[Redditolavoro] intervista di Le Monde a Julien Coupat

fra frengo at anche.no
Thu May 28 11:43:32 CEST 2009


da http://materialiresistenti.blog.dada.net/post/1207091996/Julien+Coupat


Julien Coupat : "La prolungazione della mia detenzione è una piccola 
vendetta"
LE MONDE | 25.05.09 |

Ecco le risposte alle domande che abbiamo posto per iscritto a Julien 
Coupat. Arrestato il 15 novembre del 2008 per “terrorismo” con otto 
altre persone fermate a Tarnac (Corréze) e a Parigi, è sospettato di 
aver sabotato le linee delle ferrovie francesi. É l'ultimo dei nove ad 
essere ancora incarcerato.

/


Come vivete la vostra detenzione?

/Molto bene grazie. Trazioni, corsa, lettura.

/
Potete ricordarci le circostanze del vostro arresto?

/Una banda di giovani mascherati e armati fino ai denti si è introdotta 
con l'effrazione nelle nostre case. Ci hanno minacciato, ammanettato e 
portati via, non prima di aver fracassato tutto. Ci hanno caricato su 
dei potenti bolidi, correndo a più di 170 km/h sulle autostrade. Nelle 
loro conversazioni, ritornavano spesso su un certo Signor Marion 
(vecchio patron della polizia antiterrorista) i cui exploits virili li 
divertivano moltissimo, come quello consistente nel prendere a schiaffi 
allegramente uno dei suoi colleghi al momento di partire . Ci hanno 
sequestrato per quattro giorni in una delle loro “prigioni del popolo” 
stordendoci con delle domande dove l'assurdo si alternava all'osceno.
Quello che sembrava essere il cervello dell'operazione si scusava 
vagamente di tutto questo circo spiegando che era colpa dei “servizi”, 
quelli in alto, dove si agitava ogni sorta di persone che ci volevano 
moltissimo. Quel giorno i miei rapitori correvano sempre. Certi episodi 
recenti attestano anche che continuano a imperversare in tutta impunità.
I sabotaggi sulle linee SNCF in Francia sono stati rivendicati in 
Germania. Che ne pensate?
Al momento del nostro arresto, la polizia francese era già in possesso 
del comunicato che rivendica, oltre al sabotaggio che vorrebbe 
attribuirci, altri attacchi avvenuti simultaneamente in Germania. Questo 
volantino presenta numerosi inconvenienti: è stato spedito ad Hannover, 
è redatto in tedesco e inviato esclusivamente a dei giornali 
d'oltre-Reno, ma soprattutto non quadra con la favola mediatica sul 
nostro conto, quella di un piccolo gruppo di fanatici che colpiscono il 
cuore dello Stato attaccando tre pezzi di ferro su delle linee di alta 
tensione. Quindi si avrà ben cura di non menzionare troppo questo 
comunicato, né nella procedura né nella menzogna pubblica.
È vero che il sabotaggio delle linee ferroviarie perde molto della sua 
aura di mistero: si trattava semplicemente di protestare contro i 
trasporti di rifiuti nucleari ultraradioattivi verso la Germania per via 
ferroviaria e di denunciare di passaggio anche la grande truffa della 
“crisi”. Il comunicato si conclude con uno stile molto SNCF: 
“ringraziamo i viaggiatori dei treni in ritardo della loro 
comprensione”. Che tatto hanno questi “terroristi”!/


Vi riconoscete nelle qualificazioni di “movimento anarco-autonomo” e di 
“ultrasinistra”?

/Permettetemi di partire da lontano. Viviamo attualmente, in Francia, la 
fine di un periodo di gelo storico il cui atto fondatore fu l'accordo 
stretto tra gollisti e stalinisti nel 1945 per disarmare il popolo col 
pretesto di “evitare una guerra civile”. I termini di questo patto 
potrebbero formularsi velocemente così: mentre la destra rinunciava ai 
suoi accenti apertamente fascisti, la sinistra abbandonava ogni seria 
prospettiva di rivoluzione. Il vantaggio di cui gode, da quattro anni, 
la banda sarkozista è di aver preso l'iniziativa, unilateralmente, di 
rompere questo patto riprendendo “senza complessi” i classici della 
reazione pura – sui folli, la religione, l'Occidente, l'Africa, il 
lavoro, la storia della Francia o l'identità nazionale.
Di fronte a questo potere in guerra che osa pensare strategicamente e 
dividere il mondo in amici, nemici e quantità trascurabili, la sinistra 
resta tetanizzata. La sinistra è troppo vigliacca, troppo compromessa e, 
per dirla tutta, troppo discreditata per opporre la minima resistenza a 
un potere che lei, invece, non osa trattare come un nemico e che incanta 
uno a uno i più astuti tra i suoi elementi. Quanto all'estrema sinistra 
alla Besancenot, quali che siano le sue prove elettorali, e pure se 
uscita dallo stato gruppuscolare in cui vegeta da sempre, non ha alcuna 
prospettiva che sia più desiderabile da offrire, se non la grisaglia 
sovietica appena ritoccata su Photoshop. Il suo destino è quello di 
deludere.
Nella sfera della rappresentazione politica, il potere che è al governo 
non ha quindi nulla da temere, da nessuno. E certamente non sono le 
burocrazie sindacali, più vendute che mai, che lo importuneranno, visto 
che da due anni danzano col governo un balletto veramente osceno. In 
queste condizioni, la sola forza che la gang sarkozista si trova di 
fronte, il suo solo reale nemico in questo paese, è la strada, la strada 
e le sue antiche inclinazioni rivoluzionarie. Essa solamente, infatti, 
nelle sommosse che sono seguite al secondo turno del rituale 
plebiscitario del maggio 2007, ha saputo issarsi all'altezza della 
situazione. Essa sola, nelle Antille o nelle recenti occupazioni delle 
fabbriche o delle facoltà, ha saputo far intendere un'altra parola.
Questa sommaria analisi del teatro delle operazioni si è imposta molto 
presto visto che i servizi segreti facevano apparire fin dal giugno 
2007, sotto la penna dei giornalisti ai loro ordini (e specialmente in 
Le Monde) i primi articoli che svelavano il terribile pericolo che 
pesava sulla vita sociale: gli “anarco-autonomi”. Gli si incolpava, per 
cominciare, dell'organizzazione delle sommosse spontanee, che in molte 
città hanno salutato il “trionfo elettorale” del nuovo presidente.
Con questa favola degli “anarco-autonomi” si è disegnato il profilo 
della minaccia al quale la ministra dell'interno si è docilmente 
applicata, con arresti mirati e retate mediatiche, per dargli un po' di 
carne e qualche viso. Quando non si arriva più a contenere ciò che 
deborda, si può ancora assegnarli una casella e incarcerarlo. O quello 
di “casseur” in cui si incrociano ormai alla rinfusa gli operai di 
Clairox, i ragazzini delle cités, gli studenti che bloccano e i 
manifestanti dei contro-summit, una operazione che certo é sempre 
efficace nella gestione corrente della pacificazione sociale, la quale 
permette di criminalizzare degli atti, non delle esistenze. Ed è infatti 
intenzione del nuovo potere di attaccare il nemico, in quanto tale, 
senza attendere che si esprima. Questa è la vocazione delle nuove 
categorie della repressione.
Poco importa, infine, che in Francia non si trovi nessuno che si 
riconosca come “anarco-autonomo” né che l'ultrasinistra sia una corrente 
politica che ha avuto la sua ora di gloria negli anni '20 e che non ha, 
in seguito, mai prodotto altro che degli inoffensivi volumi di 
marxologia. Del resto, la recente fortuna del termine “ultrasinistra”, 
che ha permesso a certi giornalisti frettolosi di catalogare senza colpo 
ferire gli insorti greci dello scorso dicembre, deve molto al fatto che 
nessuno conosce quello che è stata l'ultrasinistra, né che essa sia mai 
esistita.
A questo punto e in previsione dei debordamenti che non possono che 
sistematizzarsi di fronte alle provocazioni di una oligarchia mondiale e 
francese con le spalle al muro, l'utilità poliziesca di queste categorie 
presto non dovrebbero più soffrire di grandi dibattiti. Non si può 
tuttavia prevedere se sarà la categoria di “anarco-autonomo” o di 
“ultrasinistra” a ricevere infine i favori dello Spettacolo, al fine di 
relegare nell'inesplicabile una rivolta che tutto giustifica.

/
La polizia vi considera il capo di un gruppo sul punto di precipitare 
nel terrorismo. Che ne pensate?

/Una così patetica affermazione non può essere che quella di un regime 
sul punto di precipitare nel nulla.

/
Che significa per voi la parola terrorismo?/

Nulla permette di spiegare che il dipartimento dei servizi e della 
sicurezza algerina sospettata di aver orchestrato, con la conoscenza 
della DST, l'onda di attentati del 1995 non sia classificata tra le 
organizzazioni terroriste internazionali. Niente permette di spiegare 
anche l'improvvisa trasmutazione del “terrorista” in eroe della 
Liberazione, in partner frequentabile per gli accordi di Evian, in 
poliziotto irakeno o in “talebano moderato” dei nostri giorni, al passo 
con gli ultimi voltafaccia della dottrina strategica americana. Nulla, 
se non la sovranità. È sovrano, in questo mondo, chi designa il 
terrorista. Chi rifiuta di aver parte a questa sovranità si guarderà 
bene di rispondere alla vostra domanda. Chi ne agogna qualche briciola 
lo farà con prontitudine. Chi non è soffocato dalla cattiva fede troverà 
abbastanza istruttivo il caso di questi due ex-”terroristi” divenuti uno 
il primo ministro d'Israele, l'altro il presidente dell'Autorità 
palestinese, avendo entrambe ricevuto, per colmo, il Premio Nobel della 
pace. La nebbia che circonda la qualificazione di “terrorismo”, 
l'impossibilità manifesta di definirla, non appartiene a qualche lacuna 
della legislazione francese: sono alla base di questa cosa che si può, 
invece, ben definire: l'antiterrorismo, tramite cui si forma piuttosto 
la sua condizione di funzionamento. L'antiterrorismo è una tecnica di 
governo che affonda le sue radici nella vecchia arte della 
contro-insurrezione, della guerra detta “psicologica”, per restare 
cortesi. L'antiterrorismo contrariamente a quello che vorrebbe insinuare 
il termine, non è un mezzo per lottare contro il terrorismo, è il metodo 
con il quale si produce, positivamente, il nemico politico in quanto 
terrorista. Si tratta, attraverso tutta una panoplia di provocazioni, 
infiltrazioni, sorveglianza, intimidazione e propaganda, attraverso 
tutta una scienza della manipolazione mediatica, di “azione 
psicologica”, con la fabbricazione di prove e di crimini, con la fusione 
della sfera poliziesca e giudiziaria, di annientare la “minaccia 
sovversiva” associando, in seno alla popolazione, il nemico interno, il 
nemico politico all'affetto del terrore. L'essenziale, nella guerra 
moderna, è questa “battaglia di cuori e di spiriti” in cui tutti i colpi 
sono permessi. La procedura elementare, qui, è invariabile: individuare 
il nemico al fine di isolarlo dal popolo e dalla ragione comune, esporlo 
sotto le spoglie di un mostro, diffamarlo, umiliarlo pubblicamente, 
incitare i più vili a riempirlo di sputi, incoraggiarli all'odio. “La 
legge deve essere utilizzata come una qualsiasi altra arma dell'arsenale 
del governo e in questo caso non rappresenta null'altro che una 
copertura di propaganda per sbarazzarsi dei membri indesiderabili del 
pubblico. Per avere più efficacia converrà che le attività dei servizi 
giudiziari siano legati allo sforzo della guerra nella maniera più 
discreta possibile”, consigliava già nel 1971, il brigadiere Frank 
Kitson (vecchio generale dell'esercito britannico, teorico della guerra 
controinsurrezionale), che ne sapeva qualcosa.
Per una volta, nel nostro caso, l'antiterrorismo ha fatto un fiasco. Non 
ci si è prestati, in Francia, a lasciarsi terrorizzare da noi. La 
prolungazione della mia detenzione per una durata “ragionevole” è una 
piccola vendetta ben comprensibile a fronte dei mezzi mobilitati e della 
profondità della sconfitta; come è comprensibile l'accanimento un po' 
meschino dei “servizi” dopo l'11 novembre, nell'addossarci per via 
giornalistica i misfatti più fantastici o a spiare il più piccolo dei 
nostri compagni. Quanto questa logica di rappresaglia abbia influenza 
sull'istituzione poliziesca e sul piccolo cuore di giudici, questo è 
quello che avranno il merito di rivelare, in questi ultimi tempi, gli 
arresti cadenzati dei “vicini a Julien Coupat”. Bisogna dire che alcuni 
si giocano, in questo affare, un intero pezzo della loro penosa carriera 
come Alain Bauer (criminologo), altri il lancio di nuovi servizi, come 
il povero Sig. Squarcini (direttore centrale dei servizi), altri ancora 
la credibilità che non hanno mai avuto e che mai avranno, come Michèle 
Alliot-Marie.

/
Voi venite fuori da un ambiente molto agiato che avrebbe potuto 
orientarvi in un'altra direzione.../

"C'è della plebe in tutte le classi” (Hegel).

/
Perché Tarnac? /

Andateci, comprenderete. Se non comprenderete, temo che nulla ve lo 
potrà spiegare.

/
Vi definite un intellettuale? Un filosofo? /

La filosofia nasce come lutto chiacchierone della saggezza originaria. 
Platone comprende già la parola di Eraclito come sfuggita da un mondo 
scomparso. Nell'epoca dell'intellettualità diffusa, non si capisce 
quello che potrebbe significare “l'intellettuale”, se non lo spazio del 
fosso che, dentro di lui, separa la facoltà di pensare dall'attitudine a 
vivere. Sono dei tristi titoli, in verità. Ma, perché, appunto, 
bisognerebbe definirsi?

/
Siete voi l'autore de L'insurrection qui vient ? /

Questo è l'aspetto più formidabile di questo procedimento: un libro 
versato integralmente nel dossier d'istruzione, degli interrogatori in 
cui si cerca di farvi dire che vivete come è scritto nell'Insurrezione 
che viene, che manifestate come preconizza L'insurrezione che viene, che 
avete sabotato le linee dei treni per commemorare il colpo di Stato 
bolscevico dell'ottobre 1917, poiché è menzionato ne L'Insurrezione che 
viene, un editore convocato dai servizi antiterroristi. A memoria 
francese, era molto tempo che non si vedeva il potere prendere paura a 
causa di un libro. Piuttosto si aveva costume di considerare che, finché 
i gauchistes erano occupati a scrivere, almeno non facevano la 
rivoluzione. I tempi cambiano, sicuramente. Le serie storiche ritornano.
Quello che fonda l'accusa di terrorismo che ci riguarda, è il sospetto 
della coincidenza tra un pensiero e una vita; quello che costituisce 
l'associazione a delinquere, è il sospetto che questa coincidenza non 
sia lasciata all'eroismo individuale, ma sarebbe l'oggetto di 
un'attenzione comune. Negativamente, questo significa che non si 
sospetta nessuno di quelli che firmano con il loro nome molte delle 
feroci critiche del sistema al potere di mettere in pratica la minima 
delle loro ferme risoluzioni; l'ingiuria è pesante. Purtroppo, non sono 
io l'autore dell'Insurrection qui vient – e tutto questo affare dovrebbe 
piuttosto convincerci del carattere essenzialmente poliziesco della 
funzione di autore. Ne sono, in compenso, un lettore. Rileggendolo, non 
più di una settimana fa, ho meglio compreso l'astio isterico che vi si 
mette, nelle alte sfere, nel perseguitare i presunti autori. Lo scandalo 
di questo libro è che tutto quello che vi figura è rigorosamente, 
catastroficamente vero, e non finisce di avverarsi ogni giorno un po' di 
più. Perché quello che si avvera, sotto le apparenze di una “crisi 
economica”, di un “crollo della fiducia”, di un “rigetto di massa delle 
classi dirigenti”, è la crisi di una civiltà, l'implosione di un 
paradigma: quello del governo, che in Occidente regola tutto – il 
rapporto degli esseri tra loro non meno che l'ordine politico, la 
religione o l'organizzazione delle imprese. Vi è, a tutti i gradini del 
presente, una gigantesca perdita di dominio alla quale nessuna 
stregoneria poliziesca offrirà rimedio. Non è trafiggendoci di prigione, 
di pignola sorveglianza, di controlli giudiziari e di divieti di 
comunicare col motivo che noi saremmo gli autori di questa lucida 
constatazione, che si riuscirà a far svanire quello che è stato 
constatato. Il proprio delle verità è di sfuggire, appena enunciate, a 
coloro che le formulano. Governanti, non vi è servito a nulla 
consegnarci alla giustizia, tutto al contrario.
/

State leggendo “Sorvegliare e punire” di Michel Foucault. Questa analisi 
appare ancora pertinenete?/

La prigione è il piccolo sporco segreto della società francese, è la 
chiave e non il margine dei rapporti sociali più presentabili. Quello 
che qui si concentra in un tutto compatto, non è un mucchio di barbari 
selvaggi come piace far credere, ma l'insieme delle discipline che sono 
la trama, al di fuori, dell'esistenza cosiddetta “normale”. 
Sorveglianti, cucina, partite di calcio nel cortile, impiego del tempo, 
divisioni, cameratismo, pestaggi, sporcizia delle architetture: bisogna 
aver soggiornato in prigione per prendere la piena misura di quello che 
la scuola, l'innocente scuola della Repubblica, contiene, per esempio, 
di carcerale. Vista sotto questo angolo imprendibile, non è la prigione 
che appare un riparo per i falliti della società, ma è la società 
presente che ha le sembianze di una prigione fallita. La stessa 
organizzazione della separazione, la stessa amministrazione della 
miseria attraverso le canne, la televisione, lo sport e il porno regna 
ovunque ma altrove con forse meno metodo. Per finire, questi alti muri 
non nascondono alla vista null'altro che una verità di una banalità 
esplosiva: sono delle vite e delle anime in tutto simili che si 
trascinano da una parte all'altra dei fili spinati e a causa loro. Se si 
braccano con tanta avidità le testimonianze dell'”interno” che 
esporrebbero i segreti che la prigione nasconde, è per meglio occultare 
il segreto che essa è: quello della vostra servitù, voi che siete 
reputati liberi fintanto che la sua minaccia pesa invisibilmente su 
ognuno dei vostri gesti. Tutta l'indignazione virtuosa che circonda lo 
sporco delle celle francesi e i suicidi a ripetizione, tutta la 
grossolana contro-propaganda dell'amministrazione penitenziaria che 
mette in scena per le telecamere dei secondini devoti al benessere del 
detenuto e dei direttori del carcere che si curano del “senso della 
pena”, in breve: tutto questo dibattito sull'orrore dell'incarcerazione 
e la necessaria umanizzazione della detenzione è vecchia come la 
prigione. Fa anche parte della sua efficacia, permettendo di combinare 
il terrore che deve ispirare con il suo ipocrita statuto di castigo 
“civile”. Il piccolo sistema di spionaggio, di umiliazione e di 
distruzione che lo Stato francese dispone fanaticamente attorno al 
detenuto più di chiunque altro in Europa, non è così scandaloso. Lo 
Stato lo paga ogni giorno al centuplo nelle sue banlieues e in tutta 
evidenza non è che l'inizio: la vendetta è l'igiene della plebe.
Ma la più grande impostura del sistema giudiziario-penitenziario 
consiste sicuramente nel pretendere che esso esisterebbe per punire i 
criminali, quando non fa che gestire gli illegalismi. Qualunque padrone 
– e non solo quello di Total – qualunque presidente di consiglio 
generale – e non solo quello dell'alta Senna – e qualunque poliziotto sa 
che c'è bisogno di illegalismo per esercitare correttamente il suo 
mestiere. Il caos delle leggi è tale, ai nostri giorni, che si fa in 
modo di cercare di non farle troppo rispettare. Per quanto concerne le 
droghe, infatti, si limitano a regolarne il traffico e non lo reprimono, 
che sarebbe qualcosa di socialmente e politicamente suicida. La 
divisione non passa dunque, come vorrebbe la fiction giudiziaria, tra 
legale e illegale, tra gli innocenti e i criminali, ma tra i criminali 
che si giudica opportuno perseguire e quelli che si lasciano in pace 
come richiesto dalla politica generale della società. La razza degli 
innocenti si è estinta da molto tempo e la pena non è ciò a cui vi 
condanna la giustizia: la pena è la giustizia stessa. Quindi non è 
questione per me e i miei compagni di “gridare la nostra innocenza”, 
come la stampa si è ritualmente lasciata andare a scrivere, ma di 
mettere in rotta l'avventurosa offensiva politica che costituisce questa 
procedura infetta. Ecco qualcuna delle conclusioni al quale lo spirito è 
portato nel rileggere Sorvegliare e punire a partire dalla Santé. Si 
potrebbe suggerire, visto quello che i Foucaltiani fanno, da vent'anni, 
dei lavori di Foucault, di spedirli in pensione qui per qualche tempo.

/
Come analizzate quello che vi sta accadendo?/

Disilludetevi: quello che accade a me e ai miei compagni, accade anche a 
voi. Qui risiede, tra l'altro, la prima mistificazione del potere: nove 
persone sarebbero perseguite nel quadro di una procedura giudiziaria di 
“associazione a delinquere in relazione con un impresa terrorista”, e 
dovrebbero sentirsi particolarmente toccate da questa grave accusa. Ma 
non esiste un “affare di Tarnac” e nemmeno un “affare Coupat” o un 
“affare Hazan” (editore dell'Insurrezione che viene). Quello che esiste 
è un'oligarchia vacillante sotto tutti i punti di vista e che diventa 
feroce come ogni potere lo diviene quando si sente realmente minacciato. 
Il Principe non ha altro sostegno che la paura che ispira quando la sua 
vista eccita nel popolo niente altro che odio e derisione.
Quello che esiste, è, davanti a noi, una biforcazione, allo stesso tempo 
storica e metafisica: o passiamo da un paradigma di governo a un 
paradigma dell'abitare al prezzo di una rivolta crudele ma sconvolgente, 
oppure lasciamo che si instauri, su scala planetaria, questo disastro 
climatizzato in cui coesistono, sotto la frusta di una gestione 
“decomplessificata”, una élite imperiale di cittadini e delle masse 
plebee tenute al margine di tutto. C'è dunque una guerra, una guerra tra 
i beneficiari della catastrofe e quelli che si fanno della vita una idea 
meno scheletrica. Non si è mai vista una classe dominante che si suicida 
di buon cuore. La rivolta ha delle condizioni, non ha causa. Quanti 
ministeri dell'identità nazionale, licenziamenti stile Continental, 
retate di sans-papiers o di oppositori politici, ragazzini uccisi dalla 
polizia nelle periferie, ministri che minacciano di privare di diploma 
quelli che osano occupare ancora la loro facoltà, quanti ne occorrono 
per decidere che un tale regime, installato con un plebiscito dalle 
apparenze democratiche, non ha nessuno titolo ad esistere e merita 
solamente di essere buttato giù? È un affare di sensibilità.
La servitù è l'intollerabile che può essere infinitamente tollerato. 
Siccome è un affare di sensibilità e questa sensibilità è immediatamente 
politica (non quella che si chiede “perché vado a votare?”, ma “la mia 
esistenza è compatibile con questo?"), per il potere è una questione di 
anestesia a cui corrisponde l'amministrazione di dosi sempre più 
massicce di divertimento, di paura e di stupidità. E lì dove l'anestesia 
non funziona più questo ordine, che ha riunito contro di lui tutte le 
ragioni di rivoltarsi, tenta di dissuaderci con un piccolo terrore 
adattato alla situazione. Io e i miei compagni non siamo che una 
variabile di questo adattamento. Ci si sospetta come molti altri, come 
molti “giovani”, come molte “bande”, di desolidarizzarci da un mondo che 
sta crollando. Su questo punto solamente non si mente. Per fortuna 
l'accozzaglia di truffatori, di impostori, di industriali, di finanzieri 
e di ragazze, tutta questa corte di Mazarino sotto neurolettici, di 
Luigi Napoleone in versione Disney, di Fouché della domenica che per il 
momento ha in mano il paese, manca del più elementare senso dialettico. 
Ogni passo che fanno verso il controllo di tutto, li avvicina alla loro 
sconfitta. Ogni nuova “vittoria” di cui si vantano allarga un po' di più 
il desiderio di vederli a loro volta vinti. Ogni manovra con la quale 
pensano di confortare il loro potere ha l'effetto di renderlo odioso. In 
altri termini: la situazione è eccellente. Non è il momento di perdere 
il coraggio.


Intervista raccolta da Isabelle Mandraud e Caroline Monnot

Articolo apparso nell'edizione del 26.05.09


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