[Redditolavoro] Gennaro Carotenuto_Violenza ovunque in America latina

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Sat Sep 11 23:42:11 CEST 2010


Violenza ovunque in America latina






di Gennaro Carotenuto, sabato 11 settembre 2010


I media scoprono periodicamente che il peggior vulnus nel Venezuela di Hugo 
Chávez è non aver saputo affrontare la violenza endemica di una società 
caotica. E così picchiano duro, soprattutto adesso, in campagna elettorale, 
facendo intuire perché proprio ora si interessino di violenza a Sabana 
Grande o perché un morto ammazzato a Chacaito faccia più rumore di dieci o 
cento cadaveri a San Pedro Sula o a Medellin. L’uso politico dell’informazione 
sulla violenza contribuisce ad occultare l’uragano che sta mettendo il 
piombo nelle ali ai molti successi latinoamericani dell’ultimo decennio.
Che il Venezuela, in particolare Caracas, sia assurdamente, tristemente, 
scandalosamente violento, chi scrive lo dice da una decina d’anni. E’ 
violento, crescentemente violentissimo, nonostante in 10 anni la 
disuguaglianza nel paese, come certificano le Nazioni Unite, si sia ridotta 
in Venezuela più che in ogni altro luogo. Anche se l’eredità della IV 
Repubblica era pesantissima, un decennio non è più un breve periodo per 
giudicare. Non è un periodo che ammette indulgenze; testimonia assenteismo o 
incapacità nel merito a patto di aver ragionevolmente chiara la titanicità 
della questione.
La triste realtà è allora che non bastano politiche inclusive, non basta la 
riduzione della povertà, non basta la crescita del welfare, non basta dare 
più scuola e più salute. Anzi, probabilmente, rispetto a società che anche 
in questi anni hanno peggiorato la situazione la differenza è minima. La 
triste realtà è che ci vuole molto di più di un governo popolare per domare 
questo scontro tra ricchezza e povertà, modernità e sottosviluppo, 
consumismo sfrenato e disuguaglianza, polvere bianca, alcool e corruttela 
infinita che colpiscono diversamente ma sconquassano tanto le classi 
dirigenti come quelle popolari in gran parte della regione. Senza scomodare 
l’uomo nuovo di Ernesto Guevara ci vorrebbe una società con meno alcool e 
droga in corpo, meno avidità, meno desideri inevasi, meno frustrazione 
violenta, meno ingiustizia, più possibilità per tutti.



A leggere i giornali però è tutto semplice. Se aumenta la violenza in 
Venezuela è senz’altro colpa del socialismo, anzi, di Hugo Chávez. Però, se 
è endemica in Messico, nessuno si azzarda a supporre che ciò abbia a che 
vedere col capitalismo. E se Cuba è forse il posto meno violento al mondo a 
nessuno viene voglia di dire, pena essere trattato come un cappellaio matto, 
che forse qualche merito è di 50 anni di Rivoluzione.
L’occhio dei media distorce tutto. Alzi la mano chi, soprattutto dopo una 
certa ora, va in giro fischiettando tranquillo nella Zona 1 (il centro) di 
Città del Guatemala e in decine di altre città della regione. E solo un 
mistificatore come Moisés Naím può scrivere su “L’Espresso”[1] che a Ciudad 
Juárez in Messico, con Felipe Calderón, la gente torni ad uscire in strada. 
A far cosa, visto che tutto il centro storico, a ridosso con la frontiera 
con gli Stati Uniti, è una sequenza ininterrotta di negozi chiusi e la 
tensione, nei pochi “antri” (locali) aperti, si taglia col coltello e solo l’eroica 
volontà dei cittadini si ostina a rivendicare il diritto ad una vita 
normale? Di sicuro il signor Naím a Juárez non metterebbe il naso fuori dall’albergo 
ma si pregia di diffondere un’evidente menzogna sulla stampa internazionale.
La realtà è che l’esplosione di una violenza spesso già endemica, ma 
rinnovata nelle forme e nei numeri, in questi anni nei quali crisi e 
crescita si accavallano, è ovunque in America latina. Poche le eccezioni tra 
le capitali: Santiago del Cile, Montevideo, in termini relativi Managua e 
San José, paradossalmente Città del Messico e, sicuramente, l’Avana. Vista 
da paesi come il Guatemala e il Salvador perfino l’infida Caracas sembra una 
città vivibile. Qualsiasi famiglia della classe dirigente guatemalteca 
oramai affronta la strada solo con tre SUV in carovana. Due di scorta, 
avanti e indietro, e il rampollo in mezzo da portare al fast food o in 
piscina. Ovunque l’affare della sicurezza privata, un tema sul quale si 
scrive troppo poco, è una delle principali industrie.
Guardo alle statistiche sui morti ammazzati nel pollicino Salvador, e scopro 
che si passa dai 3.100 morti ammazzati del 2008 ai 4.300 del 2009 ai più di 
5.000 di quest’anno. Respingo la voglia di metterli in proporzione con i 
morti venezuelani e questa scalata non è certo colpa di Mauricio Funes. Ma 
sono numeri che si avvicinano a quelli della guerra civile (70.000 morti 
dall’80 al ‘92). Ed è un quasi raddoppio in due anni senza un vero motivo 
che non sia il piano inclinato di una società dove la vita dei ragazzi delle 
maras non vale nulla, come ha documentato in “La vida loca” Christian 
Poveda, rimettendoci la propria.



Vite a perdere sono anche quelle dei migranti, quelli massacrati nel 
Tamaulipas e quelli che attraversano il Continente cercando un lavoro negli 
Stati Uniti per essere sistematicamente rapinati, sequestrati, stuprati, 
come abbiamo documentato in un’inchiesta pluricitata dalla stampa 
latinoamericana (perfino in un articolo di fondo de La Jornada), ma 
ovviamente ignorata da quella italiana.
Così non vale niente neanche la vita dei ragazzi di Juárez. Con Chiara 
Calzolaio abbiamo titolato il nostro reportage nella più grande città del 
Chihuahua, forse la città più violenta al mondo: “Viaggio al termine del 
neoliberismo”. Come ci ha detto Ignacio Alvarado, giornalista di “El 
Universal”: “il 65% dei morti sono minori di 25 anni e sono figli o nipoti 
delle operaie delle maquiladoras”. Come ci ha spiegato Elizabeth Ávalos, 
sindacalista, ex-operaia: “oggi vivono a Juárez mezzo milione di giovani ai 
quali il modello neoliberale non ha mai offerto nulla, né istruzione, né 
salute, né lavoro e vedono nel narco l’unica possibilità di guadagno e 
riconoscimento sociale”. Se è vero che per spacciare o fare il sicario 
guadagni almeno 1.000 dollari, non c’è partita con “le maquiladoras dove 
pagano salari di 500 pesos settimanali [30 Euro] con contratti che possono 
durare appena 15 giorni”.
Tornando a Caracas, Aram Aharonian, armeno-uruguayo da 30 anni in Venezuela, 
dove ha fondato niente di meno che Telesur, mi accoglie mettendo le cose in 
prospettiva: “Da 40 anni c’è violenza in Venezuela. Prima i detonatori erano 
la povertà e l’esclusione. Adesso i motivi principali sono la droga e il 
consumismo. E’ vero che muore più gente che in Iraq, ma dai dati che ho io 
non c’è più violenza qui che in Brasile, Colombia, Stati Uniti”. Hai ragione 
fratello Aram, uno dei più grandi sognatori e costruttori della Patria 
grande e analista brillantissimo, ma non possiamo considerarlo mezzo gaudio. 
Soprattutto, e in questo c’è un limite chiaro nei meriti del governo 
bolivariano, quel 72% di giovani tra i morti ammazzati dovrebbero trovare 
fonti di lavoro diversificate in un contesto dove il socialismo non può 
essere solo una più equa distribuzione della rendita petrolifera. Chi scrive 
lo sostiene dal 2004 quando lo affermai in presenza del presidente Chávez. A 
sei anni di distanza, non vedo sostanziali cambiamenti.
E’ tuttavia ragionevole la difesa di Aram rispetto all’incredibile capacità 
deformante di media che scelgono di vedere solo quello che a loro conviene. 
Nella storia colombiana “la violencia” è il periodo successivo all’assassinio 
di Jorge Eliécer Gaitán nel 1948, una violenza che dura tutt’ora tra 
paracos, narcos, sicari e violenza urbana e rurale. Eppure, a leggere grandi 
media internazionali come “El País” di Madrid, sembra che in Colombia Álvaro 
Uribe abbia risolto tutti i problemi, e gli unici narcos superstiti 
sarebbero i terroristi delle FARC. Il Messico è violento, ma è un carattere 
tipico di quelle genti fumantine e per fortuna che c’è un meraviglioso 
governo che vive e lotta insieme a noi è l’interpretazione. Invece, se il 
Venezuela è un disastro, è sicuramente e solo per colpa di Chávez. Le 
immagini orribili dell’obitorio di Caracas (vedi foto più in alto), che 
evidentemente il governo bolivariano avrebbe preferito (sbagliando) non 
circolassero, sono quelle che troveremmo entrando negli obitori di mezzo 
continente.
Vivendo con i medici di Barrio Adentro (il programma che ha costruito il 
sistema pubblico di salute in Venezuela), nei quartieri popolari di 
Barcelona, nello Stato Anzoátegui ho verificato come nei fine settimana, 
quando TUTTI gli uomini erano ubriachi, vigeva un vero coprifuoco. Oggi i 
dati macroeconomici, quelli sull’inclusione, sulla diminuzione della 
povertà, premiano l’America latina (lo riconosce oramai perfino l’Economist) 
in Anzoátegui, in Venezuela, nel Continente. Ma quanti uomini avranno 
lasciato il “trago”? Quante risse mortali tra ubriachi in meno? Quante 
rapine sotto l’effetto di stupefacenti?
Tutto ci riporta ad una dimensione continentale. Di fronte all’infinita 
capacità corruttiva del narco, di fronte all’abdicare della classe 
dirigente, di fronte alla violenza, alle armi da fuoco senza controllo, all’alcool 
come piovesse, all’ignoranza atavica dei cinque secoli di colonialismo e a 
quella indotta dalla notte neoliberale, quanti passi indietro si fanno per 
ogni passo avanti?
Scaricate, andate a vedere, se potete, o almeno visitate il sito di “El 
infierno, el México de hoy”, il film di Luís Estrada che Felipe Calderón 
voleva censurare. E’ uscito questa settimana ed è già considerato il film 
simbolo sul Messico nell’anno del bicentenario. Per qualcuno è perfino il 
possibile film simbolo di questa era come “Il viaggio” di Pino Solanas lo è 
stato per la notte neoliberale. E’ la storia di Benjamín García che, dopo 
vent’anni di lavoro, viene espulso dagli Stati Uniti e al suo paese, 
ribattezzato “San Gabriel Narcángel” (San Gabriele Narcangelo), non trova 
altro che unirsi al narco.



A qualcuno tocca ricordare che sono i trattati di libero commercio, le 
imposizioni delle regole dell’FMI all’epoca delle ripetute crisi del debito 
incubate per decenni, tutte scandalosamente favorevoli all’agroindustria, 
negli Stati Uniti o delle multinazionali, ad aver messo in movimento decine 
di milioni di contadini (12 nel solo Messico) liberi di scegliere solo tra 
emigrazione e narco. La crescita della violenza è colpa del modello 
economico, non certo quello socialista che esiste solo a Cuba, dove pure 
proprio l’infima rendita agraria è il punto algido della crisi, ma al quale 
anche i nemici dovrebbero sul piano della violenza e della gestione del 
territorio rendere l’onore delle armi. E’ colpa del modello soprattutto in 
quella versione estrema dell’imprenditorialità neoliberale che è il 
narcotraffico. Lo testimonia proprio il fatto che di sicuro i cambiamenti, 
pur evidenti, di 12 anni di Repubblica Bolivariana, non sono sufficienti a 
far dire che il socialismo (o l’esercizio retorico di Chávez di definirlo 
così) riduca la violenza.
E comunque, anche se la malafede dei media dà i brividi, Chávez, nel fallire 
nell’affrontare l’orrore di quelle decine di migliaia di vite, quasi sempre 
giovani, buttate via, è in ottima compagnia: dalla Colombia fino a ieri di 
Álvaro Uribe alla destra Yunque di Felipe Calderón in Messico. Dalla 
sinistra post Teologia della Liberazione di Lula, a quella “light, light, 
light” come si definisce Álvaro Colom, in un Guatemala dove per il pizzo le 
mafie sparano sistematicamente alla nuca agli autisti d’autobus. Da quella 
di Mauricio Funes in Salvador con i 5.000 morti nel pollicino del Continente 
fino agli Stati Uniti di Barack Obama.
Armi da fuoco, proibizionismo per le droghe e troppa libertà per l’alcool, 
corruzione, classi dirigenti ignobili e persistente disuguaglianza sono i 
mali principali che stanno mettendo piombo nelle ali della rinascita 
latinoamericana. Educazione, uguaglianza e probabilmente una lunga battaglia 
antiproibizionista da combattere qui e negli Stati Uniti i rimedi. In questo 
il referendum californiano sulla liberalizzazione della mariuhana è un test 
importante. Ma ci vorranno decenni per uscire da “la violencia”.
[1] Cfr. M. Naím, Miracolo messicano, “L’Espresso”, 13 maggio 2010, al quale 
replicò G. Minà, Ecco chi paga Moisés Naím, Freedom House, Reporter sans 
Frontiéres e la loro informazione al guinzaglio, in “Latinoamerica e tutti i 
Sud del mondo”, 2010, n. 110/111, pp. 12-21.


Gennaro Carotenuto su http://www.gennarocarotenuto.it 



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