[Redditolavoro] un'interessante intervista a kurz sulla crisi
CyberGodz
cybergodz at ecn.org
Tue May 26 10:02:49 CEST 2009
giro un'interessante intervista a robert kurz sulla crisi economica. La
paciosa e conservatrice mentalita' di sinistra trovera' le posizioni
espresse sicuramente troppo radicali se non infondate, ma chi vivra' vedra'.
buona lettura :-)
***
http://ozioproduttivo.blogspot.com/2009/04/la-rottura-strutturale-del-capitale-e.html
"La rottura strutturale del capitale e il ruolo della critica categoriale"
INTERVISTA A ROBERT KURZ DELLA RIVISTA ONLINE PORTOGHESE "SHIFT", ZION
EDIÇÕES
-Come si inquadra l'attuale crisi finanziaria nel contesto dello
sviluppo della crisi strutturale del capitale?
É teoricamente sbagliato parlare di una crisi finanziaria indipendente,
la cui «ripercussione» sulla cosiddetta economia reale sarebbe incerta
ed eventualmente moderata. Espressa nei termini della teoria di Marx, la
crisi finanziaria può essere solo una manifestazione della caduta delle
condizioni della valorizzazione reale del capitale. Il sistema
finanziario e del credito non é un settore autonomo, ma una componente
integrante della riproduzione ampliata del capitale totale. Qui sorge
una contraddizione che progressivamente si aggrava. L'espansione del
sistema del credito in sé non è nuova, ha già percorso un processo
secolare. Ciò riflette un meccanismo descritto da Marx come «aumento
della composizione organica del capitale». Con l'aumento della
scientificizzazione della produzione, cresce la proporzione di capitale
costante (macchine, equipaggiamento tecnologico di controllo,
comunicazioni e infrastrutture, etc.) in relazione al capitale variabile
(forza di lavoro produttivo di valore). Corrispondentemente, crescono i
costi preliminari per poter applicare in forma redditizia la forza
lavoro, l'unica fonte di plusvalore. I costi preliminari crescenti
esigono un anticipo del plusvalore futuro nella forma del credito per
mantenere in corso l'attuale produzione di plusvalore, sempre più
differito nel futuro.
Ciò crea una tensione crescente nella connessione interna tra credito e
valorizzazione reale. Nel passato, questa contraddizione poté essere
compensata grazie all'effetto sociale collaterale della
scientificizzazione. L'aumento della produttività deprezza gli alimenti
e, dunque, riduce anche il valore della forza lavoro, in modo che i
costi della sua riproduzione si abbassano. Lo stesso meccanismo che
comporta che la proporzione del capitale variabile (forza lavoro) nella
composizione organica del capitale sia relativamente minore comporta
anche che la forza lavoro abbia a produrre meno valore per la propria
conservazione. Aumenta la proporzione di plusvalore nel totale del
valore reale creato, ciò che Marx designa come produzione di «plusvalore
relativo». Ma ciò si applica solo a ogni forza lavoro individuale
produttiva dal punto di vista capitalistico. Il presupposto perché si
abbia un effetto compensatorio in termini di valorizzazione sociale è,
dunque, che parallelamente si espanda il capitale reale totale e, così,
cresca in termini assoluti il numero dei lavoratori utilizzabili in
condizioni produttive dal punto di vista capitalistico -- malgrado il
minor peso relativo del capitale variabile nella composizione di un
certo capitale monetario avanzato. Inoltre, solo sotto questa condizione
l'anticipo di plusvalore futuro, sempre più differito nel futuro per
mezzo dell'espansione del credito, può essere rimborsato, perlomeno
nella misura in cui la connessione tra credito e valorizzazione reale
non è completamente rotta. Fintanto che questa connessione in qualche
modo funzionava, anche la contraddizione si esprimeva soltanto
relativamente, con la famosa caduta tendenziale del saggio di profitto.
Il saggio di profitto medio si riferisce a un capitale monetario di
qualsiasi ordine di grandezza. Questo saggio va cadendo in un processo
secolare, a causa della crescente quota dei costi preliminari del
capitale costante, il quale non produce qualche nuovo valore ma
trasferisce solamente valore già creato. Ma se la massa sociale totale
del capitale monetario avanzata nell'applicazione produttiva del valore
cresce sufficientemente, può, malgrado la diminuzione del saggio di
profitto per capitale monetario applicato, continuare contemporaneamente
a salire la massa di plusvalore reale assoluto e la massa di profitto
del capitale totale. Marx analizzò questa connessione, nella quale il
risultato storico rimane aperto, nel Primo Volume (produzione di
plusvalore relativo) e nel Terzo Volume (tendenza alla caduta del saggio
di profitto) de Il Capitale. A un livello elementare di «sostanza del
valore» come «sostanza del lavoro», Marx, d'altra parte, parla nei
Grundrisse del fatto che la concorrenza, costringendo all'aumento
permanente della produttività, deve portare finalmente a una riduzione
assoluta della forza del lavoro produttivo di valore e, così, a un
limite storico assoluto della valorizzazione. Su questo aspetto,
tuttavia, la teoria di Marx è rimasta da sviluppare.
La fase fordista è stata l'epoca alta del plusvalore relativo, con
l'espansione. contemporanea del capitale reale totale. Il continuo
anticipo del credito sembrava realizzabile. La teoria di un limite
interno assoluto della valorizzazione era considerata superata, anche a
sinistra. La contraddizione tra il sistema del credito e la produzione
di plusvalore reale raggiunge però un punto culminante nel contesto
della Terza Rivoluzione Industriale, quella della microelettronica,
assumendo una nuova qualità. L'espansione del capitale reale raggiunge i
suoi limiti storici poiché, contemporaneamente, con la nuova qualità
della scientificizzazione, la «sostanza lavoro» produttiva di valore si
scoglie in una scala senza precedenti. L'aumento del plusvalore relativo
per singola forza lavoro comincia a perdere il suo carattere di
meccanismo storico di compensazione. Ciò trasforma la solamente relativa
caduta tendenziale del saggio di profitto per capitale monetario
applicato, in caduta assoluta della massa di plusvalore sociale reale e,
dunque, della massa di profitto. La connessione tra il differimento
dell'ampiamente anticipato plusvalore futuro nella forma del credito e
la produzione del plusvalore reale è irreversibilmente squarciata. Ciò
che si manifesta come una devastante crisi finanziaria è soltanto la
manifestazione empirica della contraddizione maturata nel livello
empiricamente intangibile delle relazioni reali del valore.
Siamo dunque di fronte a una «rottura strutturale» di ordine superiore.
Se fino ad ora si è parlato di una «crisi strutturale» del capitale, per
esempio nel contesto della «teoria delle onde lunghe», era solamente in
relazione alla «transizione» per un nuovo «modello di accumulazione». La
crisi dovrebbe cioè avere solo una funzione di «pulizia», al fine di
aprire il cammino al successivo impeto storico della valorizzazione su
una nuova base tecnologica. Questo è stato il famoso concetto
dell'economista Joseph Schumpeter della potenza del capitale come
«distruzione creativa». Ma la fine dell'era fordista non ha portato a
qualche rottura strutturale «creativa», nel senso di un nuovo «modello
di accumulazione». La tanto invocata transizione per il cosiddetto
«postfordismo» non era che una formula vuota. Ciò che in realtà è
accaduto non è stato altro che la transizione verso la famigerata
«economia delle bolle finanziarie» in cui il sistema del credito è stato
gonfiato molto al di là della capacità decrescente della produzione
reale del valore, in una maniera storicamente senza precedenti.
Qui è sorta, a causa di una percezione positivista, che non riesce a
riconoscere la connessione interna delle relazioni del valore,
l'illusione ottica di un «modello di accumulazione» di fatto nuovo. Da
un lato, il «postfordismo» consisterebbe nella delocalizzazione della
produzione industriale di plusvalore verso la periferia, verso i
cosiddetti paesi emergenti (più recentemente, nella forma del presunto
«miracolo di crescita» asiatico). In realtà, il punto di partenza e la
forza motrice di questa delocalizzazione non è consistita in ricette
monetarie di creazione di valore, ma nel «capitale fittizio» delle bolle
finanziarie senza sostanza, già da tempo slegate dall'applicazione
produttiva della forza lavoro umana. Da questa forma si è messa in
movimento una congiuntura globale del deficit, ora sul punto di una
brusca caduta. Dall'altro lato, il «postfordismo» creerebbe nei centri
capitalistici una cosiddetta «società dei servizi», immaginata come
nuovo campo indipendente della valorizzazione. In realtà si è trattato
in gran parte di settori improduttivi dal punto di vista capitalistico,
come la «prestazione di servizi personali» privata, che non hanno il
loro punto di partenza e il loro sostegno nella creazione reale di
valore e nei rendimenti da qui ottenuti, ma nel rigonfiamento del
«capitale fittizio» e nella mera simulazione dei processi di
valorizzazione. Così, la pretesa transizione verso un'«economia dei
servizi», non si è realizzata come espansione delle infrastrutture
statali, per esempio nella salute e nell'educazione, che già negli anni
'70 è stata un fallimento, ma, piuttosto, nella forma della prestazione
precarizzata dei servizi in piccole imprese private dai bassi salari, e
nella forma di «falso lavoro autonomo», ora entrambe minacciate di
estinzione.
Su questo è necessaria ancora un'osservazione relativamente
all'evoluzione teorica nella sinistra. L'ideologia postmoderna della
«virtualizzazione» ha portato a un adattamento della critica sociale di
sinistra al capitalismo di crisi e simulativo. Si è cominciato sempre di
più a parlare di una crescita appena «finanziariamente indotta», alla
quale si pretendeva adattarcisi «simbolicamente». Le categorie basilari
della critica dell'economia politica di Marx non solo sono rimaste
positivisticamente incomprese, come nel marxismo tradizionale, ma fatte
scomparire del tutto. E il problema della potenza della crisi non solo è
stato ridotto a una «funzione» di «pulizia», ma anche reinterpretato
soggettivamente e semplicisticamente dissolto in «relazioni di volontà
politiche». Paradigmatico del caso è il postoperaismo di Antonio Negri.
Nella misura in cui vi sono «crisi», queste sono interpretate come
reazione «politicamente volontaria» e cosciente, dei capitalisti e delle
loro frazioni, alle gloriose «lotte» della cosiddetta moltitudine. Ma se
l'attuale dinamica di caduta globale è un atto politico deliberato
dell'Impero capitalista, allora lo deve essere più come «reazione» allo
spirito di mia nonna che alle «lotte» ormai da molto tempo soltanto
simboliche di un capitale variabile demoralizzato, senza potere di
intervento reale nei centri capitalistici. Ma, come è spiegato in modo
insuperabile nella teoria di Marx, il vero limite della valorizzazione è
strettamente obiettivo e si erge «dietro le spalle» degli agenti.
L'emancipazione sociale dalla logica capitalista, al contrario, non può
in modo alcuno essere «obiettiva»; e perciò essa esige la critica
radicale delle categorie fondamentali del capitalismo, le quali sono
state «interiorizzate» dall'umanità e ampiamente rimosse dalla sinistra.
La sinistra deve ancora digerire l'obiettività negativa della crisi e
anche confrontarsi con se stessa e con le sue illusioni postmoderniste .
-A Suo avviso, è un buon momento per diffondere una critica radicale del
sistema del capitale? Oppure, considerando che le condizioni materiali
basilari di milioni di esseri umani sono sempre più degradate, non sarà
possibile andare oltre il keynesianismo e la nostalgia dello Stato sociale?
Apparentemente si verifica una delegittimazione generale del
capitalismo, perfino nella classe politica e nelle pagine culturali. Il
concetto in sé di capitalismo è diventato peggiorativo dal giorno alla
notte, come se non fosse sempre stato proclamato «vincitore della
storia». Ma questa «svolta» improvvisa e non mediata non può smettere di
apparire sospetta e indegna di credito. Nelle ultime decadi il
neoliberalismo è penetrato profondamente nella coscienza delle masse in
quanto tendenza verso il «radicalismo di mercato», individualizzazione
astratta e desolidarizzazione di «atomi sociali» autistici. La relazione
individuale diretta con il mercato universale e la concorrenza
universale diventano condizioni di vita e non sono più filtrate
socialmente. Queste forme di vita in una società disintegrata sono ora
colpite con tutta la forza dalla nuova qualità della crisi globale e
scosse nei loro fondamenti.
Si tratta in primo luogo di uno schock della funzione legittimatoria. Lo
«spirito dominante» della svolta neoliberale si è screditato
completamente in modo vergognoso. Fino ad ora, però, il crollo
devastatore è stato percepito in modo perfettamente fantasmatico, cioè
soltanto come spettacolo nei mercati finanziari e nei media globali. Una
notizia catastrofica dietro l'altra, perché la crisi non ha raggiunto
ancora la riproduzione «reale» e la vita quotidiana. I primi preannunci
sono le perdite drammatiche nelle vendite dell'industria dell'automobile
e dei suoi fornitori. Però la dinamica di crisi andrà colpendo
successivamente non solo tutti i settori della produzione di merci
(industria, mezzi di comunicazione e servizi), ma tutte quelle aree
della vita che per decadi sono diventate dipendenti dal rigonfiamento
del credito perché non potevano più essere alimentate dalla produzione
reale del plusvalore e dalla sua redistribuzione sociale;
dall'educazione alla cultura e alla salute, passando per le
infrastrutture locali, fino alle cure rivolte agli anziani, etc. I
programmi di misure onerose per combattere le alterazioni climatiche o
per assicurare la salute, che continuano a essere discussi come se nulla
fosse accaduto, non sono altro che spazzatura.
Questa dinamica di «disintegrazione della disintegrazione» non può
essere adeguatamente digerita dagli individui sociali atomizzati; e
ancor meno al ritmo che essa avanza. Gli esseri umani individualizzati
sono in tutti gli aspetti «creature a credito», non ha importanza la
misura della coscienza di questo fatto. Lo stesso si applica alla
«religione del quotidiano» (Marx) del consumo di merci; il sistema di
carte di credito sarà probabilmente il prossimo collasso del settore
finanziario. Tutto il discorso futile sugli «eccessi speculativi», che
in ultima analisi dovrebbero essere impediti, non può nascondere il
fatto che la dipendenza dal «castello di carte mondiali» della
sovrastruttura finanziaria autonomizzata sia ben ancorata nella
coscienza delle masse, in quanto condizione di vita. Pertanto la
delegittimazione superficiale del «capitalismo» ancora non raggiunge la
critica radicale del modo di produzione e di vita dominante. Solo le
forme del capitale finanziario privato, la banca di investimento, gli
hedge funds, etc., sono percepiti come «capitalisti». A misura che
crolla l'economia delle bolle finanziarie, prima idolatrata, gli «esseri
umani a credito» individualizzati invocano lo Stato per salvare la loro
«pelle a credito» e poter continuare a vivere la loro vita capitalistica
precarizzata. Il sistema di credito privato esaurito deve essere
sostituito dal credito statale, che si vuole immaginare come inesauribile.
Naturalmente questo è un voltafaccia pericoloso. Perché è stata
esattamente la credenza nella capacità illimitata del finanziamento
statale che il discorso neoliberale dominante nelle ultime decadi ha
denunciato come una grande aberrazione. E non è stato solo per ragioni
ideologiche. Quando negli anni '70 la crescita fordista si esaurì e la
connessione tra sistema di credito anticipato e la produzione di
plusvalore reale cominciò a rompersi, fu in primo luogo il credito
statale ad essere allungato oltre la capacità di creazione di valore
sociale, per mantenere la congiuntura in funzionamento attraverso
l'anticipazione del futuro. L'indebitamento statale keynesiano senza
soluzione costituiva già una bolla finanziaria di tipo proprio. Come
risultato, l'inflazione andò sempre più fuori controllo in tutto il
mondo. Il neoliberalismo reagì a questo sviluppo, ma senza comprendere
la sua causa profonda. Esso immaginava che il problema consisteva
solamente in un'espansione eccessivamente forte dell'attività statale e
che si poteva rimediare con la deregolazione radicale del mercato.
Tuttavia, una volta che, nella realtà, l'aumento della composizione
organica del capitale cominciò a trasformarsi in una caduta storica
della massa di plusvalore reale e della massa di profitto, il
rigonfiamento del credito ormai senza soluzione fu solamente dislocato,
dalla svolta neoliberale di Stato, verso le bolle finanziarie di
indebitamento e di speculazione del capitale privato. Dal momento che
questa dislocazione non avveniva sul piano strettamente limitato dello
Stato, ma nel contesto della globalizzazione transnazionale, potè essere
simulata per più di trent'anni, con questa nuova modalità del credito
senza copertura nella creazione del valore reale, una crescita il cui
carattere deficitario solo ora si rivela. Quando ora le élites, così
come la coscienza delle masse, pretendono di regredire immediatamente al
finanziamento statale come ancora di salvataggio, sembrano soffrire di
amnesia. Lo Stato, fino a poco tempo prima demonizzato, è più che mai
elevato, con la migliore delle buone intenzioni, allo statuto di dio che
deve eternizzare il flusso del credito, perché sarebbe «onnipotente»,
oltre i singoli interessi.
Ora, lo Stato non è di fatto un'agenzia indipendente di una «classe
dominante» o di certi gruppi economici, ma l'istanza di potere generale
soggiacente la società, che costituisce l'inquadramento esteriore della
valorizzazione del capitale e di tutte le su «maschere di carattere»
(Marx). Ma necessariamente per questo lo Stato non sta «al di sopra»
delle leggi obiettive del movimento del capitale e non può pretendere di
controllarle o modificarle arbitrariamente; al contrario, esso non ne è
meno soggetto di quanto lo sia il capitale individuale, si trova
solamente su un livello sociale più elevato. Tutto quello che lo Stato
fa deve essere finanziato, tanto quanto tutto quello che è fatto dal
capitale singolo o dagli individui; e la fonte di questo finanziamento
può essere solo la produzione di plusvalore reale. Lo Stato ottiene
rendimenti in denaro a partire da questa fonte originale, sia
direttamente, attraverso le tasse, sia acquistando denaro nei mercati
finanziari, attraverso l'emissione di obbligazioni. Nel secondo caso,
esso stesso è un attore al livello del capitale finanziario ed è
vincolato alle sue condizioni. Che significa questo, nella crisi storica
del credito e della crescita «finanziariamente indotta», da quello
dipendente, di cui oggi soffriamo? I «pacchetti di salvataggio» del
sistema finanziario fino ad ora lanciati dagli Stati, e i programmi
statali di appoggio alla congiuntura in prospettiva ancora non
concretizzatasi in tutto il mondo già ammontano a vari miliardi di
dollari di euro. Dove va lo Stato a ottenere il finanziamento per tutto
questo, se la crisi sta proprio nel fatto che la fonte di creazione del
valore reale si è esaurita e il credito, come anticipo del plusvalore
futuro, si è esaurito? Un aumento drastico delle tasse deprimerebbe
ancora di più la produzione del plusvalore reale già languente. Una
grande massa di titoli di Stato nei mercati finanziari otterrebbe lo
stesso effetto, perché lo Stato si troverebbe a concorrere con le
imprese e con le famiglie per il credito disponibile e così a dover
tirare verso l'alto i tassi di interesse reali.
Se viene speso il denaro delle tasse riscosse dallo Stato e dei prestiti
ottenuti nei mercati finanziari, dal punto di vista della logica della
valorizzazione non si ha qualche produzione, ma soltanto consumo.
Infatti, anche nel caso che, per esempio, si finanzi la costruzione di
strade o di scuole, ciò non darà luogo a qualche nuova creazione di
valore ma sarà prosciugata la produzione reale del passato (imposte) o
del futuro (credito). Ciò è a maggior ragione vero se lo Stato con
questo denaro, nella forma di «pacchetti di salvataggio», intende
soltanto tappare i buchi del sistema finanziario, comprare crediti in
cattivo stato delle banche, etc. Dopo la cessazione definitiva
dell'economia delle bolle finanziarie e della congiuntura di
simulazione, la responsabilità finanziaria statale ascende a valori
molte volte superiori a quelli anteriori, già prima affondati. Una volta
che non è possibile un aumento delle imposte né un'espansione del debito
pubblico nella misura del necessario, resta solo, come ultima ratio,
stampare banconote, creando denaro dal niente, e trasferirlo
direttamente verso lo Stato, senza garanzie né contropartite. Ma la
competenza delle banche centrali per creare moneta è meramente formale,
«esprimendo» soltanto il processo di creazione del valore capitalista
reale, senza poterlo sostituire. Il ricorso diretto all'emissione di
banconote sarebbe la maggiore bolla finanziaria di tutte, e potrebbe
finire solo nella completa svalorizzazione del denaro e di tutti i
crediti, titoli, etc (iperinflazione, bancarotta statale, riforma
monetaria).
La dislocazione del problema del credito dello Stato verso il capitale
finanziario e l'attuale regresso nuovamente verso lo Stato completano un
cerchio senza uscita. Certamente, ora il fallimento sociale mondiale del
sistema capitalista e della sua legittimazione neoliberale costituisce
un campo nel quale si può far valere la critica radicale delle forme
capitalistiche basilari in un modo differente dal passato. Ma questo
ancora non significa, in alcun modo, che questa critica radicale si
renda già suscettibile di adesione della coscienza delle masse, che
ancora si muove interamente nelle categorie del feticismo moderno. É
necessario, in primo luogo, prendere coscienza del paradosso che le
condizioni materiali di esistenza in tutte le aree della vita sono
dipendenti dalla virtualità del credito in dissoluzione. Da questo punto
di vista, gli ostacoli a una negazione della totalità capitalista non
diventano minori, ma maggiori. Se la propria esistenza è minacciata, le
persone si aggrappano con tanta più forza alle condizioni dominanti. Ciò
equivale a dire, oggi, che tutti i progetti di salvataggio del sistema
del credito, per più illusori che siano, hanno uditorio, lo stesso se al
prezzo di sfociare in ideologie assassine (antisemitismo o
proto-antisemitismo). Per maggiore ragione, la critica radicale deve
contrapporsi al mainstream dello spirito del tempo, invece di
lasciarcisi trascinare.
-Come vede l'appropriazione da parte del sistema di concetti classici
della sinistra, come «nazionalizzazione» o «regolazione dei mercati
finanziari»?
Il programma dell'ala radicale del marxismo tradizionale assunse una
formula marziale: la «dittatura del proletariato». Comunque era sempre
l'organizzazione sociale che si trovava al centro dell'attenzione,
benché legata ad una falsa ontologia del lavoro astratto. In realtà, il
programma si trasformò su questa base ideologica in una mera
nazionalizzazione delle categorie capitalistiche, cioè l'opposto
dell'emancipazione sociale. Lo stesso Marx, nella Critica del Programma
di Gotha, polemizzò contro questo feticismo dello Stato, sebbene egli
stesso, in alcune formule precedenti, non ne fosse totalmente libero.
Nella pratica storica dei sistemi della «modernizzazione in ritardo»
(Unione Sovietica, Cina, etc.), il concetto di «Stato dei lavoratori»
ebbe soltanto una funzione legittimatoria per la riproduzione del
capitalismo di Stato. La maggior parte dei partiti socialisti e
comunisti in occidente trasformò questo requisito in un programma di
«nazionalizzazione» delle banche e delle principali industrie del
capitalismo. L'orientamento statale era solo vagamente legato al
paradigma esaurito della «classe lavoratrice». Invece di questo, il
concetto di «nazione» divenne centrale e la «questione sociale» fu
trasformata in una «questione nazionale». Questo «socialismo dai colori
nazionali» assunse un carattere veramente reazionario rispetto alla
«socializzazione mondiale» negativa del capitale. Esso già apparteneva
alla storia della dissoluzione del marxismo tradizionale.
Nell'economia borghese emerse, in reazione alla crisi economica mondiale
degli anni '30, un orientamento statale «moderato», attenuato, sotto la
forma del keynesianismo. Questa dottrina non ebbe mai nulla a che vedere
con le speranze «socialiste» diffuse; al contrario, concepiva se stessa
espressamente come programma di salvataggio del capitalismo con l'aiuto
di interventi statali, la cui base risiedeva nell'espansione continuata
del credito statale. Il «keynesianismo di sinistra» tentò di trasformare
questa dottrina in un senso quasi «socialista». Ma si trattò solo del
vecchio orientamento per il capitalismo di Stato, nuovamente diluito e
alleggerito, degli antichi «partiti operai» da tempo integrati nella
classe politica del capitalismo. Il riferimento alla critica
dell'economia politica di Marx fu definitivamente perso. Il discorso del
keynesianismo di sinistra fondamentalmente non si riferì più all'analisi
categoriale della «valorizzazione del valore» e della dinamica nel
contesto della forma capitalistica di plusvalore relativo, aumento della
composizione organica, caduta del saggio di profitto, né a una teoria
della crisi su questa base. Per questa forma di pensiero la possibilità
di una «crisi categoriale» con la caduta della massa di plusvalore fu
completamente esclusa. Con ciò, anche la «critica categoriale» delle
forme basilari del sistema del feticcio capitalistico diventò ancor meno
percorribile che nel marxismo tradizionale dell'antico movimento
operaio. Invece di ciò, la «critica» cadde in un «trattamento della
contraddizione» nel quadro del capitalismo, non più esplicitamente
contestato, dunque in una forma di «politica economica» borghese
volgare, che dovette far affidamento ciecamente sull'espansione del
credito statale, al fine di poter presumibilmente succhiare il miele
sociale. Quando la scienza economica e la politica economica dominanti,
sulla scia della «rivoluzione neoliberale», ufficialmente allontanarono
la dottrina keynesiana, la sinistra politica teoricamente disarmata
restò con il keynesianismo per conto suo, senza percepire che stava
sposando un cadavere storico. Il keynesianismo appariva adesso come
opposizione fondamentale al neoliberalismo in modo puramente formale,
sebbene esso mai lo sia stata nel suo contenuto.
La recente svolta disperata delle élites economiche e politiche verso il
credito statale rivela i piedi d'argilla dei partiti di sinistra, così
come delle organizzazioni di movimento come ATTAC. Apparentemente,
elementi centrali del keynesianismo per sè consistentemente
reppresentati (statalizzazione o «nazionalizzazione» delle banche ed
eventualmente delle industrie chiave, regolazione dei mercati
finanziari) sono repentinamente oggetto di nuovi onori. Tuttavia, non si
tratta più di uno Stato-provvidenza keynesiano, come nel periodo finale
della prosperità fordista nella decade del 1970, ma di un keynesianismo
d'emergenza del capitale finanziario, che viene di pari passo con
l'aggravamento dell'amministrazione statale antisociale del lavoro e
delle persone. É il paradosso del prolungamento del neoliberalismo con
mezzi quasi keynesiani, perchè nel limite interno resosi storicamente
manifesto della valorizzazione non esiste più una qualche terza opzione.
Il credito statale non sta fluendo verso programmi sociali, educazione,
servizi sanitari etc, ma è lanciato nel buco nero dei bilanci
debilitati. La sinistra keynesiana rimane disarmata di fronte alla nuova
qualità della crisi perché non possiede alcuna nozione della medesima.
Mentre essa crede di presentire la brezza mattinale keynesiana, nella
realtà gli è presentato il conto della sua autoconsegna al modo di
produzione e di vita capitalistici. Se vuole «evolversi» nella nuova
espansione del credito statale portatrice di inflazione, essa stessa
corre il rischio di rendersi parte integrante dell'amministrazione
capitalistica della crisi. Indizi di questo già esistono in tutta
Europa. Nel caso la sinistra di partito e di movimento si renda in
questo senso «politicamente capace» e per le élites del capitale
«socialmente capace», la sua «socialdemocratizzazione» potrebbe sfociare
in una carriera nella base dello stato d'eccezione.
-Che forme di mediazione possono essere stabilite tra le lotte immanenti
per le condizioni basilari della sopravvivenza e la critica delle
categorie di base del sistema del capitale (merce, valore, denaro,
lavoro astratto, Stato, politica)?
Non c'è dubbio che la lotta sociale organizzata extraparlamentarmente
per le necessità materiali e culturali della vita, in resistenza contro
la brutale riduzione del livello di civilizzazione, è l'unica
alternativa alla collaborazione parlamentare «politica» di «sinistra»
con l'amministrazione statale della crisi. Inevitabilmente sorgerà un
contromovimento sociale costituito di nuovo, inizialmente come
«trattamento della contraddizione» immanente, che non delegherà più le
necessità allo Stato ma presenterà esigenze autonome, anche se queste
dovranno essere erette contro lo Stato. É il caso, per esempio, di un
salario minimo legale sufficientemente elevato, della resistenza contro
nuovi tagli nei trasferimenti sociali e contro l'angheria repressiva
delle misure coercitive dell'amministrazione del lavoro, contro la
privatizzazione o la chiusura delle infrastrutture pubbliche vitali (per
esempio l'assistenza medica). Ma sono all'ordine del giorno anche il
dibattito sul bilancio dell'educazione e le critiche all'obsoleto e
rigido legame dei contenuti dell'insegnamento e della ricerca alle
necessità della valorizzazione del capitale.
Esiste un momento importante nella mediazione della «critica
categoriale» che consiste nell'apprendere come si può distinguere, nel
«trattamento della contraddizione», tra forme che facciano avanzare e
forme affermative. Ciò include, in primo luogo, il riconoscimento che la
difesa delle necessità vitali per la via ufficiale della politica si è
resa del tutto illusoria. Devono essere evidenziati i contenuti
alternativi delle rivendicazioni sociali dirette, da un lato, e quanto
sia futile la speranza nei programmi statali di congiuntura per nuovi
investimenti di capitale, dall'altro. Questi ultimi agganciano in
partenza le necessità sociali al «successo» della valorizzazione del
capitale, sulla base in rovina del lavoro astratto, e alla
«finanziabilità» da qui derivata, secondo criteri capitalistici. I
primi, al contrario, possono aprire il cammino per la negazione del
«terrore della finanziabilità» e per approssimarsi al superamento della
forma valore e del denaro. Questa alternativa, a renderla effettiva
nelle nuove condizioni di crisi, può anche collocarsi tra gli elementi
«di sinistra» della classe politica, così conducendo a polarizzazioni;
da qui, intanto si costituisce un contromovimento sociale. Nell'antico
movimento operaio già si avevano elementi di questa alternativa, anche
se sotto il fondo ideologico di un'ontologia del lavoro astratto.
Proprio per questa ragione i contromovimenti sociali (anche in
corrispondenza con la loro coscienza basata sull'ontologia del lavoro),
furono sempre trasformati in orientamento statale e, come «marxismo di
partito», vincolati a un intervento della politica; poiché lo Stato è
appunto l'istanza sociale di sintesi sulla base del lavoro astratto. Nei
limiti storici del lavoro astratto e della valorizzazione reale del
capitale, l'alternativa tra contromovimento sociale e statalismo si pone
adesso in forme completamente nuove e deve essere formulata
conseguentemente, dato che la speranza nel credito dello Stato può
solamente svergognarsi con lo scatenamento dell'inflazione e non
contiene più dunque un qualsiasi potenziale sociale.
Un secondo momento di mediazione è la critica di tutte le forme di
esclusione sociale, siano esse articolate apertamente o indirettamente e
subliminalmente. Intanto che i movimenti sociali opereranno sul piano
del «trattamento della contraddizione» immanente, si avranno sempre
queste tendenze. Giá nell'antico movimento operaio si ebbero forti
sentimenti negativi contro gli strati inferiori dequalificati. Oggi
possiamo osservare atteggiamenti simili da parte di un'«aristocrazia
operaia» globalizzata, nel frattempo in dissoluzione, contro i «caduti
fuori», o contro i lavoratori dei settori dei bassi salari; e fin negli
stessi ceti inferiori della «cultura dominante», contro i migranti. Su
tutto però sono le classi medie accademiche e subaccademiche, sotto la
minaccia della caduta nei centri capitalistici, che pretendono di
salvare la propria pelle e stilizzare come ideale di emancipazione
generale i loro interessi specifici in quanto «capitale umano», quando
nella realtà la vita degli «altri» gli è indifferente. A misura che si
costituirà un contromovimento sociale, il compito della «critica
categoriale» è precisamente identificare analiticamente i diversi
potenziali di esclusione sociale complessamente sovrapposti e affrontarli.
Ciò può ottenere successo soltanto se la critica riesce a trasmettere
che, oltre le categorie capitalistiche, sarà facilmente possibile
soddisfare le necessità della vita «per tutti». In questo contesto, il
compito è rendere coscienti i contromovimenti sociali (contando che
sorgano) dell'enorme discrepanza tra i potenziali di ricchezza materiale
e l'impossibilità di continuare a trattarli nella forma capitalista.
Tuttavia la riflessione teorica sulle categorie reali del capitale,
forma valore e merce, plusvalore, lavoro astratto etc, e la loro
modulazione politico-statale, non è presente nella coscienza delle
masse. Può allora essere mobilitata l'esperienza pratica del fatto che
esistono, dal punto di vista tecnico-pratico e materiale, le capacità
per soddisfare le necessità materiali, sociali e culturali, ma sono
paralizzate dal capitalismo, perché non può più essere soddisfatto
l'assurdo fine in sè della trasformazione del «lavoro» in «più lavoro» e
del «denaro» in «più denaro». Se sempre più individui diventano senza
tetto, mentre contemporaneamente ci sono alloggi vuoti in massa, o se
sempre più malati e bisognosi non sono adeguatamente accuditi, mentre,
al tempo stesso, l'amministrazione chiude ospedali, medici e personale
ospedaliero vengono messi sotto pressione o diventano «disoccupati»,
allora questa esperienza può essere fondamentalmente trasformata in
critica radicale della forma della merce e del denaro, arricchendo
l'esperienza con la riflessione teorica.
Questo approccio è corretto anche quando si invoca il cosiddetto
problema «ecologico» (degrado climatico, esaurimento delle colture,
erosione dei fondamenti naturali della vita, etc.). Su questo aspetto,
la mediazione della «critica categoriale» deve rendere cosciente la
connessione interna tra poteri distruttivi del modo di produzione
capitalista della ricchezza materiale, da un lato, e la forma
capitalista delle relazioni sociali, dall'altro. Non è la produzione in
sé di una quantità sufficiente di alimenti e beni culturali che porta
alla distruzione della «biosfera», ma la razionalità della logica della
valorizzazione dell'economia d'impresa, la quale crea povertà mentre
distrugge le sue stesse basi e rovina la natura. Il potere distruttivo
di certe forme capitalistiche di ricchezza materiale (trasporto
automobilistico individuale, industria della difesa, agro-industria
disseminatrice di veleni, etc) non può essere giocato contro la
socializzazione delle necessità della vita sociale. L'alternativa
all'«automobilizzazione» non è l'eliminazione della mobilità in sé ma
l'espansione del trasporto pubblico, sotto il controllo sociale, nella
resistenza contro la privatizzazione. É particolarmente perfido
responsabilizzare le persone, condannate a indegne razioni di miseria e
capitalisticamente impoverite, perchè «consumano troppo» distruggendo
così il clima. Mentre la «catastrofe climatica» ha recentemente, in
tempi di congiuntura di deficit, causato sensazione mediatica, adesso,
nella crisi, gli obiettivi ufficiali della riduzione delle sostanze
inquinanti sono nuovamente tagliati, perché dev'essere mantenuta a
qualsiasi prezzo la forma capitalistica della produzione. É
perfettamente possibile che l'amministrazione di crisi intenda sostenere
più restrizioni sociali con una legittimazione «ecologica». In questa
contraddizione si muove anche l'ideologia «ecologica» appoggiata da una
parte delle classi medie, la quale pretende di parlare dei «limiti del
capitalismo» solamente nel senso di un «limite esterno» delle risorse
naturali, mentre il «limite interno» del lavoro astratto e della
«valorizzazione del valore» è percepito solo in forma riduzionista
(«limiti di crescita») o completamente dimenticato, perchè ognuno
gradirebbe essere coinvolto «ecologicamente» nell'amministrazione della
crisi. Dal punto di vista di un ulteriore sviluppo della critica
dell'economia politica, questo «riduzionismo ecologico» è tanto
criticabile quanto l'orientamento economico affermativo verso un
«keynesianismo di crisi».
Un altro passo nella mediazione della «critica categoriale» sarebbe la
riapertura di un dibattito sulla pianificazione sociale, non più basata
sul lavoro astratto, sulla forma valore e sullo Stato. Come eredità
dell'epoca passata, il «socialismo» attuale è più che mai equiparato
alla «nazionalizzazione», il che continua a portare solo a frasi
paradossali, come «socialismo del mercato finanziario», in cui si
esprime, tuttavia, il paradosso reale delle nuove condizioni di crisi.
Per una vera trasformazione oltre il capitalismo, il compito è
organizzare in nuovi modi il flusso sociale mondiale delle risorse
materiali e sociali come tali e smetterla di rappresentarle nelle
categorie del «valore» e della sua «sostanza lavoro», che storicamente
si sono rese obsolete. Ciò include il problema dei momenti della
riproduzione sociale che mai sono apparsi nel lavoro astratto e nella
valorizzazione, e storicamente furono delegati alle donne (prendersi
cura dei figli, assistenza, lavoro domestico, «lavoro d'amore», etc.).
Nei limiti della valorizzazione del capitale anche questo «cemento
sociale» si frantuma. Una trasformazione sociale deve dunque
riorganizzare questi momenti, liberarli dalla loro attribuzione sessuale
e creare per loro un fondo sociale di tempo libero che da tempo è ormai
possibile.
Sarebbe necessario scatenare un ampio dibattito sociale su questo, in
cui far entrare molteplici esperienze e competenze, non limitandosi a un
approccio strettamente teorico. La critica teorica può solo tentare di
incoraggiare questo dibattito, conformemente allo sviluppo della crisi,
e rendere di nuovo coscienti della questione della pianificazione sociale.
Proprio perché la «critica categoriale», nel contesto della forma
capitalistica, malgrado la storica crisi di questa, non è suscettibile
di trasmissione senza rotture e, nei limiti delle «forme di pensiero
obiettive» (Marx), urta con la coscienza sociale, essa non può limitarsi
alla argomentazione politico-economica «obiettiva» in senso borghese. Un
momento essenziale della mediazione è anche la critica radicale
dell'ideologia. Tutta la digestione affermativa della crisi nella
coscienza è produzione di ideologia, e non solo nell'orientamento
statale o nel riduzionismo ecologico. Anche le ideologie basilari
moderne del nazionalismo, antisemitismo, razzismo, antiziganismo (il
risentimento contro i sinti e i rom come «paria» della modernità) e
sessismo sono fortemente recuperate e riconfigurate nella crisi. Sullo
sfondo vi è sempre l'aggressiva difesa di determinate vite
capitalistiche di classi in lotta di concorrenza. Centrale a questo
proposito oggi è l'ideologia della «nuova classe media» di fronte ai
processi di crisi, nella lotta per il potere di interpretazione e per
l'egemonia. I vari elementi della produzione di ideologia formano
amalgami, anche indirettemente e subliminalmente. Il compito della
«critica categoriale» è dunque analizzare i «dispositivi» modulati
dall'elaborazione ideologica e penetrare profondamente il concetto di
ideologia, oltre il marxismo tradizionale, allo scopo di combinare un
programma di trasformazione sociale con un programma di intervento della
critica dell'ideologia. L'attuale sinistra di movimento, con il suo
orientamento teoricamente disarmato verso «lotte» meramente simboliche,
è ben lungi da tutto questo. Per questo si osserva ovunque
un'inquietante convergenza tra posizioni di «sinistra» e di «destra»
nella critica riduzionista del capitalismo.
-Quale ruolo può avere oggi la lotta di classe per diffondere la
coscienza di classe, nel senso di Lukács?
Il paradigma tradizionale della «lotta di classe» non è più suscettibile
di mobilitazione nella nuova situazione del limite interno assoluto
della valorizzazione. Storicamente, la rappresentazione sindacale e
politica del «proletariato» non era che la rappresentazione del
«capitale variabile» autoaffermativo e quindi la rappresentazione del
lavoro astratto. Si costruì qui un'opposizione meramente relativa tra
principio del «lavoro», presumibilmente astorico e antropologico, e la
forma della proprietà privata capitalistica concepita giuridicamente,
quando in realtà lavoro astratto e proprietà privata giuridica dei mezzi
di produzione rappresentano soltanto differenti determinazioni nel
sistema di riferimento comune soggiacente della «valorizzazione del
valore». Marx designò questo contesto soggiacente come «soggetto
automatico» della società moderna feticistica, in cui tutte le posizioni
sociali sono prigioniere in quanto «funzioni» della logica della
valorizzazione. Non esiste qualche «principio» ontologico suscettibile
di essere invocato per l'emancipazione sociale. Al contrario, il
capitalismo può essere superato solo attraverso una critica concreta
delle sue forme storiche basilari. La «lotta di classe» fu
essenzialmente un movimento di «lotta per il riconoscimento» nel terreno
delle categorie capitalistiche. Per questo l'antico movimento operaio
adottò dal protestantesimo e dall'ideologia borghese dell'Illuminismo
non solo l'ontologia del lavoro astratto ma anche l'ontologia della
relazione capitalistica di genere, cioè delle attribuzioni storiche
della «maschilità e della femminilità». Ciò che venne fuori dalla «lotta
per il riconoscimento» (diritto di sciopero, libertà di associazione,
libertà di riunione, diritto di voto, etc) finì sempre soltanto nella
nazionalizzazione delle categorie capitalistiche non superate. Il
paradigma socialista di «lotta di classe» si esaurì in questo.
Nella nuova situazione storica, il «riconoscimento» da tempo raggiunto
dai salariati, come soggetti economici e cittadini statali della società
feticista, diventa una catena e una trappola. Gli individui sono, nel
migliore e nel peggiore dei casi, legati alla coercizione della
valorizzazione. Non è solo una questione di coscienza. Anche
oggettivamente, la base sociale della vecchia «lotta di classe» si
disfa. Sotto le condizioni della Terza Rivoluzione Industriale, il
capitale non può più organizzare eserciti «produttivi» di lavoro
astratto. Una volta che il processo di individualizzazione in quanto
fenomeno di crisi distrugge i filtri sociali, i soggetti socialmente
atomizzati si riferiscono direttamente alla relazione di valore globale,
che contemporaneamente diventa virtualizzata sotto la forma del credito
non più ormai suscettibile di adempimento, e quindi diventa obsoleta. In
apparenza sorgono una «molteplicità» di situazioni sociali diffuse che
però non possono ormai più essere integrate sulla base delle categorie
capitalistiche. Personale permanente ed eventuale, lavoratori a termine
e subimpiegati, disoccupati con sussidio oggetto dell'amministrazione di
crisi, falsi autonomi e imprenditori della miseria, etc, non
rappresentano più una qualche massa omogenea di un «proletariato
creatore di plusvalore». L'ideologia di movimento, dalla decade dei '90,
si limitò ad assumere affermativamente questa «moltiplicità» e a
riunirla senza concettualizzarla, sotto il mantello della «moltitudine»,
non a superarla. Per una nuova organizzazione delle lotte sociali,
l'obiettivo non è più il «riconoscimento» in quanto creatore di
plusvalore, ma solo la critica e la trasformazione della stessa
categoria valore e della relazione di genere che gli è associata. La
base non può essere un'organizzazione capitalistica del «lavoro»
opposta, che è dissolta e demoralizzata, ma solo l'autorganizzazione
cosciente della critica storica concreta delle categorie dominanti,
partendo dal «trattamento della contraddizione» immanente e andando al
di là di esso. Non è una questione di costituzione «obiettiva» della
classe come rappresentazione del «capitale variabile», ma una questione
di coscienza. Non, però, qualche coscienza «idealista», in termini, per
esempio, di un'«etica» della filosofia morale, ma una coscienza che si
confronta con il limite storico della valorizzazione e con la caduta del
livello di civilizzazione.
Su questo punto è necessario tornare ancora una volta al problema della
«nuova classe media» minacciata dalla caduta. La disorganizzazione degli
«eserciti del lavoro» industriale e la decadenza dell'antico movimento
operaio sono andate di pari passo con l'ascensione di questa classe
media qualificata, nella fase di prosperità fordista. La base economica
non era la produzione reale di plusvalore, ma l'espansione del credito
statale. L'autocoscienza sociale che l'accompagnava non era tanto
nell'ontologia del «lavoro», ma molto di più nello statuto del «capitale
umano» in quanto «formazione superiore». Già la nuova sinistra, a
partire dal 1968, era essenzialmente un movimento della classe media,
anche se continuava a ricercare, ideologicamente e astrattamente, a
partire dal fondo marxista, un'inutile mediazione con l'esaurita «lotta
di classe» del «proletariato». Nell'era dell'economia delle bolle
finanziarie, le «nuove classi medie» divennero dipendenti
dall'espansione del credito privato e sempre più precarizzate. Fu
appunto in questo contesto che la «visione del mondo» della coscienza
della classe media guadagnò una posizione dominante anche a sinistra. La
ripresa della vecchia retorica della «lotta di classe», e soprattutto
dei suoi derivati, per esempio nella figura della «moltitudine»
postoperaista, sono tutti implicitamente (e a volte esplicitamente)
formulati a partire dalla prospettiva della coscienza categorialmente
affermativa della classe media. Oggi non è tanto l'ontologia del
«lavoro», da tempo corrosa, che blocca la transizione del marxismo del
movimento operaio verso la «critica categoriale», ma l'ideologia della
classe media, ostinata con il suo «capitale umano», che si nasconde
sotto la «molteplicità» degli approcci di movimento. Una volta che le
classi medie sono inevitabilmente coinvolte in un grande contromovimento
sociale, la rottura con questa ideologia e di un'importanza decisiva.
Il problema dell'organizzazione della lotta sociale, che deve integrare
in maniera differente la disperata «moltiplicità» di situazioni oltre il
paradigma della «lotta di classe», non parte teoricamente da zero. La
transizione verso la «critica categoriale» si incontra negli approcci
dei grandi teorici alle frontiere del marxismo tradizionale, come Lukács
(e, in altra forma, Adorno). Lukács fornì le prime indicazioni nel libro
pubblicato nel 1923, Storia e coscienza di classe, specialmente nel
grande saggio centrale sulla «reificazione». Com'era da aspettarsi, data
la situazione di allora, egli combina per la prima volta l'implicita
ontologia del lavoro e la tradizionale «posizione di classe» da qui
derivata, con la discussione della costituzione feticista moderna
socialmente soggiacente. Lukács si lasciò dissuadere dai suoi punti di
vista innovativi, considerati «idealisti» dal marxismo di partito, e più
tardi tornò a una esplicita e abbastanza noiosa ontologia del lavoro
astratto. Il suo lavoro del 1923 è stato utilizzato dai nuovi approcci
della «critica categoriale» degli anni '80, specialmente sotto il punto
di vista della coscienza di classe «attribuita» (zugerechnete) e del
proletariato come presunto «soggetto-oggetto della storia». Ma il suo
precedente saggio teorico non si riduce a questo. Una lettura rinnovata
nelle attuali condizioni promuove conoscenze sorprendenti. Ciò a cui
egli fa riferimento con il concetto di «reificazione» rappresenta già
una critica delle forme basilari del capitalismo, per lungo tempo senza
pari; da alcuni è letta come una critica anticipata del pensiero
postmoderno. Decisivo é il postulato di un «divenir cosciente»
(Bewußtwerden) della critica della forma merce in quanto forma generale
di esistenza nel capitalismo, compresa la merce forza lavoro. Con ciò,
Lukács si ricollega alla definizione di Marx delle categorie
capitalistiche, come «condizioni reali di esistenza» e,
contemporaneamente, «forme obiettive di pensiero», definizione che venne
nascosta dal movimento operaio.
Se spogliamo questo approccio teorico dalla sua «attribuzione» a un
«punto di vista» del «lavoro», molto di esso può essere assunto per una
nuova «critica categoriale» sotto le condizioni di individualizzazione e
di relazione del valore in decadenza. Essenziale è, in primo luogo,
includere nel piano categoriale la moderna relazione di genere, ancora
non approcciata da Lukács. In secondo luogo, le relativizzazioni
critiche della «coscienza di classe proletaria» formulate nel saggio
sulla reificazione sono oggi soprattutto relazionabili alla coscienza
della classe media (anche su ciò già si incontrano approcci in questo
saggio). Si pone dunque il compito di riformulare la visione di Lukács
in questa situazione storica fondamentalmente differente, allo scopo di
rendere fecondo quel "divenir cosciente" critico della forma merce,
verso una reintegrazione della lotta sociale oltre la falsa obiettività
capitalista.
-Come definirebbe un concetto di rivoluzione per il tempo presente che
potesse rompere con il feticismo e con una vita quotidiana totalmente
subordinata alla riproduzione del capitale?
Il concetto di «rivoluzione» fu storicamente occupato dal paradigma
della grande Rivoluzione Francese, dalle seguenti rivoluzioni borghesi
del secolo XIX e dalle rivoluzioni della «modernizzazione in ritardo»
nella periferia del mercato mondiale nel secolo XX (Russia, Cina, «Terzo
Mondo»). In questo contesto, la «rivoluzione» si limitò alla forma
politica della «conquista del potere» e, nel secolo XX, alla
nazionalizzazione delle categorie capitalistiche. In questo senso questo
concetto appartiene alla storia dell'imposizione del lavoro astratto,
della logica della valorizzazione e della relazione di genere moderna.
Pare, quindi, che la sua carriera sia terminata. Nel marxismo residuale
e nell'ideologia del movimento, la «rivoluzione» come atto politico
della sovversione più non impegna alcun ruolo. Ma stanno gettando fuori
il bambino con l'acqua sporca. Una volta che la sinistra ha archiviato
il concetto di rivoluzione senza attualizzarlo, essa si è limitata a
ratificare la sua autoconsegna alla forma capitalista di vita, nella
base sociale della classe media.
Marx ha criticato il concetto di rivoluzione limitato alla politica già
nei primi scritti. Per lui, la «rivoluzione sociale» presenta una
qualità differente che sopprime anche lo statalismo della forma
politica, insieme con il valore e la forma merce. Così come più tardi
nel caso di Lukács, questo sovvertimento, tuttavia, ancora figurava in
Marx come «rivoluzione proletaria». E' appunto questo paradigma che si
mantiene nel concetto di rivoluzione ridotto alla politica. Oltre
l'ontologia del lavoro, nel limite interno della valorizzazione, si pone
in forma nuova e differente la questione della «rivoluzione sociale»,
cioè come rottura della sintesi sociale dominante nelle forme del valore
e della relazione capitalista di genere. «Sintesi sociale» altro non
significa che la forma specifica dei socializzazione, nel senso di una
«totalità negativa», può essere superata solo con un sovvertimento
dell'insieme della società.
Proprio per questo, è necessario un movimento sociale su grande scala, e
ora su scala transnazionale, per raggiungere la sintesi sociale in
generale. Non bastano, per esempio, occupazioni di imprese da parte del
personale che, in seguito, appena si rende soggetto collettivo del
capitale, continua a fare la sintesi attraverso il mercato e la
concorrenza. Finora tutti questi tentativi sono falliti (come durante la
grande crisi in Argentina). Non è possibile una trasformazione al
livello di ogni capitale, o al livello di una riproduzione particolare,
ma la questione della sintesi, e, così, della pianificazione sociale
oltre la forma merce, costituisce sempre il punto di partenza (e non un
qualche punto finale) della rottura pratica con il capitalismo. In
questo contesto il concetto di «rivoluzione» non è semplicemente
irrilevante, malgrado esso non abbia più che a vedere con l'antico
paradigma «politicista». La teoria critica come «critica categoriale»
deve persistire da questo punto di vista della sintesi sociale, anche
contro la coscienza di movimento meramente «simbolica», che non si pone
questa questione decisiva.
La sinistra di movimento postoperaista preferisce parlare oggi di Mutare
il mondo senza prendere il potere (John Holloway). La sintesi sociale è
sostituita con un diffuso concetto di «vita quotidiana» che ha fatto
carriera già dal movimento del 1968. Ciò che molte volte si designa come
«rivoluzione» culturale «della vita quotidiana» è sempre, in un modo o
nell'altro, la musica di fondo del mutamento sociale; ma, ridotta a
questo punto di vista, può anche trattarsi di un adattamento culturale
alla dinamica capitalistica. Tali concetti del '68 e della sinistra
postmoderna sono stati da tempo adottati dal management di crisi del
capitalismo, per esempio, sotto la forma della propaganda neoliberale di
«auto-responsabilizzazione» individuale. Il tema della «vita quotidiana»
non può sostituire il vero intervento al livello di sintesi sociale;
così come non può dispiegare la necessaria forza d'intervento (per
esempio attraverso scioperi, blocchi, paralisi delle vie nevralgiche
capitalistiche). La «questione del potere» non si limita al paradigma
«politicista» del potere di Stato, ma, a maggiore ragione, si pone come
questione di un «contropotere» sociale in resistenza contro
l'amministrazione di crisi. In realtà, la «vita quotidiana» solo per sé
non è un rifugio di «resistenza», il cui concetto in questa forma
diventa vuoto. La resistenza, semmai, comincia quando gli individui si
sollevano contro il loro «quotidiano», determinato dal capitalismo in
tutti i pori, e si rendono in generale capaci di organizzazione.
La metafisica del quotidiano della sinistra si riferisce anche, in
parte, alla continuazione del fallito movimento d'alternativa degli anni
'80, ai tentativi di un «altro» modo di vita e di produzione nella
piccola scala di «comunità» particolari, che si legittimano
neo-utopicamente o pragmaticamente. Questi tentativi, per esempio, nella
forma della cosiddetta «economia locale» o del movimento digitale open
source, così come l'occupazione delle imprese, non possono raggiungere
il livello di sintesi sociale. Come alternativa apparente a un movimento
di resistenza sociale a partire dall'immanenza capitalista corrono il
rischio di trasformarsi in un'«auto-amministrazione della povertà». Se
lì vi appare ancora l'idea di una «critica della forma merce», sarà
abbassata verso un formato in cui tale critica non sarà possibile senza
perdere il suo contenuto decisivo e senza coinvolgersi in contraddizioni
senza uscita. Le presunte alternative rimangono legate alle relazioni
contrattuali borghesi, e non solo; esse si riferiscono solo a piccoli
segmenti della riproduzione, che rimane nel suo insieme determinata in
modo capitalista. Perciò, i «progetti di prassi» particolari,
normalmente guardano a un finanziamento esterno dello Stato, sia nella
forma di uma «reddito di base» sia nella forma di un patrocinio
autarchico. Statalismo keynesiano e ideologia d'alternativa sono appena
due facce della stessa medaglia; il denominatore comune è l'orientamento
diretto o indiretto verso il credito statale. Qui si esprime ancora una
volta l'inconfessato dominio della coscienza della classe media, che
vuole sempre lavare la pelle senza bagnarla. Le sinistre keynesiana e
dell'ideologia d'alternativa devono quindi entrambe rimuovere e negare
la nuova qualità della crisi, perché le loro illusioni non possono
sopravvivere alla fine del sistema del credito globale e dell'economia
delle bolle finanziarie. Esse si confronteranno con il vero limite della
sintesi sociale dominante, al più tardi, quando la grave frana
dell'economia mondiale raggiungerà anche la «vita quotidiana» nei centri
capitalistici..
More information about the Redditolavoro
mailing list