa, cultura e solidarietà che storicamente ha sempre appartenuto
alle forze progressiste. Se si cede su un punto decisivo si rischia di
capitolare poi su tutto lo scenario mediorientale. Se questo è già visibile
anche negli altri ambiti dell’agenda politica e sociale nel nostro paese, è
difficile immaginare che non avvenga anche sul piano della mobilitazione
contro la guerra e sui problemi internazionali. Sulla Palestina e nella
mobilitazione contro la guerra abbiamo sempre respinto ogni tentativo di
connivenza con i gruppi della destra. Intendiamo continuare a farlo ma
vogliamo anche segnalare che – come sul piano sociale o giovanile – è l’assenza
di iniziative e la debole identità della sinistra a facilitare il compito ai
fascisti, non viceversa. E’ necessario dunque che alla coerenza con le
posizioni e il ruolo svolto dalle nostre reti, associazioni, organizzazioni
in questi venti anni e che ha visto schierarci sempre contro la guerra senza
se e senza ma, si affianchi un recupero di identità e di contenuti.
f) La seconda difficoltà che abbiamo dovuto registrare è stata quella di una
lettura superficiale del nesso tra la crisi che attanaglia le maggiori
economie capitaliste del mondo (Stati Uniti ed Unione Europea soprattutto) e
il ricorso alla guerra come strumento naturale della concertazione e della
competizione tra le varie potenze e i loro interessi strategici. Una
concertazione evidente quando si tratta di attaccare e disgregare gli stati
deboli (Libia, Jugoslavia, Afghanistan) , una competizione quando si tratta
di capitalizzare a proprio favore i risultati delle aggressioni militari
(Georgia, Iraq. Libia). Se il colonialismo classico è andato all’assalto del
Sud del mondo per accaparrarsi le risorse, il neocolonialismo è andato a
caccia di forza lavoro a basso costo. Ma dentro la crisi di sistema che
attanaglia le maggiori economie capitaliste del mondo, queste due dimensioni
oggi si sono ricomposte nella loro sintesi più alta e aggressiva. Alcuni di
noi la definiscono come imperialismo, altri come mondializzazione, comunque
la si chiami oggi si è riaperta una competizione a tutto campo per
accaparrarsi il controllo di risorse, forza lavoro, mercati e flussi
finanziari. Questa conquista ha come obiettivo soprattutto l'economia dei
paesi emergenti e quelli in via di sviluppo che molti ritengono poter essere
l’unica via d’uscita e valvola di sfogo per la crisi di civilizzazione
capitalistica che sta indebolendo Stati Uniti ed Unione Europea. In tale
contesto, la guerra come strumento della politica e dell’economia è all’ordine
del giorno. Se pensiamo di aver visto il massimo degli orrori in questi
anni, rischiamo di doverci abituare a spettacoli ben peggiori. L’alleanza –
non certo inedita – tra potenze occidentali, petromonarchie e movimenti
islamici ha rimesso in discussione molti schemi, a conferma che il processo
storico è in continua mutazione e che limitarsi a fotografare la realtà
senza coglierne le tendenze è un errore che rischia di paralizzare l’analisi
e l’azione politica.
I firmatari di questo documento declinano in modo diverso categorie come
imperialismo, mondializzazione, militarismo, disarmo, antisionismo,
anticapitalismo, pacifismo, solidarietà internazionale e internazionalismo,
ma convergono su un denominatore comune sufficientemente chiaro nella lotta
contro la guerra e le aggressioni militari.
Per queste ragioni condividiamo l'idea di promuovere:
Il percorso comune di riflessione che ha portato a questo documento
La costituzione di un patto di emergenza per essere pronti a scendere in
piazza se e quando ci sarà una escalation della Nato e dei suoi alleati
contro la Siria al quale chiediamo a tutti di partecipare
l’impegno ad un lavoro di informazione e controinformazione coordinato
che contrasti colpo su colpo e con ogni mezzo a disposizione la
manipolazione mediatica che spiana la strada a nuove “guerre umanitarie”,
anche in Siria
rete NOwar
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la valutazione di proletari comunisti
I venti di guerra che portano ad una nuova aggressione imperialista nei
confronti della Siria hanno preso a soffiare forte dopo il reciproco
sconfinamento militare e abbattimento dell'aereo turco. La Turchia ha
assunto ora il ruolo di prima fila in questa nuova aggressione, spinta dagli
USA e dalla Nato, ma a sua volta trainante USA e la Nato, perchè trasformare
un incidente sia pur grave in una richiesta di attuazione dell'accordo Nato
che prevede che quando uno dei paesi membri è fatto segno di un'azione
militare tutta la Nato della reagire è evidentemente una forzatura che si
spiega solo con la determinazione e la volontà di arrivare all'aggressione
anti Siria. La Nato, quindi, viene a riunirsi in seduta straordinaria per
fare un atto dovuto.
All'interno della Nato, però, diversi pesi imperialisti, tra cui
l'Italia, non sembrano avere molta voglia di imbarcarsi in una nuova
avventura militare del tipo Libia, tenendo conto anche dei gravi problemi
che attraversano USA, Nato, Italia in Afghanistan.
Nella storia e negli ultimi tempi si è visto molto spesso come alcuni
fatti si producano al di là della stessa volontà dei contendenti per il
complesso di azioni e reazioni e per lo stato incandescente della situazione
in Siria e di tutta l'area. Su due punti però occorre avere una posizione
chiara:
la Siria non è la Libia e il legame Siria/Russia è ben più consistente
di quello con la Libia. Chi interviene in Siria scherza col fuoco e può
trasformare questo focolaio in un incendio dispiegato. Per questo il
comunicato congiunto dei maoisti franco italiani ha segnalato l'importanza
delle contraddizioni interimperialiste.
Noi siamo contro l'aggressione imperialista alla Siria e contro il ruolo
che il nostro paese può avere in essa come membro della Nato e come potenza
imperialista allineata a chi oggi ancora domina la Nato, l'imperialismo USA.
Il governo di Monti come i governo che lo hanno preceduto può trascinarci in
una nuova avventura militare scaricandone i costi sui proletari e le masse
popolari già vessate dallo scaricamento della crisi.
Essere contro l'aggressione imperialista e combatterla non può voler
dire, come insistono sezioni comuniste ml antimperialiste, essere dalla
parte del regime siriano nella contesa interna, e considerare la rivolta
popolare in atto in questo paese da diversi mesi come manovra
dell'imperialismo. Il regime siriano non è un regime antimperialista, è un
regime reazionario socialfascista, legata da sempre al socialimperialismo
sovietico prima e con l'imperialismo russo oggi.
Noi marxisti leninisti maoisti ci battiamo affinchè i proletari e le
masse popolari siriane si liberino di questo regime, autonomamente, e
costruiscano una Repubblica di Nuova Democrazia realmente antimperialista e
realmente dalla parte dei proletari e delle masse arabe in tutta l'area.
Certo, la mancanza di forze autenticamente comuniste e antimperialiste
autonome dal regime siriano pesa nell'orientamento della rivolta in corso in
Siria e facilita il ruolo dell'imperialismo nell'intervenirvi e cercare di
utilizzare la rivolta a fini dell'aggressione alla Siria. Questo rende
quanto mai complessa e difficile la situazione.
Ma una cosa è la situazione difficile in cui orientarsi per fare la cosa
giusta di fase in fase in questa vicenda, altra cosa è il revisionismo che è
la sostanza delle posizioni che appoggiano il regime siriano anche
all'interno del paese.
Proletari comunisti-PCm Italia
26.6.1
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