[Redditolavoro] Torino. L’anarchia ai tempi della peste

Federazione Anarchica Torinese - FAI fat at inrete.it
Tue Oct 14 01:46:42 CEST 2008


Torino. L’anarchia ai tempi della peste

Proposta di incontro e discussione – aperta a tutti gli interessati –
sull’aria che tira, sui tempi che corrono, sulle prospettive di un
movimento di trasformazione radicale che deve fare i conti con gli
orizzonti cupi di questo primo scorcio di millennio.
Se la prospettiva della libertà e dell’eguaglianza tramonta dall’orizzonte
dei più, se il mondo che viviamo è l’unico possibile, se la merce segna
un’epoca di guerra e di sopraffazione, se le identità si raggrumano tra il
ciarpame della nazione e della religione e lo scaffale di supermercato,
quali prospettive per l’azione di chi crede possibile e desiderabile un
mondo senza servi e senza padroni?

Ne cominciamo a parlare venerdì 17 ottobre ore 21 alla FAI in corso
Palermo 46
Chi volesse partecipare anche con uno scritto può inviarlo a
fai_to at inrete.it e noi lo faremo girare.
Per info: 338 6594361

Vi sono città e paesi in cui le persone, di tanto in tanto, hanno il
sospetto di altre cose; in generale, questo non ne cambia la vita;
soltanto, vi è stato il sospetto, ed è sempre qualcosa di guadagnato.
(Albert Camus, La Peste)

Quest’incontro scaturisce dal desiderio di confrontarsi, al di là delle
discussioni pratiche che si fanno ogni giorno, sulle prospettive del
nostro agire, come anarchici, come rivoluzionari, come amanti della
libertà in un’epoca che vede il tramonto di ogni desiderio di
trasformazione sociale di segno libertario.
Quello che proponiamo non è un astratto argomentare che si scinda, con
un’operazione di taglia e cuci, dalle asperità dello scontro sociale nel
quale siamo immersi, ma mira a cogliere, nel vivo di della lotta, le
possibilità e le prospettive per una narrazione di segno libertario che
non eluda il caos ma vi si immerga per trovare un lessico che sappia
ri-farsi comune.
Ci siamo nutriti di universali – i classici che hanno aperto la modernità:
libertà/uguaglianza/solidarietà – definendone il senso e la struttura
conflittuale – quelli più recenti – che della triade assiologica
illuminista hanno distillato i succhi – diversità/molteplicità – ma oggi
non sono (più) le leve che definiscono il nostro mondo. L’anarchismo ha
puntato sulla possibilità che la cesura moderna potesse essere portata
alle estreme conseguenze. Morto dio e tagliata la testa a chi, per diritto
divino, si arrogava il potere di dominio assoluto, la critica al potere in
quanto tale, anche nella forma morbida della democrazia rappresentativa,
pareva a portata di mano. Un’illusione, figlia di certo afflato
escatologico difficile da eludere, ma pericoloso nella sua capacità
incantatrice, come ogni storia che voglia una sua filosofia. D’altro canto
l’idea egualitaria, astrazione giuridica che, sin sul piano formale, ha
faticato a conquistare l’universalità pretesa dall’assunto assiologico,
lungi dal assurgere alla materialità della relazione sociale, tende a
scomparire persino dalla formalità del diritto.
L’inattualità dell’anarchismo è consacrata dallo svuotarsi della modernità
che ha trasfigurato i propri postulati nell’estasi della merce, bilanciata
da pulsioni identitarie che rimettono in pista gli orrori della nazione e
della razza.
L’ipermercato e l’ampolla leghista alle sorgenti del Po sono specchi di
una realtà dove libertà è l’accesso alle merci, uguaglianza è la comunione
dei simili che si riconoscono escludendo l’altro da se.
Viviamo una realtà sociale frantumata, di cui è cifra la guerra tra
poveri, la guerra come orizzonte permanente, quasi senza pareti tra
conflitti interni ed esterni.
La trincea della paura ne è il segno distintivo, la metafora più
convincente. In trincea non si scorge altro orizzonte che quello segnato
dal filo spinato oltre la sponda, dove i nemici sono pronti ad affondare
le baionette nella carne viva. Il nemico diventa nemico assoluto,
irriducibile ad ogni possibile riconoscimento nell’universalità
dell’umano. La stessa nozione di “diritto umano”, sulla quale si giocano
formali partite sulla misura della altrui civiltà, diviene alibi di
guerra, pur rivestita dalla maschera dell’intervento salvifico,
intrinsecamente super partes.
Credere agli incubi può far sì che si realizzino. Viviamo un pianeta dove
le risorse disponibili sono dissipate in un delirio d’onnipotenza
nell’eternità di un oggi senza domani, immaginato nel continuo ritorno
della novità della merce, dove il nuovo è mera tecnica comunicativa che
non ambisce ad una proiezione futura. Se a ciò si aggiunge che in grande
maggioranza coloro che vivono questo nostro stesso pianeta sono
irrimediabilmente esclusi dall’accesso alla merce nella sua materialità ma
parimenti investiti dal suo intollerabile portato simbolico, l’immensità
del baratro nel quale stiamo scivolando diventa immediatamente
attingibile.
Non basteranno gli eserciti, le bombe, le torture, lo sterminio da
malattie curabili, i muri armati a difesa della frontiere ad impedire che
la guerra arrivi sulle soglie delle linde case di chi abita i luoghi dove
ci si ammala perché si mangia troppo.
La peste è alle porte.
Quando la peste arriva non si può far altro che rimboccarsi le maniche e
lottare con le unghie e con i denti per fermarla, soffocando la tentazione
di fuggire dai suoi miasmi ammorbanti. Il nostro agire rischia tuttavia di
farsi semplice resistenza, senz’altra prospettiva che quella di
rallentare, inceppandolo qua e là, il meccanismo. Se il capitalismo
diviene pervasivo come una seconda natura, se lo Stato, ed in generale la
gerarchia, definiscono l’orizzonte del possibile e del desiderabile, se
oltre non c’è che la follia religiosa, è giocoforza agire sui frammenti di
una realtà sociale dimidiata dalla guerra, incapace di nutrire “il
sospetto di altre cose”, quel sospetto che forse non trasforma la vita, ma
senza il quale non è neppure immaginabile il cambiamento.
Il nostro impegno, come anarchici che attuano ogni giorno la resistenza,
non può fare a meno di essere volto a far sì che si manifesti “il
sospetto”che vi sia dell’altro, che si possa andare oltre rompendo lo
specchio che riproduce all’infinito il nostro oggi.
Stare dalle parte degli oppressi e degli sfruttati è normale, costitutivo
del nostro essere anarchici, tuttavia il difficile è nella declinazione
del come. Il linguaggio della resistenza è immediato e trova, qua e là,
compagni di strada, gente disposta a non chinare il capo, a mettersi in
gioco per ostacolare politiche razziste, classiste, sessiste, predatorie.
Il conflitto sociale è regolato da strategie di controllo di stampo
squisitamente disciplinare. Contrastarle fa parte di una lingua che
facilmente si fa comune, che mostra ai più, a chi pensa che la partita sia
persa in partenza che è sempre possibile fare qualcosa, è sempre possibile
aprire nuovi sentieri. Sebbene il lessico della resistenza trovi qua e là
consenso, tuttavia quello della rivoluzione, quello dei liberi ed eguali,
delle libere ed eguali, si impantana sempre più.
Come individuare le sottili tracce nel bosco che portano alla radura dove
si manifesta “il sospetto che vi sia altro”? Che non basti dirlo lo
sappiamo, come sappiamo che le parole che lo dicono suonano false, prive
di mordente, irrimediabilmente “passate”. Il nostro futuro, quello che
abbiamo imparato ad amare, senza essere – quasi – mai stato attinto, è
scomparso dall’orizzonte degli sfruttati e degli oppressi. Moneta fuori
corso, usurata dal non uso, non seduce né appassiona. Solo gli artifici
della retorica ne conservano una residua credibilità, spesso ancorata ad
un narrare di ieri che mantiene un’aura di passione altrimenti sopita,
dimenticata, scalzata.
C’è chi ritiene che il lessico comune che si produce nell’immediatezza
della resistenza senza andare oltre, sia un bene, perché in tal modo fonda
– sia pur provvisoriamente – la propria irriducibilità alla logica del
dominio. Il rischio serio è che fondi parimenti l’inattingibilità della
prospettiva anarchica.
Ciò che apre o chiude un orizzonte è la sua desiderabilità, un suo parlare
che si faccia narrazione, storia di uno e storia di tanti, humus in cui
affondare radici e insieme ascia che taglia i rami morti. Ciò che mette in
gioco o getta fuori dall’arena la rivoluzione non è la possibilità di
farla, ma il desiderio che si realizzi. In altre parole serve una lingua
comune che vada al di là dell’immediato, che sappia sedimentarsi e farsi
energia di trasformazione.
Altrimenti si cade nell’illusione che la meccanica possa più della
coscienza, che quest’ultima non sia che una derivazione della prima, che
la rottura dell’ordine sociale sia la chiave di ogni possibile rottura
dell’ordine simbolico.
Talora la materialità di certe fratture – la barricata, la rivolta, lo
sciopero ad oltranza, la disobbedienza generalizzata, a volte basta un
sasso, un no, un basta – spesso innesca accelerazioni impreviste ed
imprevedibili anche sul piano simbolico, o contribuisce ad incrinare altri
piani di oppressione, ma difficilmente questo avviene in assenza di una
sia pur minima prefigurazione utopica di segno libertario.
Se non so dove andare, andrò in giro senza meta, forse arriverò da qualche
parte o forse continuerò a calpestare la stessa polvere di cortile.
Se voglio che tutto cambi, perché sono sfigato, basterà che la sfiga
finisca per poter sedere anch’io alla tavola imbandita, tirando calci a
chi, come me ieri, sgomitava per arrivare alle briciole.
Chi invece non ha nulla da perdere, non necessariamente vuole far saltare
l’assetto del mondo.
Se non voglio più nulla perché penso che tutto mi sia precluso, a volte
sfascio tutto: macchine, cabine telefoniche, scuole e strade, la faccia
dei poliziotti e quella di qualche sfigato diverso da me. Poi ci saranno
folle di sociologi, politici destri e sinistri, che mi vorranno
raccontare, infilzandomi nell’ordine dei loro discorsi. Ci sarà anche chi
apprezzerà la mancanza di logica e su questo costruirà l’ordine del suo
discorso, un ordine fatto di rotture, peccato che, anche lui, finisca con
il parlare per me. Che non dico niente. Punto. È successo in Francia,
domani potrebbe capitare anche da noi: sapremo evitare la retorica delle
periferie in fiamme, la poesia sommessa del caos, per registrare che
l’afonia non parla in linguaggio cifrato la rivolta contro lo stato e il
capitale? E tanto meno la rivoluzione?
Non ci sono scorciatoie: se si vuole fare il pane occorre impastare acqua,
sale e farina. Un alchimia semplice ma che dice molto a chi sa ascoltarla.
Per imparare a farlo occorre provare, per provare serve volerlo fare. Le
storie – necessariamente plurali - le si racconta mentre le si fa, le si
fa mentre le si racconta.
Non è molto ma forse non c’è altro modo per coniugare l’anarchia ai tempi
della peste.

Il dibattito è aperto




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