[Redditolavoro] [Fwd: I: Newsletter LaVocediRobinHood.it]

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Tue Jul 13 07:02:56 CEST 2010


---------------------------- Original Message ----------------------------
Subject: I: Newsletter LaVocediRobinHood.it
From:    "luca finestra" <telefonoviola1996 at yahoo.it>
Date:    Mon, July 12, 2010 10:20 am
To:      antipsichiatriapisa at inventati.org
         ass.alter at tiscali.it
         --------------------------------------------------------------------------



--- Sab 26/6/10, segreteria at avvocatisenzafrontiere.it
<segreteria at avvocatisenzafrontiere.it> ha scritto:


Da: segreteria at avvocatisenzafrontiere.it
<segreteria at avvocatisenzafrontiere.it>
Oggetto: Newsletter LaVocediRobinHood.it
A: telefonoviola1996 at yahoo.it
Data: Sabato 26 giugno 2010, 17:09










 





T.S.O.: CURA O TORTURA? ASSASSINIO MASTROGIOVANNI. LA LEGGE BASAGLIA 32
ANNI DOPO.








di Carmen Iebba e Pietro Palau Giovannetti
Francesco Mastrogiovanni, ucciso dalla malasanità e dall'indifferenza, in
regime di ricovero coatto, presso l'Ospedale di Vallo della Lucania,
Salerno, il 4 agosto 2009.
Un caso destinato a scuotere le coscienze e a fare riflettere su come
vengono gestiti i pazienti e intese le professioni mediche da coloro che
dimenticano troppo facilmente di avere rinnovato il giuramento di
Ippocrate.
___________________________________________________________________
Avvocati senza Frontiere si costituirà parte civile nell'interesse
del Movimento per la Giustizia Robin Hood Onlus che, da oltre 25 anni, si
adopera per il rispetto della legalità e dei diritti umani, a tutela di
interessi diffusi dei cittadini e dei propri associati, contro qualsiasi
forma di discriminazione e abuso di autorità, anche da parte delle
istituzioni sanitarie, offrendo assistenza legale ai soggetti più deboli
in stato di bisogno.
Il processo prenderà il via il prossimo 28 giugno avanti al Tribunale
monocratico di Vallo della Lucania, con ben 18 imputati, a partire dal
primario del reparto di psichiatria e da altri cinque medici del reparto
per avere formato false cartelle cliniche, occultando i disumani
trattamenti, da torturatori medioevali, a cui è stato sottoposto
Francesco Mastrogiovanni, durante il T.S.O., il quale veniva barbaramente
legato mani e piedi per oltre 80 ore, sino a provocarne la morte.
Oltre tre giorni di ininterrotta atroce agonia, ripresa dalla telecamere,
legato al letto di morte, con fasce di contenzione, a piedi e mani, senza
che nessun medico e infermiere in servizio prestasse interesse ai suoi
disperati tentativi di liberarsi e grida di aiuto.
Tre interminabili giorni, si legge nel capo di accusa con decreto di
rinvio a giudizio immediato, senza alcuna interruzione e senza mai venire
slegato né effettuare alcuna visita di controllo, senza cibo né acqua,
ma solo idratandolo con delle flebo. Forse neanche Torquemada avrebbe
avuto tale cinica spietatezza per le torture che seppe infliggere alle
vittime sospettate di falsa conversione, alle donne accusate di
stregoneria e agli eretici.
Sequestro di persona, morte per delitto doloso, in concorso, per avere
provocato il decesso di Francesco Mastrogiovanni, causato da negligenza,
imperizia, e imprudenza consistite nell'aver legato il paziente al letto
di degenza, per più di tre giorni, senza altresì disporre ed effettuare
adeguata sorveglianza e assistenza, onde interrompere il progressivo stato
di prostazione fisica e psichica del paziente, senza dargli cibo né
acqua, ma solo idratandolo con flebo, senza slegarlo nemmeno per brevi
pause ed a singoli arti.
Questi i capi di accusa formulati dal P.M., dr. Francesco Rotondo nei
confronti del primario, medici e infermieri del reparto di psichiatria di
Vallo della Lucania. Lavoro encomiabile quello del P.M. al cui
schiacciante impianto accusatorio e probatorio gli imputati ben
difficilmente potranno sottrarsi, in quanto colti in fallo dalle cartelle
cliniche falsificate e dalla silenziosa testimonianza di una telecamera le
cui crude riprese mai avrebbero forse trovato visibilità ove non fossero
state messe in onda da Mi Manda Rai Tre.
Ma sappiamo bene che spesso malasanità e malagiustizia vanno di pari passo.
Non possiamo quindi fare a meno di ricordare ai nostri molti attenti
lettori sparsi in tutta Italia e nel mondo, il noto brocardo latino:
"Promoveatur ut amoveatur" (che sia promosso per rimuoverlo).
Sarà solo un caso...(?) ma è CERTO che lo scrupoloso P.M. Francesco
Rotondo è stato applicato ad altro incarico, passando dalla Procura di
Vallo della Lucania a quella assai più prestigiosa di Salerno, venendo
frettolosamente sostituito, prima del processo, da altro P.M., nella
persona del Dr. M. Renato Martuscelli, che già nel 1999 chiese ed ottenne
la condanna a circa tre anni di reclusione per resistenza a pubblico
ufficiale e lesioni, nei confronti del povero Francesco Mastrogiovanni,
seppure ben 6 persone presenti ai fatti avessero testimoniato in suo
favore, denunciando che Francesco era stato viceversa vittima
dell'aggressione dei Carabinieri, che lo avevano preso di mira, in quanto
anarchico. Condanna che venne poi integralmente riformata in appello a
Salerno, con condanna dello Stato Italiano per l'ingiusta detenzione di
Francesco.
L'allarmante scelta del nuovo P.M. appare quindi quanto meno incauta e
sconveniente, per cui ci si auspica che il capo dell'Ufficio, ove non
possa consentire al Dr. Rotondo di concludere il processo, provveda alla
sostituzione del P.M. Martuscelli, come previsto dal combinato disposto di
cui agli artt. 53 c. 2 e 36 c. 1 lett. a), b), c), d) c.p.p., sussistendo
gravi motivi e/o quantomeno ragioni di opportunità.
La società civile e i parenti delle vittime si aspettano infatti una
condanna esemplare, senza sconti e impunità, non per giustizialismo, ma
per spirito di giustizia, affinché mai più possano verificarsi nel
nostro Paese trattamenti disumani e degradanti, in danno di persone
inermi. Seppure, mai, nessuna condanna e risarcimento danni potranno
restituire la vita a Francesco Mastrogiovanni, togliendogli le atroci
sofferenze e l'inenarrabile lenta agonia che ha dovuto sopportare prima di
morire, nell'indifferenza generale di un intero ospedale.
A cura del Presidente di Avvocati senza Frontiere
Pietro Palau Giovannetti
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T.S.O.: CURA O TORTURA? ASSASSINIO MASTROGIOVANNI. LA LEGGE BASAGLIA 32
ANNI DOPO. di Carmen Iebba
«Dal momento in cui oltrepassa il muro dell'internamento, il malato entra
in una nuova dimensione di vuoto emozionale; viene immesso, cioè, in uno
spazio che, originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme
curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il
completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua
totale oggettivazione. Se la malattia mentale è, alla sua stessa origine,
perdita dell'individualità, della libertà, nel manicomio il malato non
trova altro che il luogo dove sarà definitivamente perduto, reso oggetto
della malattia e del ritmo dell'internamento.» Questo è il pensiero
dell'uomo e psichiatra Franco Basaglia, che aveva capito più di altri la
necessità di rivoluzionare il rapporto medico-paziente tramutandolo in un
dialogo continuo atto alla comprensione ed alla restituzione al malato
della propria soggettività e dignità, che guardava al manicomio come ad
un carcere in cui si
 perpetrava l'alienazione continua dell'essere umano, dove il malato, il
più debole, veniva costantemente ed in modo inerme dominato dal più
forte, il medico, quello sano di mente per intenderci. Sono trascorsi 32
anni dalla legge 180/78 ispirata proprio alla lotta che Basaglia ha
intrapreso per abbattere le tecniche di cura invasive del manicomio e
dopo 32 anni di evoluzione del pensiero etico medico, le immagini di una
telecamera di sorveglianza di una piccola e spoglia stanza del reparto
psichiatrico dell'Ospedale San Luca di Vallo della Lucania ci mostrano il
lento spegnersi della vita di un uomo di 58 anni, ci mostrano come
si muore in un luogo di pubblica tutela, ci mostrano come in 80 ore si
può cancellare la dignità di un malato [nella specie un uomo buono e
giusto, peraltro del tutto sano di mente, uno stimato maestro, quale era
Francesco, entrato vivo e lucido ed uscito morto] . Come uomo e come
medico Basaglia sarebbe rimasto forse più
 che inorridito amareggiato nel vedere la morte di Francesco
Mastrogiovanni, amareggiato nel percepire che al San Luca il manicomio
non esiste più, ma solo come termine identificativo di un edificio.
Francesco era un professore delle elementari, amante della letteratura,
un intellettuale critico e appassionato. Apparentemente una persona come
tante, ma, in realtà la sua esistenza viene segnata da momenti intensi e
difficili. Nel luglio del 1972, per fatalità o destino diviene testimone
dell'omicidio del giovane missino Carlo Falvella. Gli anni ‘70 sono gli
anni della contrapposizione, fascisti ed antifascisti, stato e antistato,
degli estremismi dogmatici e delle dottrine enfatizzate e demonizzate,
gli anni del rosso e del nero, dove abbracciare un'ideologia di destra o
sinistra portava concettualmente ad assorbire un'idea piuttosto che
un'altra, ma poi, su un piano più concreto, le differenze si
annullavano. Ad un'aggressione si rispondeva con
 un'altra aggressione, dietro al terrorismo nero come a quello rosso si
muovevano le strategie della P2 e dei servizi segreti che alimentavano le
contrapposizioni,  ed ancora adesso si perdono le capacità per
distinguere le vittime dagli assalitori, per giudicare l'esatta posizione
della verità. Anche la Salerno degli anni ‘70 si era trasformata in
una nicchia di tensioni e i fatti del 2 luglio del ‘72 ne sono la prova
inconfutabile. Quel giorno Francesco stava passeggiando con due amici,
Giovanni Marini e Gennaro Scariati, esponenti del movimento anarchico,
lungo via Velia a Salerno. Pur simpatizzando per le idee anarchiche
Francesco non era certamente un militante, era una persona che amava
dibattere e confrontarsi con gli altri sulle questioni di natura
politica, come sottolinea la sorella Caterina.
In quel periodo però il clima era alquanto concitato, Marini stava
indagando sulla morte alquanto sospetta di cinque  anarchici [travolti
misteriosamente da un camion, prima di poter testimoniare sulla strage
di P.zza Fontana a Milano, quella che si rivelerà poi essere <Strage di
Stato>], e l'incontro con un gruppo di missini del
F.U.A.N. coinvolge Mastrogiovanni in un'aggressione, a seguito della
quale viene ferito con una coltellata alla gamba. Il Marini vedendo
l'amico cadere a terra in una pozza di sangue, nel disperato tentativo di
difenderlo, strappa il coltello dalle mani dell'aggressore e colpisce il
Falvella con un fendente all'aorta, che morirà poco dopo in ospedale.
L'accidentale morte del Falvella acquisce le contrapposizioni e una
spirale di odio e vendette, nei
confronti dell'incolpevole, Francesco  Mastrogiovanni, dipinto sino
alla sua morte, dal P.M. di Vallo della Lucania e dai Carabinieri, come
"noto
 anarchico".
Incomincia da qui, suo malgrado, la persecuzione
psichiatrico-giudiziaria del povero Francesco Mastrogiovanni, pacifico
maestro di scuola elementare, costellata da un interminabile percorso di
processi, interrogatori, ingiusta detenzione, fermi illegali, sino a
giungere ai disumanizzanti e ingiustificati T.S.O. (trattamenti sanitari
obbligatori), ma anche se sarà scagionato da ogni tipo accusa,
ricevendo, addirittura, un risarcimento danni per l'ingiusta
detenzione, la sua dicotomia con la Giustizia non terminerà con la piena
assoluzione da quei fatti terribili che hanno dato luogo alla sua odissea
giudiziaria.
Segnato dalla vicenda umana e dalla condanna dell'amico Marini a ben 12
anni di carcere, per buttarsi tutto alle spalle il maestro se ne va su al
Nord per alcuni anni, ma deve portarsi dietro il fardello che lo
Stato ormai gli ha imposto come pena <non scritta>, il suo nome resta
legato al concetto di "anarchico pericoloso" e quando, dopo quindici anni,
nel 1999, ritorna a vivere in provincia di Salerno, pur insegnando nelle
scuole elementari della sua città di origine, Castelnuovo Cilento, il
tempo non sembra essersi mostrato galantuomo nè essergli stato amico,
mancando di cancellare lo stigma di persona pericolosa che, troppo
spesso, per faziosità, arretratezza socio-culturale, ristrettezza
mentale, incapacità di recepire i cambiamenti, porta le istituzioni e i
burocrati dello Stato a ritenere colpevole anche chi è stato assolto e
risarcito.
Il 5 ottobre 1999, infatti, un futile diverbio con un carabiniere
degenera in una condanna a ben tre anni di carcerazione per resistenza a
pubblico ufficiale e lesioni, seppure il povero Francesco anche in questo
caso sia completamente innocente e vittima di una montatura dei
Carabinieri.
Ciò nonostante, sconta un mese in carcere e cinque mesi agli arresti
domiciliari.
Poi, l'assoluzione in appello a Salerno con risarcimento per ingiusta
detenzione.
I fatti del 1972 e del 1999, portano Francesco a vedere
nei rappresentanti delle forze dell'Ordine (forse non a torto), i suoi
persecutori, sviluppando una forma di profondo terrore e una sorte di
fobia per le divise, che lo porta ad evitare qualsiasi contatto, sino
a scappare quando le incontra.
Le divise diventano così, incolpevolmente, il suo tallone di Achille,
con il quale ben potrebbe convivere, come convissero Sacco e Vanzetti,
sino ad essere giustiziati, seppure innocenti.
Francesco, nonostante ciò, è infatti una persona del tutto normale,
razionale e pacifica.
La sua unica "malattia", se proprio così vogliamo definirla, è
<l'insofferenza verso le divise>, da cui teme - non certamente a torto
vista la sua barbara morte - di venire ingiustamente privato della
libertà e sottoposto a disumani trattamenti sanitari obbligatori.
Quello prima del suo assassinio presso l'Ospedale di Vallo della Lucania
non era, infatti, il primo trattamento sanitario obbligatorio, che mai in
nessun precedente caso risulta essere giustificato da particolari stati
emotivi di aggressività o "pericolosità sociale" di Francesco che,
ben lungi dal costituire una minaccia per sè o gli altri, si limitava ad
evitare e/o scappare di fronte alle forze dell'Ordine e a chi indossava
una divisa, nel timore che gli facessero dell'altro male.
Sembra che durante una festa di paese, a Castelnuovo Cilento, la sola
vista di un vigile urbano, impegnato nella direzione del traffico, sia
stata sufficiente per scatenare in lui paura e ad indurlo ad
abbandonare l'auto con il motore ancora acceso. Ma tale episodio, come
altri analoghi banali fatti, non costituivano certamente validi motivi
per internare una persona buona e mite in un reparto psichiatrico e
sottoporla contro la sua volontà a trattamenti degradanti e
disumanizzanti.
In altre situazioni accade che Francesco si nasconde nei cespugli per ore,
terrorizzato dalla vista di un carabiniere. «Franco prima dei fatti del
1999 non aveva mai avuto problemi del genere. Secondo me sia pure
sporadicamente e a distanza di lunghi periodi va incontro a momenti di
forte sofferenza psicologica perché i fatti del 1999 hanno lasciato in
lui un segno profondo. Quando sono andato a trovarlo in carcere mi son
trovato una persona profondamente cambiata, alla quale sembrava che fosse
caduto il mondo addosso. Eppure pensavo che fosse più forte! Nonostante
questi periodi critici Franco riesce sempre a tornare alla vita normale e
al lavoro. Crisi che durano soltanto una, due settimane.».
Queste le parole di Vincenzo Serra, cognato di Francesco che ha sposato
la sorella Caterina e Fondatore del comitato "Verità e giustizia per
Francesco Mastrogiovanni", che sottolineano il peso e la gravità sociale
di questa vicenda, che trae origine dagli avvenimenti del 1972 e del 1999
e ruota intorno alla totale cecità delle istituzioni locali e alla
prepotenza e inadeguatrezza di Carabinieri e strutture sanitarie a
svolgere le loro alte funzioni.
In un paese tranquillo come Castelnuovo Cilento, il ritorno di
Francesco non passa certamente inosservato. Da molti, in specie negli
ambienti restii ai cambiamenti, è visto come il ritorno di un
personaggio scomodo e discusso che determina un ingiusto accanimento nei
suoi confronti, fatto di insulti, angherie e false accuse costruite a
tavolino  dal locale Comando dei Carabinieri e sostenute contro ogni
diversa evidenza testimoniale dal P.M. di Vallo della Lucania, M. Renato
Martuscelli (lo stesso che dovrebbe oggi giudicare i sanitari suoi
presunti carnefici).
Persecuzioni e condanne che segnano in maniera indelebile la vita
di  questo pover'uomo, vittima non già della sua "insofferenza alle
divise", ma della ben più grave e profonda insofferenza delle
istituzioni alle sofferenze dei più deboli e delle vittime della
malagiustizia.
Gli sporadici atteggiamenti paranoici che colpivano Francesco non potevano
infatti indurre il Sindaco del suo paese, per ben due volte, nel 2002 e
nel 2005, a firmare l'ordine di TSO, onde sottoporlo a trattamenti
sanitari coattivi che infine ne provocheranno la morte.
E' così che Franco, come lo chiamano parenti e amici, entra in contatto
con l'allucinante microcosmo del San Luca di Vallo della Lucania e con
l'ultima violenza di Stato.
Ma cosa accade effettivamente il 31 luglio dello scorso anno, prima
dell'ultimo TSO, autorizzato dal Sindaco, che ammette essere un
provvedimento eccezionale ed averne firmati al massimo tre in tutta la sua
vita? 
Il 31 luglio 2009 Franco stava tranquillamente trascorrendo a San Mauro
Cilento alcuni giorni di vacanza in un campeggio, quando i
Carabinieri vanno a prelevarlo per l'ennesima volta con la forza,
circondando il suo bungalow con un inusitato spiegamento di forze, neppure
si trattasse di un pericoloso latitante o di un mafioso. Seppure
non avesse commesso alcun reato, alla vista delle forze
dell'ordine scappa istintivamente verso la spiaggia e si ferma a bere un
caffè e a fumare una sigaretta, mentre viene circondato da terra dai
Carabinieri e dal mare dalla Guardia Costiera. Il tutto per un solo uomo
del tutto inoffensivo, allo scopo di sottoporlo all'ultima atroce modena
tortura pseudosanitaria denominata TSO, che lo porterà alla morte,
presso il famigerato reparto psichiatrico di Vallo della Lucania,
dove Franco scongiurava, senza opporre alcuna forma di resistenza,  di
non essere portato, certo che questa volta non ne sarebbe uscito
 vivo.  
Quello che appare come un dispiegamento di forze per catturare un
importante criminale viene giustificato da ragioni pressoché banali e del
tutto fumose, fermamente contestate dai parenti e conoscenti della
vittima. Mastrogiovanni, la sera del 3 luglio avrebbe generato caos e
panico guidando a forte velocità la sua auto nel centro abitato del
comune di Acciaroli, la mattina successiva la cosa si sarebbe ripetuta nel
centro di Agnone Cilento, provocando il tamponamento di una vettura. Ma
è stranamente il Sindaco del comune di Pollica A. Vassalo, ad avvisare la
polizia municipale e sarà sempre lui a sottoscrivere l'ordine di ricovero
ospedaliero. Singolarmente, a riguardo non risulta alcuna denuncia da
parte di chicchesia e l'autovettura di Franco non riporta alcuna forma di
danno, neppure lieve.
E' quindi fondato il sospetto del povero Franco che se lo avessero
riportato nel lager psichiatrico di Vallo della Lucania, questa volta non
ne sarebbe uscito vivo. Il perchè esatto non lo sappiamo, ma è chiaro
che le ragioni vanno ricercate nell'ottuso accanimento che è stato
costruito intorno alla sua persona e alla figura di "pericolo
anarchico".   
Sono queste le futili giustificazioni di forze dell'ordine, politici e
sanitari, connesse all'ultimo tragico Tso inflitto a Franco, entrato vivo
e lucido ed uscito morto.
Il TSO, "trattamento sanitario obbligatorio" è previsto dalla legge 180
ed assorbito nella legge 833/1978, sostituisce il ricovero coatto e si
dispone quando sono necessari trattamenti urgenti e tali da non consentire
di poter adottare misure extraospedaliere. "Urgenza" è questo il fattore
che caratterizza l'uso di questo dispositivo medico-giuridico, significa
che bisogna ricorrere ad esso solo come ultima alternativa, solo quando
sono fallite tutte le possibilità intermedie di comunicazione con il
paziente, o quando c'è un acuirsi, un collasso, una rapida degenerazione
delle condizioni di salute di una persona tale da renderlo pericoloso per
se stesso e per gli altri. Da qui la previsione estrema di legarlo
al letto di contenzione mani e piedi.  
La dottrina psichiatrica prevede queste disposizioni particolari ma è
improntata, come Basaglia sottolineava, al dialogo, il clinico deve
accertare tipo e qualità di adesione del paziente alle cure in modo
costante e periodico, il Tso può divenire imminente qualora il paziente
non accetti di essere sottoposto volontariamente alle terapie. Se
ripercorriamo la storia di Francesco si appura, con una certa
immediatezza, che nulla di tutto questo è stato rispettato dal personale
medico e di servizio, in quanto Franco era del tutto inoffensivo e
collaborativo. Quando fugge in preda al panico perché tallonato da un
inusitato spiegamento di forze dell'ordine, tenta il tutto per tutto
gettandosi in mare. Rimane in acqua per un paio di ore, ma poi, al momento
della resa, è inerme, non aggredisce nessuno e si lascia praticare
ben tre iniezioni. In queste condizioni il Tso non aveva ragion d'essere
praticato. Non vi era la necessità di effettuare il
 trasporto in ospedale, poiché il paziente non stava rifiutando le cure e
non era aggressivo, ma il personale del 118 continua ad eseguire le
procedure. "Non portatemi a Vallo, li mi ammazzano", implora
Franco quando si lascia caricare nell'ambulanza. Franco pronuncia queste
parole emblematiche, che celano la consapevolezza dell'ambiente e del
trattamento che presupponeva poteva essergli riservato. Ora, il dato di
fatto, è che in quel lager Franco è morto davvero e per tutti quella
frase appare più sensata e lucida di tutte le brutali e ciniche
procedure a cui è stato sottoposto.
Dopo essere rimasto ininterrottamente legato mani e piedi per oltre tre
giorni, senza cibo nè acqua, Franco è morto a causa di un "edema
polmonare", soffocato dalla criminale indifferenza di chi doveva
provvedere a curarlo, assisterlo, nutrirlo e ascoltare le sue grida di
sofferenza.
Ma dal momento che entra nel lager del San Luca, il 31 luglio 2009, fino
al decesso avvenuto il 4 agosto, è un'agonia in piena regola,
paragonabile ad uno scenario medievale. È la trasmissione "Mi Manda
Raitre" che permette di rendere pubblico il video della telecamera di
sorveglianza della stanza in cui Franco entrerà vivo e lucido e morirà
in 4 giorni. Le immagini parlano da sole, hanno un potere di giudizio
insindacabile, come emerge dal video allegato in calce all'articolo.
Alle 12.33 nella stanza entra un uomo sulle proprie gambe, non aggressivo
e non agitato, che mangia e si muove tranquillamente, dopo quasi 2 ore,
alle 14.25 quella stessa persona viene legata mani e piedi al letto ed
inizierà il suo calvario. I lacci della contenzione hanno in questa
storia la stessa importanza di un coltello piantato in un torace. Sono si
previsti, durante un Tso, ma in casi di eccezionalità e per un tempo
necessario ad eseguire quell'operazione che sarebbe impossibile da
svolgere su un paziente ostile, tale da non riuscire fisicamente
a tenerlo fermo. "Durante tutta la degenza il paziente si è mostrato
troppo aggressivo, rifiutava le terapie ed il cibo, il personale era così
impossibilitato ad effettuare un prelievo di sangue," queste le
giustificazioni arrancate da avvocati e medici. Il riscontro delle
immagini fa emergere ben altro, oltretutto gli erano stati somministrati,
sin dall'inizio, sedativi e calmanti.
Dal punto di vista giuridico la contenzione trova ragion d'essere
solo nello stato di necessità, ne consegue che pur volendo attenersi
all'ipotesi di dovere eseguire un prelievo sul paziente, l'eccezionale
misura della contenzione avrebbe potuto occupato non più di pochi minuti
e non  certo ben oltre 80 ore. Si tratta cioè di una eccezionale e
residuale trattamento, che costituisce una eccezione nell'eccezione,
rispetto al trattamento del Tso nel suo complesso, di cui come abbiamo
già visto Franco non necessitiva in alcun modo.
In spregio a ogni protocollo e senso di umanità, per tutto questo
tempo Franco rimane, invece, legato al suo letto di morte, troppo
piccolo, tra l'altro per contenere i suoi 190 cm di altezza, come
sottolinea la nipote Grazia.
Il susseguirsi delle crude immagini della
telecamera ci mostra tutta la sua atroce sofferenza, acuita da una
morsa talmente pressante e persistente, tanto da farlo sanguinare. In un
continuo disperato tentativo di liberarsi, in assenza di aiuto, si
assiste all'agonia di un essere umano che cerca di divincolare il
proprio corpo, intervallata da stati di cedimento, fino alla morte
avvenuta intorno alle 02.00 della notte del 4 agosto. Devono passare,
però, ben sei ore, affinché ciò venga constatato dall'incurante e
cinico personale sanitario.
Alle 7.40, infatti, il video focalizza l'obbiettivo su un maldestro
tentativo di rianimazione, ma, come riportato negli atti, viene prima di
tutto rimossa la coercizione.
In questo allucinante scenario medioevale i medici e gli infermieri
sembrano degli automi.
Nei quattro giorni di torture Franco non viene trattato da paziente nè
da essere umano. 
E' un uomo privato dei suoi più elementari diritti. Come un manichino.
Aghi, flebo, pannoloni, fasce di contenzione, cateteri, è intorno a
questi elementi che si concentrano le uniche "cure". Quando il corpo
denudato violato e sedato dell'uomo ridotto a manichino scivola
continuamente dal letto si risolve tutto rinforzando la contenzione,
quando compare una pozza di sangue che gli scende dal braccio è
sufficiente passare lo straccio per terra, quando il pannolone si
straccia ha poca importanza sostituirlo. Il respiro affannoso che
preannuncia gli ultimi rantoli di vita? 
Tutto è irrilevante e passa inosservato. 
La falsa cartella clinica che inchioda primario, medici e personale
ospedaliero riassume la cinicità e l'ipocrisia che si respirano nel
lager psichiatrico S. Luca di Vallo della Lucania.
Si parla laconicamente di morte per "improvviso arresto cardiaco",
sopraggiunto alle 7.40, ma non c'è traccia alcuna delle
ingiustificate misure della contenzione, che per legge deve essere
dettagliatamente descritta.
Muore così un uomo entrato sano e sottoposto senza alcuna obiettiva
ragione a un trattamento degradante; e  la sua morte per qualcuno è
normale, è frutto di fattori naturali.
Così muore il "pericoloso anarchico" Francesco Mastrogiovanni. Per altri
invece è una questione morale di interesse pubblico sull'uso della
contenzione e del Tso.
Si accendono i riflettori su un reparto di psichiatria italiana. La
sorpresa è che in quel lager la contenzione era una pratica ordinaria
e frequente, era perché adesso, dopo il 4 agosto 2009, non ve ne è più
traccia. Forse è l'effetto delle indagini e dell'attesa del dibattimento
processuale che inizierà il prossimo 28 giugno. Sotto accusa ben 18
persone, tra medici ed infermieri del reparto psichiatrico dell'Ospedale
San Luca di Vallo della Lucania, per falso ideologico, poiché, per
l'appunto, nella cartella clinica sono omesse le trascrizioni riguardanti
i mezzi della contenzione adoperati; sequestro di persona, in quanto il
paziente è stato ininterrottamente legato al letto di degenza per più
di tre giorni senza essere mai liberato ed alimentato soltanto mediante
flebo ed infine, l'accusa di aver cagionato la morte come conseguenza di
un altro delitto e cioè della contenzione.
In questa vicenda non si può ricondurre il tutto ai soli concetti di
malasanità, negligenza o superficialità, in questa storia c'è ben di
più, c'è la morte assurda e paradossale di un uomo insofferente verso lo
Stato che muore in un braccio pubblico dello Stato, nelle mani di persone
che di questo Stato ne sono una proiezione.
C'è il soffocamento del pensiero e dell'esistenza stessa di uno
psichiatra come Franco Basaglia, anche lui si chiamava così per ironia
della sorte, che ha tentato di annullare il potere delle camice di forza,
per poi scoprire che oggi è bastato sostituirle con delle fasce applicate
ai quattro arti e fissate alle sbarre del letto di contenzione. Una forma
di tortura ancora più brutale.
Basaglia dedicò tutta la sua vita contro questo annichilimento del
malato, per abbattere questo atteggiamento autistico del medico, ma di
questo pensiero è stato ereditato ben poco dalla classe politica
e medica, solo una legge in cui il termine manicomio viene solo in
apparenza cancellato. Una legge di cui in molti pare ne abbiano
dimenticato la vera essenza e finalità: «Nel nostro mestiere la
finalità è quella di affrontare, - trovare la maniera di affrontare la
contraddizione che noi siamo: oppressori ed oppressi, e che dinanzi a noi
abbiamo una persona che si vorrebbe opprimere. Bisogna fare in modo che
questo non avvenga. L'uomo ha sempre questo impulso, di dominare l'altro;
è naturale che sia così. E' innaturale quando si istituzionalizza questo
fenomeno oppressivo. Noi rifiutiamo questo discorso. Noi diciamo di
affrontare la vita, perché la vita contiene salute e malattia, e
affrontando la vita noi pensiamo di fare la prevenzione.
 Pensiamo di fare il nostro mestiere: di infermieri, di sanitari, di
medici. »
Carmen Iebba





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