[Redditolavoro] Fw: Taranto, un operaio dell'Ilva chiede scusa ai malati
cobasta
cobasta at libero.it
Mon Aug 6 08:48:58 CEST 2012
per la chiarezza di chi posta e legge
l'operaio che parla Piero - è uno dei tre membri attuali del direttivo dello
slai cobas per il sindacato di classe ILVA ed è attualmente il più attivo in
fabbrica per portare gli operai ilva a entrare nello slai cobas per il
sindacato di classe all'ilva
anche se è evidente che nell'intervento fatto a tamburi parla come tutti gli
altri a titolo personale
gli operai dello slai cobas per il sindacato di classe all'ilva taranto sono
altrettanto 'liberi e pensanti'
slai cobas per il sindacato di classe ilva taranto
5 agosto 2012
----- Original Message -----
From: "Alessandro Marescotti" <a.marescotti at peacelink.it>
To: "Lista Taranto PeaceLink" <taranto at peacelink.it>; "Lista ecologia"
<ecologia at peacelink.it>
Cc: <news at peacelink.it>
Sent: Saturday, August 04, 2012 5:52 PM
Subject: Taranto, un operaio dell'Ilva chiede scusa ai malati
E l’operaio prese la parola per chiedere scusa ai malati
TARANTO - «Da operaio dell’Ilva chiedo scusa ai bambini del quartiere
Tamburi, agli ammalati. E penso ai morti di tumore». Cala il silenzio a
piazza Gesù Divin Lavoratore, in cielo solo un cenno d’imbrunire. Piero,
operaio dell’area a caldo dello stabilimento siderurgico, prende la parola
durante l’assemblea del comitato di operai e cittadini «liberi e pensanti»,
il giorno dopo il blitz della grande fuga sindacale dal palco di piazza
della Vittoria. E in piazza della Vittoria, ieri mattina, il raduno degli
ambientalisti che hanno incoraggiato la magistratura impegnata con il
Riesame del provvedimento di seuqestro dell’area a caldo Ilva e con gli
arresti eccellenti della dirigenza siderurgica. Piazza Gesù Divin
Lavoratore, la piazza simbolo della città operaia, col Cristo delle
ciminiere troneggiante sull’altare della chiesa, simbolo di un patto tra
fabbrica e città corroso da gas e polveri e che pure costringe a vivere da
separati in casa, chissà poi per quanto ancora.
«Nel mio piccolo - attacca Piero di fronte a un centinaio di persone
radunatesi alle sette di sera in piazza e circondate da un imponente
schieramento di forze dell’ordine - mi sento di chiedere scusa a chi ora
soffre e vive una condizione di malattia legata all’inquinamento. E chiedo
scusa perché ho contribuito a inquinare». Gli uomini che guadagnano da anni
il pane in fabbrica aprono le porte di se stessi e sembra di vedere dentro
di loro, dentro il loro cuore, il dubbio, l’angoscia, la necessità, quasi
esplosa all’improvviso, di guardare in faccia gli altri, i propri
concittadini, di raccontarsi e raccontare una fabbrica chiusa finora in se
stessa.
«La politica ha gravi responsabilità - dice ancora Piero al microfono, nella
sua narrazione che è storia a precipizio lungo un ripido crinale - perché
non ha messo i paletti alle aziende dell’a re a industriale: Ilva, Eni,
Cementir; per evitare l’inquinamento al quartiere Tamburi, a Statte, a Paolo
VI, nel centro della città. La mia azienda dice: abbiamo investito miliardi
per abbattere l’inquinamento. E allora perché si scende in piazza? Perché i
Tamburi sono ancora un quartiere martoriato?».
La voce di Piero s’incrina e le lacrime cominciano a scendere sul viso come
le prime ombre della sera al quartiere Tamburi. Poco lontano da qui un altro
operaio, Peppino Corisi, in due lapidi, aprì e chiuse la parentesi di
operaio ambientalista, iscrivendo la propria tragedia personale e quella di
un popolo: la maledizione per le polveri «per chi poteva fare e non ha
fatto» e il suo personale testamento a futura memoria per «l’ennesimo morto»
di tumore a polmone.
L’ennesimo, un numero. Il numero e l’operaio, la diluizione acida di un’identità
di classe che solo un riscatto di coscienza, ambientale e non ambientalista,
può mutare. Piero torna a identificarsi con la piazza, le sue lacrime
trascinano l’applauso. Certo facile, in questi giorni; inevitabile. Ma solo
un mese fa impossibile, una bestemmia. «Ho famiglia, due figli. Uno
stipendio di 1400 euro e 750 euro di mutuo da pagare. Per quello che sta
accadendo penso con più rabbia alla politica. Doveva fermare l’inquinamento.
E penso con rabbia ai sindacati. Loro avrebbero dovuto dire per primi che si
doveva fermare l’inquinamento. Invece oggi mi ritrovo a pensare a chi lavora
le cozze, al mare così inquinato, al posto di lavoro perso. E mi sento in
colpa».
Piero conclude mentre la sera avvolge nuvole e ciminiere. Piega un attimo la
testa, trattiene il fiato e trova la forza per guardare la piazza, quegli
occhi nei quali cerca sguardi e pensieri uguali al suo dolore: «Chi pagherà
l’inquinamento a Taranto? Lo Stato e le aziende. È l’ora in cui la politica
e le industrie si prendano la loro responsabilità. Risarcire Taranto.
Chiederlo per i malati, i bambini, per chi vive in questa città». La piazza
applaude. Piero non smette di piangere. Poi si riprende e si mescola di
nuovo alla folla, quasi avesse bisogno del suo calore, del suo abbraccio
protettivo. Sembra compiuta una specie di Apocalisse d’acciaio. Tante le
strette di mano, tanti gli incoraggiamenti dei «liberi e pensanti». Per
sentirsi meno solo, in una sera d’agosto al quartiere Tamburi, a Piero può
bastare. [fulvio colucci, gazzetta del mezzogiorno 4/8/2012]
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