[Redditolavoro] Un ottimo riepilogo e cronologia del "caso Pomigliano"

clochard spartacok at alice.it
Tue Sep 21 21:22:02 CEST 2010


Un ottimo riepilogo e cronologia del "caso Pomigliano", prodotto dai compagni internazionalisti di Rivoluzione Comunista.

e







Fiat esige la flessibilità schiavistica della forza-lavoro

Il parziale NO al diktat padronale salva solo la dignità operaia









Con il Gruppo Fiat ci troviamo di fronte a un nuovo

snodo: alla riorganizzazione ultraflessibile e dispotica

dello stabilimento Giambattista Vico di Pomigliano

d’Arco e, da subito, del mercato del lavoro meridionale.

Vediamo cosa bolle in pentola prima di valutare. Il

30 marzo 2010 in un incontro al Ministero dello Sviluppo

Economico l’A.D., Marchionne, illustra alle Organizzazioni

Sindacali un piano diretto «a rafforzare la posizione

strategica produttiva di automobili in Italia» con

l’avvio della produzione della Panda presso lo stabilimento

campano. E chiede di condividerne gli obbiettivi.

Il piano è denominato «Progetto Fabbrica Italia» e

prevede il raddoppio della produzione di automobili in

Italia entro il 2014, passando dalle 650 mila auto odierne

a 1 milione e 400 mila con 270-280 mila Panda a

Pomigliano; prevede inoltre l’esportazione nel 2014 di

1 milione di veicoli, nonché l’investimento di 20 dei 30

miliardi progettati per il mondo. Il piano considera lo

stabilimento di Pomigliano, in cui progetta di investire

700 milioni, il primo test per l’intera Fabbrica Italia. Il

piano si basa poi su due alternative: la A e la B. La prima

ipotizza che il Gruppo produca e venda, nel giro di

4 anni, 6 milioni di veicoli all’anno: 2,2 milioni alla

Chrysler, 3,8 milioni alla Fiat Alfa e Lancia, di cui 1,5

milioni in Italia. La seconda non contiene né numeri né

siti, è un’alternativa al buio, il cui esito è un ridimensionamento

produttivo con la chiusura di uno o più stabilimenti.

Quindi il Gruppo Fiat, mentre esige preventivamente

dai lavoratori la massima flessibilità lavorativa e

personale, non garantisce agli stessi nemmeno la sicurezza

del posto di lavoro.



La robotizzazione della forza-lavoro



Anzi, per investire gli ostentati 700 milioni, esso manda

a casa per due anni i lavoratori collocandoli in Cigs.

Lo staff manageriale punta a raggiungere l’obbiettivo

produttivo attraverso la robotizzazione del lavoratore.

Questa viene realizzata con l’applicazione combinata di

due più recenti metodi di lavorazione: il «Wcm» (World

class manifacturing) e l’«Ergo-Uas». I due metodi, o sistemi,

servono rispettivamente a «ottimizzare i gesti» riducendone

i movimenti al minimo e a trovare soluzioni

ergonomiche più produttive cambiando la sequenza delle

pause (da due di 20 minuti a tre di 10). Il Wcm è una

versione europeizzata del toyotismo. La linea di montaggio

scorre sulla postazione, dove viene ficcato l’operaio;

il quale, a differenza di quanto avviene con la vecchia linea

in cui attrezzi e pezzi da assemblare vengono riposti

in spazi contigui, si ritrova attrezzi e componenti sulla

stessa linea. E così è impostato a compiere operazioni

standardizzate in tempi minimi senza alcuna connessione

con le operazioni precedenti e con l’esperienza di

queste operazioni. Il metodo si adatta poi a pennello al

«just in time» (alla domanda individualizzata e alla riduzione

al minimo delle scorte). L’attesa dei managers è

che, cambiando il Wcm con l’Ergo-Uas, la produttività

salga di oltre il 50%. Quindi l’obbiettivo dell’investimento,

e del riordino hi-tech, non è quello di dare lavoro ma

di estrarre più plusvalore, di aumentare lo sfruttamento

della forza-lavoro.



Il diktat della flessibilità schiavistica



Detto questo passiamo ad esaminare l’arroganza del

comportamento Fiat nei confronti dei lavoratori di Pomigliano.

Marchionne ha subordinato l’investimento all’accettazione

preventiva da parte dei dipendenti delle sue

imposizioni (18 turni settimanali in 6 giorni con riposi a

scorrimento, 120 ore di straordinario obbligatorio, spostamento

della pausa mensa a fine turno, riduzione delle

pause, divieto di sciopero, rifiuto di pagare la malattia

ritenuta anomala) escludendo, su queste pretese senza

fondo, qualsiasi trattativa effettiva. Il 28 maggio, con aria

insofferente, egli afferma che si è perso troppo tempo e

che se si debbono fare gli investimenti questi debbono

partire. L’8 giugno Marchionne consegna ai sindacati il

testo del proprio diktat. L’11 Fim Uilm Fismic Ugl sottoscrivono

il documento. La Fiom rimanda al comitato centrale;

il quale, riunitosi il 14, non dà il proprio assenso rilevando

che il testo cancella il contratto collettivo, supera

le leggi di tutela del lavoro e compromette il diritto di

sciopero. Da ultimo la Fiat impone il referendum ai lavoratori.

Il testo del diktat si compone di 14 articoli. In sintesi

essi stabiliscono: a) 18 turni settimanali di 40 ore, distribuiti

su sei giorni da lunedì a sabato; b) 120 ore di straordinario

obbligatorio; c) pausa mensa a fine turno, utilizzabile

per recuperi e straordinari; d) riposi settimanali a

scorrimento in giorni diversi e senza il distanziamento

minimo di 11 ore; e) riduzione delle pause da 40 a 30 minuti

(di 10 minuti ciascuna); f) attuazione di recuperi anche

per fermate indipendenti; g) divieto di scioperi sui

punti del diktat; h) sanzioni fino al licenziamento nei confronti

di chi contravviene alle clausole del diktat; i) non

retribuibilità della malattia se la media collettiva supera

un limite ritenuto anomalo; l) mantenimento del reparto

confino di Nola. L’investimento è quindi finalizzato a un

supersfruttamento schiavistico. Il 15 giugno i firmatari

del diktat integrano il testo firmato l’8 aggiungendovi un

altro punto. L’aggiunta prevede l’istituzione di una

«Commissione paritetica di conciliazione» e stabilisce

che il mancato rispetto degli impegni assunti dalle organizzazioni

sindacali e le conseguenze che ne derivano

vengano sottoposte, su richiesta di una sola delle parti,

all’esame preventivo dell’organismo istituito.

Il 16 giugno, senza ancora avviare alcun meccanismo

di investimento, Marchionne tira dalle viscere la

stizzosa lagnanza che in Italia si «deve faticare per fare

accettare il lavoro che si dà». E pretende che tutti i dipendenti

appoggino il suo piano e lo suffraghino unanimemente

nel referendum del 22. Il segretario della Cgil,

Epifani, spalleggia la nauseante recriminazione dell’amministratore

delegato e richiama la Fiom a un maggiore

realismo. La Fiom, attraverso il neo-segretario Landini,

invita i lavoratori a partecipare tutti al referendum, suggerendo

anche per evitare ritorsioni, ma senza dare indicazioni

né per il «sì» né per il «no».



Il doppio gioco della Fiom



Veniamo al referendum. La consultazione è preceduta

da doppiogiochismo sindacale interno, da manifestazioni

di solidarietà, da bellicose pressioni esterne. Il 16

si riuniscono gli iscritti alla Fiom. Al termine dell’assemblea

gli esponenti Fiom, riconfermata la loro accettazione

dei turni e di controlli più severi sulle assenze, stabiliscono

di andare al referendum senza prendere alcuna

iniziativa di lotta e lasciando libertà di voto. Un referendum

imposto dal padrone per votare su un suo ricatto si

respinge e basta a difesa della dignità operaia e per non

mettere gli operai gli uni contro gli altri. Non si può accettare

un referendum che ha ad oggetto la rinuncia a diritti

di vita (o a «diritti indisponibili» come dicono i vertici

Fiom), la soppressione dello sciopero e dell’iniziativa

operaia. Un referendum è legittimo solo quando riguarda

scelte dei lavoratori.

Mentre la Fiom si trincera in «disquisizioni giuridiche

» negli altri stabilimenti del gruppo gli operai capiscono

che la campana suona anche per loro e danno vita

a varie manifestazioni di solidarietà. Il 17 scioperano

per 4 ore gli operai della Sevel di Melfi ai quali si uniscono

quelli della Magneti Marelli e di Isri. A Mirafiori si svolgono

cortei interni di protesta contro il diktat davanti la

direzione centrale. I lavoratori di Termini Imerese entrano

in agitazione consci che le stesse condizioni di supersfruttamento

verranno imposte dappertutto. Il 18 gli

operai di Tychy, dove viene prodotta la Panda in Polonia,

manifestano la loro solidarietà agli operai di Pomigliano,

cui trasmettono una lettera con la loro posizione.

In questa lettera gli operai polacchi, dopo avere ricordato

che la Fiat impone ovunque la metodologia delle

«schiene spezzate», dichiarano che essi hanno implorato

il posto di lavoro senza affrontare l’ «identità degli interessi

operai» e che oggi si trovano nelle stesse condizioni

dei lavoratori italiani. E concludono facendo appello

a «non contenderci tra di noi i posti di lavoro ma a

unirci per i nostri interessi internazionalmente e a combattere

senza inginocchiarsi». Questa riflessione e questo

appello sono il miglior contributo e incitamento dato

dall’interno ai lavoratori di Pomigliano.

Il 17 giugno viene pubblicizzato il quesito del referendum.

Questo recita: «Sei favorevole all’ipotesi di accordo

del 15 giugno 2010 sul progetto Futura Panda a Pomigliano

». Ma prima del referendum viene promossa e

inscenata una manifestazione cittadina ad opera dei capetti

Fiat dei politicanti locali dei sindacalisti firmatari a

sostegno del progetto e contro i lavoratori contrari al diktat.

Il 19 sera sfila per le vie di Pomigliano un ibrido corteo,

sotto forma di fiaccolata, di alcune migliaia di persone,

che inneggiano al piano e ammoniscono gli operai

arrabbiati a ingoiare il rospo.



L’esito del «referendum»

una scottatura per Marchionne



Per il 22 mattina, giorno del voto, la direzione aziendale

indice una giornata di formazione allo scopo di ottenere

il massimo di partecipazione alla consultazione.

Sin dalle cinque del mattino sono presenti ai cancelli le

varie sigle del sindacalismo autonomo (Slai Cobas, Cub

Flm Uniti, Confederazione Cobas, Usb) e alcuni raggruppamenti

politici che invitano gli operai a votare no.

Tutti denunziano la Cgil che ha detto di votare sì e criticano

la Fiom che ha assunto un atteggiamento ambiguo:

di sì e di no o di annullamento della scheda. Partecipa

al voto il 95% degli aventi diritto; 4.652 su 4.881;

una percentuale mai vista prima. Il voto dà il seguente

esito: il 62,2% (2.688) si esprime per il sì; il 36% (1.673)

per il no; ci sono 59 schede nulle e 20 bianche. Sommando

al voto contrario gli astenuti e le schede nulle, il

voto sfavorevole tocca il 40%. E se si escludono dalla

conta i voti degli impiegati il voto operaio si divide a metà,

senza contare la prevalenza nel reparto confino di

Nola. L’esito è quindi una scottatura per Marchionne e

per i burocrati sindacali.

Noi abbiamo invitato i lavoratori a respingere il referendum

non tanto perché «illegittimo» come si limita a

dire la Fiom, quanto e soprattutto perché imposto dal padrone

e perché riguarda imposizioni volute dallo stesso,

contro cui l’unica posizione è quella di reagire. Sull’esito

riteniamo ora opportuno fare alcune considerazioni specifiche.

La prima è che la partecipazione plebiscitaria

mai vista non è risultato di una libera scelta dei votanti

bensì del clima di pressione, interna ed esterna, sugli

stessi. La seconda è che il consistente numero dei no

esprime la profonda contrarietà al diktat e al ruffianismo

sindacale. La terza è che un contributo a questo risultato

è venuto dalla componente giovanile più restia agli

straordinari di sabato. La quarta e ultima è che c’è una

netta divisione tra operai che non potrà essere mai ricomposta

se non all’interno di una pratica e di una prospettiva

di classe.

In conclusione sottolineiamo a tutti i lavoratori del

Gruppo Fiat che per approntare una difesa operaia nella

contingenza e per perseguire gli interessi operai nel

presente e in futuro bisogna organizzarsi autonomamente

da ogni formazione sindacale concertativa alternativa

legalitaria professionalistica; costituendo in ogni

fabbrica luogo di lavoro gli organismi proletari di lotta,

coordinandoli territorialmente fino alla costituzione di un

sindacato di classe. È assurdo invocare lavoro a un padronato

feroce, fallito storicamente, che sta in piedi per

distruggere e depredare, che invece di accorciare allarga

con ogni mezzo la giornata lavorativa. Guai ad allungare

la vita a questo padronato sciacallesco; bisogna

scalzarlo dal potere e riappropriarsi dei mezzi di produzione

per sfamare lavoratori e popoli e costruire una società

a misura d’uomo. Infine ciò che è diventato di

estrema urgenza con l’approfondimento della crisi generale,

è che i lavoratori non si facciano concorrenza e non

si rubino reciprocamente il lavoro svendendosi ma che

cooperino sul piano interno e su quello internazionale,

per non scannarsi a vicenda e togliersi il terreno sotto i

piedi. La Fiat vuole riportare a Pomigliano la Panda che

per decenni ha realizzato in Polonia, mettendo sempre i

lavoratori gli uni contro gli altri. È decisivo in questo momento

che operai italiani e operai polacchi concordino

insieme obbiettivi e mete comuni di difesa e di lotta.

Dunque: respingere il diktat Fiat; esigere il pagamento

integrale del salario, la riduzione d’orario; il rispetto della

dignità e dell’iniziativa operaia; il salario minimo garantito

di euro 1.250 mensili intassabili per disoccupati,

precari, cassintegrati, sottopagati.





Milano, 12/9/2010                 http://digilander.libero.it/rivoluzionecom/Supplementi/2010/397/vol12-9-10GruppoFiat.pdf

L’Esecutivo Centrale

di Rivoluzione Comunista
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