[Redditolavoro] "Nuovi" strumenti di controllo sulla classe

Rapt rapt at inventati.org
Fri Oct 3 22:39:04 CEST 2008


Mi scuso per la lunghezza dell'articolo, ma è molto interessante.


**

QUANTO TIRA
LA CLASSE OPERAIA
La *cocaina* va a ruba nelle fabbriche

di *Loris* *Campetti* 
<http://itaca.netfirms.com/cgi-bin/artman/exec/view.cgi?archive=57&num=3899>

	

Atessa (Chieti) «Il proletariato non è soltanto una classe che soffre... 
La vergognosa situazione economica nella quale si trova lo spinge 
irresistibilmente in avanti e lo incita a lottare per la sua 
emancipazione definitiva». Così scriveva nel 1840 Friedrich Engels nella 
sua magistrale «Indagine sulla condizione della classe operaia in 
Inghilterra». E' un'idea semplice quanto straordinaria quella di Engels 
e Marx, che ha mosso centinaia di milioni di uomini e donne in tutto il 
pianeta nel corso dei due secoli alle nostre spalle. Un'idea che ha 
cambiato il mondo, emancipando grandi masse da una condizione di miseria 
e subalternità attraverso la lotta di classe, il «motore della storia».

A che punto è la storia, 170 anni dopo l'indagine di Engels? Questa 
domanda ci è sorta spontanea al termine della nostra inchiesta sul 
consumo e la diffusione delle droghe nelle fabbriche italiane, e siamo 
andati a risfogliare i testi classici, memori delle operaie tessili di 
Manchester poco più che bambine, costrette ad avvelenarsi con «cherry, 
porto e caffè» per reggere un ritmo di lavoro disumano per 15-16 ore al 
giorno. Nel 2008 ci sono realtà industriali importanti in cui 
addirittura il 50% dei lavoratori si fa di *cocaina* e, in misura 
minore, di eroina e di ogni sostanza capace di rendere più tollerabile 
una «vita di merda», o meglio, di far sognare un'improbabile fuga da 
essa. Di merda è il lavoro così come la normalità delle relazioni in 
paesi privi di vita sociale, che concedono ben poco alle speranze di 
futuro e di cambiamento, ci raccontano le tute blu. Ci si fa per 
lavorare, per sballare, per fare l'amore. Ci si fa alla catena di 
montaggio, in discoteca con gli amici, a letto con la moglie per 
migliorare le prestazioni sessuali; poi arriva la dipendenza e con essa 
lo spaccio per pagarsi la dose. Operai e operaie, capi e sorveglianti, 
adescati in fabbrica da altri operai: una «pista» nei cessi della 
fabbrica tanto per provare, l'esaltazione e il cuore che batte a mille, 
l'adrenalina che all'inizio fa persino aumentare la produzione, infine 
la consuetudine. Si lavora di notte per guadagnare trecento euro in più, 
1.400 invece di 1.100 euro buoni per affrontare l'astinenza e la crisi 
della quarta settimana. La notte ci sono meno controlli, «tu fai i 
picchi di produzione e i capi non ti rompono il cazzo». Qualche ragazza 
può persino arrivare a prostituirsi per pagarsi la dose, per fortuna 
casi sporadici.

*Dall'officina al muretto*

Dalla fabbrica la droga arriva nei paesi di provenienza dei lavoratori 
in una spirale perversa di cui, oltre alle forze dell'ordine, si 
occupano in pochi: operatori sociali, Ser.T, qualche livello 
istituzionale. Le aziende nascondono finché possono il fenomeno per 
salvare la faccia; quando un caso esplode, magari dopo l'ennesimo blitz 
dei carabinieri, scelgono la repressione attraverso il licenziamento o 
le «dimissioni spontanee», a volte aiutano il recupero dei 
tossicodipendenti. I sindacati, anch'essi, rimuovono, cosa che non 
riescono più a fare i delegati il cui impegno rischia di cambiare 
natura, assorbito dal lavoro di aiuto ai ragazzi finiti nella spirale. 
Ragazzi - anche iscritti al sindacato, persino delegati - che non 
vivono, se non molto parzialmente, il lavoro come emancipazione, come 
veicolo per costruirsi un futuro, ma come pura fonte di introito per 
continuare a sniffare coca o a iniettarsi eroina, oppure a fumarla «come 
fa un gruppo di ragazze del mio turno», dice Arturo che da anni prova a 
disintossicarsi e ci ricade ogni volta, nonostante il suo appuntamento 
quotidiano al Ser.T di Pescara. Lui dal sindacato (è iscritto alla Fiom) 
si aspetta «solo un aiuto per difendermi dai capi che mi ricattano, mi 
perseguitano, mi danno giorni e giorni di sospensione per poi tenerli 
nel cassetto e tirarli fuori ogni volta che provo ad alzare la testa». 
Arturo alterna lavoro in fabbrica, assenze per malattia e molto d'altro 
per tirare avanti. Ha abbandonato l'università in seguito a un grande 
trauma, il terremoto al suo paese, San Giuliano di Puglia, e ha 
cominciato a farsi.

Abbiamo iniziato il nostro viaggio alla Sevel di Atessa, Val di Sangro, 
Abruzzo. Assegneremo nomi di fantasia a molti interlucutori, ragazzi e 
ragazze che usano sostanze stupefacenti, delegati sindacali che chiedono 
l'anonimato, operatori delle forze dell'ordine impegnati nell'antidroga. 
La Sevel è la principale fabbrica italiana della Fiat per numero di 
addetti dopo Mirafiori. Vi si costruiscono i furgoni Ducato per la 
multinazionale torinese e per la francese Psa (Peugeot e Cytroen), un 
prodotto che non sta risentendo della crisi internazionale 
dell'automobile. Dalla nascita, nel 1980, la Sevel ha progressivamente 
aumentato la sua capacità produttiva e oggi dà lavoro a 6.500 persone 
sui tre turni, mattino, pomeriggio, notte, a cui si aggiungono quasi 
duemila operai di ditte esterne che operano nel perimetro dello 
stabilimento e migliaia di addetti dell'indotto. Solo in Val di Sangro 
sono 10 mila le famiglie che vivono di Sevel, tra i 10 e i 15 milioni di 
euro al mese che rappresentano la principale fonte di reddito della 
valle. Inutile dire che al peso economico dell'azienda si aggiunge 
quello politico. Una situazione per molti aspetti analoga a quella 
determinatasi in Basilicata con l'arrivo della Fiat-Sata. L'azienda 
procede con assunzioni massicce - ci racconta la nostra guida, il 
delegato Fiom Antonio Di Tonno - grandi infornate di ragazzi e ragazze 
diciottenni selezionati alla bell'e meglio. Il bacino primario ormai non 
è più sufficiente a soddisfare la domanda Fiat e sono sempre più 
numerose le assunzioni effettuate in tutto il Chietino, il Pescarese, il 
Molise, la Puglia, la Campania. Età media bassissima, alto turnover 
perché qui «si fatica sodo»: «I giovani vivono in modo estraniante il 
rapporto con la fabbrica e il sindacato, per non parlare della politica. 
Pensano al pallone, alla pizza, alla discoteca. E alla *cocaina*. C'è 
chi fa di tutto per non farsi confermare al termine del periodo di 
prova, così da poter dire ai genitori: "io ho provato, non è colpa mia 
se non mi hanno preso". Vuoi per questo atteggiamento, vuoi per una 
diffusione della droga fuori controllo, adesso la Sevel sta assumendo 
persone un po' più grandi, tra i 25 e i 28 anni». Tanto i delegati 
quanto un ufficiale dell'antidroga che in fabbrica è di casa, con blitz 
notturni alla ricerca quasi sempre fruttuosa di sostanze, valutano che 
un dipendente su due sia coinvolto con maggiore o minore frequenza e 
dipendenza nel giro della *cocaina*. Fino a poco tempo fa, dosi massicce 
di droga venivano trovate negli armadietti degli operai. Ci raccontano 
di sequestri di molte dosi di coca, di eroina e mattoni fino a un chilo 
di peso di hashish. In tanti sono stati beccati, ora tutti si sono fatti 
più accorti.

*Il silenzio è d'oro*

Non sempre i rapporti delle forze dell'ordine con la sicurezza aziendale 
sono idilliaci, così ai blitz interni allo stabilimento si aggiungono 
quelli fuori, a colpo sicuro. Perché tossici e spacciatori sono 
ricattabili, ed è da loro che arrivano le soffiate a Ps e Cc. E 
all'azienda, che talvolta utilizza le spiate per poi compromettere gli 
spioni facendo a sua volta spiate ai i loro compagni di lavoro. Ci sono 
stati arresti, ma tutto resta sotto traccia, e la stampa, anche quella 
locale, tace. La Procura si muove con i piedi di piombo, a volte neanche 
sostiene il lavoro dei Pm che autorizzano l'utilizzo delle cimici nel 
tentativo di arginare il fenomeno. «In fabbrica - dice Antonio - è 
saltato l'ordine. E l'azienda, dopo aver lavorato con costanza a 
neutralizzare il sindacato, ora lamenta la mancanza di un'interlocuzione 
con noi, nel senso che non siamo più un interlocutore forte di una 
conoscenza approfondita della fabbrica, degli operai, dei problemi».

Questi giovani operai e operaie sono completamente diversi dalla classe 
operaia che conosciamo e raccontiamo. I «vecchi» con vent'anni e più di 
servizio in Sevel, sono furiosi con le nuove generazioni in tuta blu: 
«Se le cercano, non vogliono fare un cazzo, ti contattano solo per farsi 
spostare in postazioni migliori. Sono individualisti e non ci 
rispettano, la droga li ha svuotati dentro. Invece del lavoro - dicono - 
hanno in testa la *cocaina*». Su una cosa vecchi e giovani sembrerebbero 
uniti: votano in maggioranza a destra, per Fini e Berlusconi, o non 
votano, anche molti di quelli che avevano investito sul governo Prodi e 
sono rimasti delusi. Anche qualche iscritto ai sindacati, persino un po' 
di delegati possono votare a destra: «Con la tessera difendono il 
salario dal padrone, con il voto a destra lo difendono dallo stato che 
ci massacra con le tasse». «La fabbrica è diventato un supermercato, si 
vende di tutto: puoi acquistare un motore Alfa, un paracarro, uno 
stereo, ogni tipo di droga proveniente soprattutto da Napoli attraverso 
i camionisti che portano in fabbrica componenti e materiale necessario 
alla produzione dei furgoni. La roba finisce in mano agli spacciatori 
interni e, di mano in mano, raggiunge tutti i reparti, poi esce dalla 
fabbrica e arriva nei paesi dove tutti consumano droghe leggere e tanti, 
forse addirittura l'80%, si fanno di coca, dai 14 ai 40 anni», racconta 
un addetto alla repressione esterna e ci confermano i ragazzi con cui 
parliamo, nonché il segretario della Fiom abruzzese, Marco Di Rocco: 
«Una piaga sociale».

Ma il processo di trasformazione culturale riguarda innanzitutto la 
fabbrica: ci si fa sulla linea di montaggio, si sniffa nelle pause 
vicino all'armadietto e al cesso ci si buca. Qualche volta, ci dice un 
ufficiale, «sono stati beccati dei ragazzi esaltati che facevano l'amore 
dentro i furgoni che costruiscono». I furti negli armadietti non si 
contano, «riescono a svuotarne così tanti perché operano in squadre 
organizzate», ci dice un altro delegato. Ma spariscono anche i sifoni 
dei bagni, gli specchi. «Tutto per quattro soldi, per un quartino». Il 
quartino è una dose da un quarto di grammo di coca, con una ventina di 
euro te la porti a casa o alla catena. Il suo prezzo, da Napoli ad 
Atessa, può anche triplicare.

*Ricatti e minacce*

Perché lo fanno? «Perché sono uguali ai loro coetanei che studiano o 
vivacchiano in paese. Qualcuno - ci dice chi si occupa di droga nel 
territorio di Lanciano - all'inizio tira coca per reggere un lavoro 
molto pesante, ma non è questa la motivazione prevalente. Lo fanno 
soprattutto la notte perché la sorveglianza è minore. E se chi spaccia è 
ricattabile, i sorveglianti interni non hanno strumenti per intervenire 
e vengono minacciati». Giulietta e Romeo sono due operai in trattamento 
da qualche anno al Ser.T. Eroinomani, ora vivono con la loro dose 
quotidiana di metadone e giurano di esserne fuori. Giulietta ha 
ereditato un'epatite C dal tempo in cui si bucava, è stata trasferita 
dalla linea a un posto più umano solo dopo quattro svenimenti. Ora 
lavora in verniciatura, che non è l'ideale per chi ha il fegato 
compromesso. Il nostro delegato Fiom si impegna di fronte a noi ad 
aiutarla a farsi trasferire in un posto compatibile con il suo stato di 
salute. Questo fanno i delegati, spesso chiamati a «dare una mano» con i 
capi, per ottenere turni o postazioni migliori: «Mi arrivano in casa - 
dice Antonio - i genitori di ragazzi finiti nella spirale. Chiedono 
aiuto». Molti sono giovani con contratti atipici. Si subisce il turno di 
notte perché sei precario e ricattabile, o lo si sceglie per guadagnare 
300 euro in più, o perché «ci si può drogare senza troppe rotture di 
coglioni». I «pipistrelli» spesso vivono la notte come un «regalo», e 
lavorano a testa bassa per difenderlo.

Il Ser.T di Lanciano ha 220 utenti, la metà sono operai Sevel. «Non ci 
si fa per reggere la fatica. Molti arrivano in fabbrica già legati alla 
coca o all'eroina. All'inizio può darti un po' di carica, se la 
controlli ti aiuta ma se ne fai un uso eccessivo non riesci più a 
lavorare. Il fisico regge meglio l'eroina - sostiene Romeo - che dà 
assuefazione solo psicologica. Con l'ero e poi passando al metadone 
riesci a fare la tua vita. Con la coca è peggio, 30 euro al giorno per 
la dose è tutto quello che cerchi. Si sente dire che al montaggio c'è 
stato qualche caso di ragazze che si prostituivano per tirar su i 
soldi». Questo è un tabù, anche chi è disposto a raccontarti tutto finge 
di non sapere, di non aver capito la domanda. Si sa «ma non si dice, 
sono solo voci che corrono». Corrono in fretta. Ripeti la domanda e 
allora la risposta è obbligata: «Una volta succedeva, adesso meno e solo 
a fine mese quando lo stipendio è finito». Rimozione o pudore? Forse 
entrambe le cose. Giulietta dice di dover ringraziare un capo che l'ha 
aiutata quando era ridotta molto male e pesava 38 chili: «Ero arrivata a 
consumare anche 80 euro al giorno per l'eroina, e a quel punto non ti 
resta che spacciare», se di prostituirti non vuoi sentir parlare. Che 
cos'è il lavoro per questi ragazzi? Per Romeo «è la cosa principale, mi 
dà un senso, un'identità» e invece per Giulietta «non è possibile 
identificarsi con questo lavoro. Se potessi me ne andrei domani. Ma non 
in un'altra fabbrica, tutto sommato la Sevel è il miglior posto di 
lavoro in zona. Vorrei fare altro nella vita». E il sindacato? «Ho un 
buon rapporto, è importante il sindacato. Però - ammette Romeo - 
raramente partecipo agli scioperi». E Giulietta: «Io non ho rapporti, i 
miei delegati sono pappa e ciccia col padrone. Solo la Fiom si salva. 
Però agli scioperi aderisco, almeno a quelli di otto ore così mi 
risparmio la fatica di andare in fabbrica». Perché vi fate? «Prova tu a 
vivere in questi paesi, poi lo capisci e ti fai anche tu». Non ha dubbi 
Giulietta. Ora riesce a vivere decentemente insieme al suo compagno. 
«Ormai siamo fuori. Ma non dal metadone, quello te lo porti dietro tutta 
la vita». Romeo non ha rinunciato all'idea di liberarsi anche del 
metadone, «una volta ci ho provato, forse proverò ancora». Sono due 
utenti modello, da cinque anni non si bucano e riescono a farsi le 
vacanze fuori: prima però passano al Ser.T, si portano le dosi 
quotidiane e poi via, alla ricerca di una vita normale. Con chiunque 
parli ti senti ripetere che con la *cocaina* non c'è problema, «puoi 
smettere quando vuoi». Fatto sta che non smettono. In pochi ammettono di 
essere tossicodipendenti. Lo raccontano a noi o a se stessi?

*La crisi della comunità*

L'impressione che si trae da questo primo giro è che la «diversità» 
operaia sia finita, i giovani in tuta sono uguali a quelli senza perché 
la fabbrica non è più una comunità, un luogo identitario, di 
aggregazione. Si condivide una stessa condizione di lavoro ma è più 
facile mettersi insieme per sniffare che per lottare contro il padrone. 
La fabbrica è sempre più un luogo di transito per i giovani. E un luogo 
di consumo, di spaccio.

 

*Un po' di coca e il turno se ne vola 
via. *                                                                                            
 
*Inchiesta Sata di Melfi, dal «prato verde» alla tossicodipendenza.**
*Nello stabilimento gioiello della Fiat si «tira» per reggere i ritmi 
del Tmc2. Ma la cocaina detta anche tutti i tempi della vita e permette 
un commercio che per molti consumatori si trasforma in un bel business.
All'inizio era il «prato verde», messi di grano a perdita d'occhio nella 
straordinaria piana di San Nicola. Il grano ha lasciato il posto allo 
stabilimento Fiat-Sata di Melfi e la collina che si arrampica verso il 
paese è ferita da una strada costruita tutta in sopraelevata. Quando 
venne inaugurata la fabbrica, nel '94, speranze di emancipazione e 
retorica postdemocristiana si mescolarono in una narrazione inedita in 
questa terra lucana: arriva il capitalismo serio, si può uscire da una 
povertà contadina dominata per decenni dal paternalismo di Emilio 
Colombo. Arriva l'industria, arriva il progresso. Il vecchio applaudiva 
al passaggio dei nuovi padrini: «Romito, salutateci Agnello», aveva 
scritto su un cartello ripreso da cento telecamere e alla Fiat veniva 
concesso tutto, dalla deroga al divieto del lavoro notturno per le donne 
a una rivisitata forma di gabbie salariali che condannavano i futuri 
operai a guadagnare meno dei loro compagni di Mirafiori e a lavorare di più.
«Prato verde» chiamarono lo stabilimento di San Nicola. Perché nasceva 
dal nulla (il grano, si sa, è nulla) e nell'assenza di memoria 
dell'industria e del conflitto. Ci sono voluti 10 anni esatti perché gli 
operai di Melfi esplodessero decretando la fine della pace sociale, per 
21 giorni bloccarono i cancelli, ressero alle cariche della polizia e 
ruppero un isolamento che inutilmente, in tanti nella politica, nei 
media e persino nei sindacati avevano cercato di costruire intorno ai 
nuovi briganti in tuta blu. Vinsero, con il sostegno quasi solitario 
della Fiom, diventarono maggiorenni conquistando diritti che altri, in 
altre stagioni, avevano conquistato e che ora, tutti insieme, rischiano 
di perdere di nuovo.
Quasi 15 anni dopo la nascita, Melfi è uno degli stabilimenti di punta 
della Fiat. 5.300 dipendenti diretti, 10 mila con l'indotto. Gli operai 
arrivano a San Nicola ogni mattina, pomeriggio e notte da tutti i paesi 
della Basilicata, dal nord della Puglia e in parte dalla Campania. Ore e 
ore di pullman o di macchina, centinaia di incidenti stradali con tanti 
morti e feriti accumulati in 15 anni di pendolariato. Anche qui, come 
alla Sevel in Val di Sangro, lavora una classe operaia molto giovane che 
spesso non riesce a reggere i ritmi ossessivi della fabbrica modello, 
come testimonia un turnover molto alto. Anche qui, come alla Sevel, 
impazza la cocaina. Mentre ci lasciamo alle spalle la piana e il paese 
viaggiando verso Potenza, un delegato Fiom senza nome ci racconta la 
«normalita» del consumo e dello spaccio lungo le linee di montaggio - 
pardon, le Ute, un acronimo che sta per Unità produttive elementari che 
viaggiano sui ritmi della famigerata metrica Tmc2, responsabile di 
strappi, ernie, tunnel carpali, tendiniti. «La cocaina circola in 
fabbrica dall'inizio, ma solo da pochi anni ha assunto dimensioni di 
massa. Un carrellista che lavora nella mia Ute vende una quantità di 
dosi incredibili agli altri operai, ai capi, ai vigilanti che tirano da 
matti, alle donne. Lo spaccio è quotidiano come il consumo, ma il 
venerdì e prima delle vacanze il volume degli affari va alle stelle 
perché vengono acquistate le dosi per il sabato sera in discoteca, o per 
le ferie. Il mio amico carrellista prima di Natale ha tirato su 15 mila 
euro, in poco tempo si è fatto casa». Ci si droga anche dentro la 
fabbrica? «Gli operai - risponde - si fanno durante le pause, li 
riconosci perché riprendono il lavoro eccitati, tirano su col naso, è 
una specie di tic, e per una mezz'ora producono come pazzi, poi si danno 
una calmata. All'inizio sono solo consumatori saltuari, ma quando 
prendono il vizio si trasformano in piccoli spacciatori per pagarsi la 
dose. Le canne se le fanno direttamente sulla Ute: sentissi che profumo...».
*Droga di sostegno*
I prezzi della cocaina si aggirano tra i 70 e i 100 euro a grammo, i 
soliti 20-25 euro a quartino. Arriva soprattutto da Foggia portata dai 
soliti camionisti che riforniscono la fabbrica di pezzi, componenti e 
sogni di gloria, o di fuga che dir si voglia. «C'è anche qualcuno che si 
buca - continua il racconto del nostro amico delegato - e spesso viene 
aiutato dall'azienda a recarsi qualche periodo in comunità per tentare 
di disintossicarsi». Perché si drogano? «Anni di lavoro in questa 
fabbrica ti spompano. Il ritmo è stressante, i viaggi quotidiani per 
raggiungere o lasciare il lavoro fanno il resto e la vita nei paesi è 
banale, noiosa. C'è chi si fa per reggere lo stress, ma spesso le 
motivazioni sono altre: per stare bene con gli amici, per stare bene con 
la moglie o il marito. Molti si portano la coca a casa e fanno sniffare 
anche la moglie per scopare meglio». Vuol dire che con gli amici si sta 
male senza farsi? E che non si riesce a divertirsi in discoteca o a 
letto senza l'uso di cocaina? Il delegato scuote le spalle, e va avanti 
nel suo racconto. Insiste sul legame con il sesso: «Quando tirano, anche 
in fabbrica, non li ferma più nessuno. Qui si dice «inculare la formica» 
quando sei preso dal raptus e ti senti Rambo, e succede che il tuo 
compagno di lavoro, un po' per gioco e un po' no, venga a toccarti il 
culo, non avendo una donna a portata di mano». Tra i consumatori ci sono 
anche iscritti al sindacato? «Ce ne sono, ce ne sono. Anche delegati. 
Uno dell'Ugl è stato anche bastonato perché era in ritardo con il 
pagamento allo spacciatore. I delegati Fiom? Qualche spinello, quello 
tutti. Sì, qualcuno usa anche la cocaina. La maggior parte dei 
consumatori - cambia discorso - è sposato e ha figli». Qual è la 
percentuale dei cocainomani? «C'è chi dice il 40%, chi corregge la cifra 
al rialzo: uno su due».
Stress, noia, sesso, voglia di essere diverso anche se poi finisce che 
sei esattamente uguale a tutti gli altri tuoi coetanei. «Di notte c'è 
meno controllo ma si sniffa in tutti i turni. In questa fabbrica si può 
comprare fumo, coca, eroina ma anche perizoma, canottiere, 
elettrodomestici. Tutti sanno nessuno parla. Per paura, per convenienza, 
per quieto vivere». In realtà c'è chi parla: i blitz dell'antidroga 
fuori dai cancelli, sui piazzali dello stabilimento, finiscono spesso 
con arresti, dunque le spiate non mancano. Chi viene pizzicato con le 
mani nella farina viene spinto dall'azienda a dimettersi, oppure viene 
degradato e spostato in altre unità, «è successo recentemente a un 
quarto livello del montaggio». Dalla lotta vittoriosa dei 21 giorni, 
Michele è assessore di Rifondazione alle politiche sociali della 
provincia di Potenza, in distacco dalla Fiat di Melfi dove fa l'operaio: 
«Ho assistito personalmente - ci racconta - all'arresto di due operai 
sul pullman che ci riportava al paese dopo il turno di notte: sono 
saliti in tre, uno in borghese dalla porta davanti e due in divisa da 
quella posteriore per bloccare le uscite e sono andati a colpo sicuro 
mettendo le manette a due operai, direttamente sul pullman. Per fortuna 
quella volta non avevano roba con sé e sono stati rilasciati». In 
qualche caso, però, scatta il licenziamento ma sempre con motivazioni 
diverse: «Due ragazzi - ci racconta l'avvocato Lina Grosso che segue le 
cause di lavoro per la Fiom - sono stati licenziati per assenza 
ingiustificata, ma è noto che si trattava di due tossicodipendenti. Noi 
avviamo la procedura ma in questi casi la Fiat punta sempre a 
monetizzare, offrendo soldi a chi di soldi ha bisogno come il pane, pur 
di non arrivare a sentenza. Per noi è difficile convincere questi 
ragazzi a non accettare l'offerta, anche perché non abbiamo alcuna 
certezza di vincere la causa». E questo è uno dei tanti problemi a 
Melfi, dove le procedure d'urgenza (il 700 contro i licenziamenti) 
durano mesi e mesi e le sentenze, quando ci si arriva, rarissimamente 
sono a favore del sindacato. «C'è invece il caso di un altro operaio, 
dipendente da alcol, che l'azienda metteva regolarmente in postazioni 
per lui insostenibili. Una volta chiese di poter uscire per andare in 
ospedale perché stava male. Lo bloccarono più volte finché non riuscì a 
scappare determinando momenti di forte tensione. Fuggì in automobile 
dopo una colluttazione con due capi in stato confusionale ed ebbe un 
incidente d'auto. L'azienda l'ha licenziato e noi abbiamo fatto causa. 
Abbiamo perso in primo grado e siamo andati in appello, anche perché una 
perizia medica ha stabilito che non era in grado di intendere e di 
volere per cui non è stato condannato in sede penale. Dopo una seconda 
perizia che ha confermato la prima, la Fiat ha proposto la transazione, 
cioè la monetizzazione per non arrivare a sentenza. Il nostro assistito 
non ha accettato e ora aspettiamo il verdetto del giudice». Finalmente, 
all'inizio della settimana è avvenuta una cosa che ha ridato qualche 
speranza all'ufficio legale della Fiom: il giudice di Melfi ha accolto 
il ricorso contro il licenziamento di un operaio Sata, Michele 
Passannante, «senza giusta causa», dopo l'apertura di un'inchiesta 
giudiziaria in cui è indagato per una presunta appartenenza all'area del 
terrorismo. Ora la Fiat dovrà riaprirgli le porte della fabbrica e 
pagargli gli stipendi arretrati.
*Un'emergenza che dilaga*
La Regione Basilicata si occupa della Fiat di Melfi dal giorno della sua 
apertura, e lo fa manifestando talvolta un certo grado di autonomia 
rispetto allo strapotere esercitato nel territorio dalla multinazionale 
torinese. Ha attivato inchieste («magari la Procura fosse altrettanto 
attiva», ci dicono gli avvocati che difendono gli operai) sul mutamento 
della vita nei paesi in cui vivono i dipendenti Sata e dell'indotto, 
sugli infortuni stradali stradali legati al pendolarismo, sul mobbing. 
La Regione si è occupata anche di tossicodipendenza in fabbrica. In 
particolare c'è un'inchiesta curata dall'equipe della Cooperativa 
Marcella sulla percezione delle droghe da parte dei lavoratori dell'area 
industriale di Melfi: «Tutti sono concordi nell'affermare che l'uso 
delle sostanze è gravemente nocivo per la salute», pur ritenendo che 
alcune, come le droghe leggere, possano aumentare la capacità lavorativa 
e insieme a quelle sintetiche migliorino la resistenza alla fatica, a 
differenza di alcol e psicofarmaci. In molti pensano che l'uso di droghe 
pesanti e sintetiche facciano correre rischi all'interessato e ai 
compagni di lavoro. Sono al corrente del consumo crescente di droghe in 
fabbrica, o per conoscenza diretta, o per lo spaccio evidente, le 
siringhe abbandonate, i furti, l'eccesso di assenze per malattia, 
qualche episodio di violenza. Solo il 21% degli intervistati esclude che 
nella sua azienda si consumino sostanze stupefacenti. Un dato allarmante 
su cui riflettere è segnalato da un intervistato su due: chi si fa si 
infortuna di più. Il 50% sostiene che chi si droga è «una persona normale».
L'altro dato che non deve sorprendere è che il consumatore «non si 
ritiene tossicodipendente» (44,9%). Per il 77,3% del campione, infine, 
«le imprese dovrebbero avere un programma di lotta contro la droga».
Qualche mese fa, nel terzo stabilimento meridionale della Fiat per 
importanza, quello di Cassino, fu realizzato un video con un operaio 
intervistato di spalle che raccontava il consumo di droga durante il 
turno di notte. Diceva molte verità, e proponeva qualche certezza di 
troppo e troppo politicamente corrette: ci si fa di cocaina solo per 
resistere a un lavoro altrimenti insopportabile. E' così, ma non è solo 
così. Ne parleremo nelle prossime puntate. Finora abbiamo indagato solo 
grandi fabbriche metalmeccaniche, anzi Fiat, perché è più facile 
stabilirvi relazioni e perché il tasso di vent'enni è altissimo. Non si 
creda però che si tratti di un fenomeno circoscritto a queste realtà. In 
tutti i settori dell'industria e dei servizi il consumo della cocaina è 
drammaticamente alto e crescente. Lo è nei lavori faticosi, come 
nell'edilizia, nei lavori ripetitivi, in quelli che prevedono il 
rapporto con il pubblico. Lo è soprattutto tra i giovani e i precari. 
C'è chi pensa che ci sia un rapporto tra la diffusione delle droghe e la 
riduzione dei conflitti sul lavoro. Ipotesi, naturalmente, tutte da 
verificare.
 *(Il Manifesto del 16 maggio 2008)**
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*Tra fatica e coca, operai alla 
catena.                                                                                              **
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Il grande rimosso. Le aziende oscillano tra silenzio e repressione, 
sindacato in difficoltà. A rischio la sicurezza sul lavoro: si svaluta 
il salario, si svaluta la vita.
 
Ancora metalmeccanici, ancora droghe. «Hai deciso di metterci in 
mezzo?», mi chiede con tono scherzoso ma anche preoccupato un delegato 
della Fiom. La verità è che va reso onore al coraggio di questa 
categoria, e al suo sindacato più rappresentativo: non è facile mettere 
in piazza problemi come questi che costringono ad aprire una discussione 
a tutto campo, sul rapporto con le nuove generazioni di lavoratori e di 
esse con il lavoro, il conflitto, il sindacato, sul ruolo stesso dei 
delegati sindacali, le Rsu. Non tutti sono disposti ad aprire questo 
libro doloroso perché parla di sofferenze dei giovani, nel lavoro come 
nella vita, una vita alla giornata, senza investimenti sul futuro. Parla 
di solitudini operaie, cioè di quella classe che liberando sé stessa 
avrebbe dovuto liberare l'umanità. Raramente, invece, «la classe» è 
apparsa incatenata come oggi, alla linea di montaggio innanzitutto. E 
poi a una nuova povertà, con salari che continuano a perdere valore 
dentro un lavoro non più riconosciuto socialmente. Prigioniera, infine, 
di una cultura dominante televisiva, in cui all'emancipazione 
individuale e collettiva si sostituisce l'emulazione dei comportamenti e 
consumi di chi «ce l'ha fatta», magari del padrone. E il conflitto, che 
«naturalmente» dovrebbe essere agito nei confronti di chi ti sfrutta, si 
scarica invece contro i soggetti socialmente più deboli.

*La cessione del quinto*
Occuparsi di droghe sul lavoro aiuta a scoprire meglio la materialità 
della condizione operaia. Di chi si è già mangiato il 70% del Tfr per 
l'acquisto della casa, di chi ha ceduto un quinto dello stipendio per 
attivare un mutuo, magari per comprare l'automobile nuova o la tv al 
plasma, commenta un vecchio operaio bergamasco. E via di quinto in 
quinto finché dello stipendio non resta nulla, un pezzo alla volta è 
finito in tasca ai moderni strozzini, finanziarie e banche che si fanno 
pagare il 13% di interessi sui prestiti. Sempre che tu abbia un 
contratto a tempo determinato, se sei un precario non puoi concederti 
neanche il lusso di farti succhiare lo stipendio. Eccola, la nuova 
classe operaia in carne e ossa.
Concludendo i lavori della conferenza nazionale d'organizzazione della 
Fiom a Cervia, il segretario generale Gianni Rinaldini ha raccontato un 
paese inquietante segnato dagli effetti di una globalizzazione selvaggia 
che spinge gli operai a competere tra di loro. La crisi del lavoro, 
amplificata dalla sua frantumazione, fa saltare un modello logorato di 
rappresentanza sindacale e sociale. In questo contesto opera la spinta 
delle imprese allo smantellamento della contrattazione collettiva, per 
sostituirla con rapporti /ad personam /con i singoli lavoratori. 
All'interno dell'individualizzazione del rapporto con il lavoro e con il 
padrone, si inserisce la massiccia e crescente diffusione delle sostanze 
stupefacenti in fabbrica, nei cantieri edili e navali, nei servizi. «Che 
altro deve accadere? Se il problema è di queste dimensioni - ha detto 
Rinaldini in riferimento all'inchiesta del manifesto - dobbiamo aprire 
una discussione tra noi e con i delegati». Anche questa è una scelta 
coraggiosa, sapendo che la rottura del silenzio scatena reazioni 
pericolose da parte delle aziende, che o non sanno quel che succede 
nelle loro fabbriche, o più verosimilmente fingono di ignorarlo. Quando 
la verità s'impone, il passaggio dalla rimozione alla repressione viene 
spontaneo ai dirigenti d'azienda, un fatto di dna. Ed ecco allora che 
dai delegati si pretenderebbe la delazione, quando non si passa 
direttamente alla violazione della legislazione che tutela la privacy 
dei lavoratori: alcune piccole aziende hanno tentato di imporre ai 
dipendenti o agli aspiranti tali le analisi delle urine per verificare 
l'eventuale consumo di sostanze. Si può capire il comunicato dei 
delegati Fiom della Sevel Val di Sangro che, pur aggrappandosi a una 
lettura un po' riduttiva della diffusione di cocaina nel loro 
stabilimento, ne ammettono l'esistenza e anzi denunciano le loro 
ripetute quanto inascoltate richieste alla direzione aziendale di 
affrontare il problema «con serietà e trasparenza, senza 
criminalizzazione di chi vive questa condizione».
Un aspetto preoccupante, segnalato da un'inchiesta commissionata dalla 
Regione Basilicata di cui ha riferito il manifesto di venerdì scorso, è 
legato al rischio che il consumo di droghe possa provocare un 
abbassamento dei livelli di sicurezza e, di conseguenza, un aumento 
degli infortuni sul lavoro. Me ne parla un operaio di un'acciaieria (ci 
si consenta la genericità del riferimento, ampiamente giustificata dalla 
delicatezza della questione e dal rischio che corre chi prova a metterci 
le mani): qualche settimana fa si è verificato un grave infortunio, per 
fortuna non mortale, a una macchina. Nelle tasche dell'operaio ferito 
sono state trovate alcune bustine di cocaina. In un'altra fabbrica di 
peso, un delegato ha chiesto un incontro con il responsabile del 
personale per denunciare la diffusione della cocaina, mosso dalla 
preoccupazione che ad essa sia connesso un possibile aumento degli 
infortuni. «L'azienda ha finto di cadere dalle nuvole. I casi sono due: 
o non controllano la fabbrica, e sarebbe gravissimo, oppure fanno i 
finti tonti per evitare ricadute sull'immagine».
Il consumo di droghe (cocaina in particolare) cresce con l'abbassamento 
dell'età media dei lavoratori e con lo spezzettamento del ciclo 
produttivo, accompagnato dalla terziarizzazione di pezzi di produzione e 
servizi e dal lavoro in affitto, che fanno convivere nello stesso posto 
di lavoro imprese e forme contrattuali assai diverse. Per i delegati è 
sempre più difficile controllare o addirittura conoscere l'insieme, il 
che rende più fragile lo stesso intervento sindacale. Se i giovani in 
molte realtà assumono coca, il fenomeno dell'alcolismo è legato 
tradizionalmente ai lavoratori ultraquarantenni. Dal Veneto all'Emilia 
quest'ultimo fenomeno è particolarmente diffuso, come confermano alcuni 
delegati della Bassa reggiana. In Emilia mi raccontano di operai 
allontanati per ubriachezza: è il caso della ex Landini a Fabbrico, nel 
Reggiano, dove il consumo di cocaina è limitato ad alcuni casi 
concentrati nel turno di notte: «Canne a go-go, ma roba pesante poca». 
Il fenomeno è comunque abbastanza contenuto e sotto controllo, grazie 
anche a una rete efficiente di servizi nel territorio, figli del modello 
sociale emiliano. Qui, come in altri stabilimenti della regione, sono 
moltissimi i giovani assunti dal Mezzogiorno d'Italia e sbattuti in 
un'area geografica dove la vita è carissima e una casa in affitto costa 
poco meno dell'intero stipendio. Campare con mille euro al mese o poco 
più non è facile, non consente di costruirsi un futuro e la vita si 
brucia sulla linea di montaggio giorno per giorno. Alla ex Landini 
lavorano anche 70-80 indiani. Non bastano i menù differenziati per 
costruire una buona convivenza, tra italiani e immigrati 
extracomunitari, tra emiliani e meridionali, tra giovani e anziani. 
Persino nel consumo delle sostanze i comportamenti sono differenziati.
In una grande acciaieria come l'Ilva di Taranto - tra diretti e 
indiretti oltre 17 mila lavoratori, le dimensioni di una cittadina di 
provincia - si può trovare di tutto, mi raccontano, «è una specie di 
supermercato in cui puoi comprare anche cocaina. Sta diventando un 
problema in uno stabilimento in cui è pericoloso anche camminare, 
figuriamoci lavorare all'altoforno. Devi essere lucido, attento, sennò 
rischi di farti male e fare del male ai tuoi compagni. Pensa 
all'attenzione a cui è chiamato chi lavora sul carroponte e sposta una 
siviera contenente 300 tonnellate di metallo liquido». Chi racconta 
queste cose è preoccupato per gli effetti delle droghe consumate sul 
lavoro, e lo è anche per il rischio che aprire questo capitolo possa 
fornire «un alibi ai padroni, pronti a ripetere la solita canzoncina: 
gli infortuni? Colpa della distrazione degli operai. E' un imbroglio, 
perché le responsabilità dei morti e dei feriti sul lavoro sono degli 
imprenditori, dei ritmi insopportabili, della non applicazione della 
normativa sulla sicurezza, dell'organizzazione del lavoro». Detto 
questo, aggiunge un secondo operaio, «non dobbiamo nascondere le nostre 
di responsabilità». Ma la riduzione del potere di controllo delle Rsu, 
sottoposte all'attacco e all'emarginazione da parte degli imprenditori, 
la fatica che fanno i Rappresentanti sindacali per la sicurezza ad 
assolvere al loro ruolo, troppo spesso osteggiato dalla controparte, 
sono ostacoli alla costruzione di un modo di lavorare meno pericoloso. 
E' la solita storia, «per i padroni contano solo la produzione e il 
profitto».

*Li riconosci dal cambio d'umore*
Dai fumi e dal fuoco dell'altoforno passiamo alla griffe più prestigiosa 
del made in Italy, la Ferrari di Maranello. L'uso di sostanze, che una 
volta era connesso al mondo dorato della Formula 1, qui in fabbrica «si 
intuisce, anche senza vedere il tuo compagno che si fa un acido o chissà 
quali pastiglie, la cocaina c'è ma è meno diffusa, almeno al montaggio. 
Se sali di grado la musica cambia. L'hashish è diffuso tra i giovani, ma 
si fuma soprattutto nelle pause. Chi assume sostanze si riconosce per 
quel particolare stato di euforia che lo prende: ti accorgi che dopo una 
pausa il tuo compagno di lavoro ha cambiato stato d'animo». 2.800 
dipendenti, la maggioranza impegnati nello stabilimento di Maranello e 
una piccola parte alla Scaglietti di Modena dove si saldano le scocche. 
Alla Ferrari si costruiscono anche i motori e si verniciano le scocche 
per la Maserati. «Il settore Corse, qualche centinaia di dipendenti, fa 
storia a sé. Ma nella produzione di serie il lavoro e la sua intensità, 
Maranello non è poi così diverso da Mirafiori. Così come il salario base 
che si aggira intorno ai 1.100 euro, a cui vanno aggiunti il premio di 
risultato (un buon contratto integrativo) e l'eventuale lavoro notturno 
o straordinario. In alcune aree come il montaggio dove si lavora su tre 
turni, l'80% dei dipendenti viene da sud. Questi ragazzi vengono su 
carichi di entusiasmo, prima di accorgersi che la fatica è tanta, i 
soldi pochi e la vita come gli affitti è carissima. Rapidamente arriva 
la disillusione, la frustrazione. Negli ultimi anni l'uso di sostanze è 
aumentato in diverse aree della produzione, soprattutto tra le ditte 
terze e durante il turno di notte. Il mercato per le rosse va alla 
grande, cresce la produzione e nell'arco di un paio d'anni la Ferrari 
prevede di estendere i tre turni su tutto lo stabilimento. Intanto 
aumenta la richiesta di lavoro straordinario. Mentre uno della mia 
generazione si è battuto e si batte per le otto ore, vedi dei ragazzi 
che fanno la fila per ottenere qualche ora di straordinario, al punto 
che i capi si permettono di discriminare, a te sì e a te no, dipende 
dalla dedizione; e così fanno vivere le ore di lavoro in più come una 
concessione benevola e non come un carico aggiuntivo di sfruttamento», 
dice sconsolato un operaio anziano che aggiunge: «Vedo ragazzi 
intimiditi a cui viene annullata la personalità, per loro il lavoro 
significa soltanto reddito. Allora capisci anche perché fanno gli 
straordinari o chiedono di lavorare di notte, per guadagnare e spendere 
di più. E si diffonde la droga con tutto quel che comporta, spaccio 
compreso».
La politica delle assunzioni massicce dal Mezzogiorno ha la conseguenza 
inevitabile di ridurre progressivamente il tasso di sindacalizzazione. E 
può anche succedere che la Fiom, l'organizzazione ampiamente 
maggioritaria in Ferrari, venga sconfitta a un referendum sulla 
turistica: «Vince chi punta tutto sui soldi, alla faccia della 
condizione lavorativa». (3/continua)
(Il Manifesto del 23 maggio 2008) 
 
 
*«Senza la speranza vince la 
cocaina»  *                                                                                             
 
Il dominio della competitività. Emilio Rebecchi analizza i comportamenti 
in fabbrica e le cause che fanno crescere il consumo. Migliorare le 
prestazioni è funzionale alla produttività La società è classista, se 
non hai soldi di famiglia per pagarti la dose spacci, rubi o ti 
prostituisci.
Ultima puntata 
Bologna

«Il carcerato almeno una speranza ce l'ha: quella di uscire dalla 
galera, per fine pena o tentando la fuga. Spesso si ha l'impressione che 
al giovane, al giovane operaio, sia negata anche la speranza di fuga. Se 
a un ragazzo togli la speranza di costruirsi un futuro gli hai tolto un 
diritto fondamentale». Il ragionamento di Emilio Rebecchi segue una 
logica stringente quanto disperante. Psichiatra, psicoanalista, 
attentissimo ai comportamenti giovanili e alle dinamiche sociali nei 
posti di lavoro, Rebecchi ha lavorato a molte ricerche e inchieste ed è 
a lui che chiediamo un aiuto per tentare di decodificare le ragioni che 
stanno dietro la spaventosa diffusione di sostanze stupefacenti nelle 
fabbriche, negli uffici, nei cantieri. Il consumo di droghe tra i 
lavoratori non rappresenta certo una novità, ma oggi sono cambiate le 
motivazioni, le modalità del consumo, le stesse sostanze assunte e 
soprattutto, è cambiata la dimensione del fenomeno. Lo incontriamo nel 
suo studio sulla collina bolognese.
«Io ho sempre apprezzato moltissimo Pantani. Mi ha colpito il 
ragionamento che faceva ancora prima di diventare un grande campione: 
'io sono il più forte, diceva, ma se gli altri prendono le sostanze 
resto indietro. Bisognerebbe che tutti smettessero, e siccome questo non 
avviene sono costretto a prenderle anch'io'. Il ragionamento non fa una 
piega, ma così si alza il livello dello scontro. Conosco un gruppo di 
bolognesi che pratica il ciclismo per passione, diciamo che fanno 
cicloturismo. Lo sai che si bombano anche loro? Mica lo fanno per 
vincere, non c'è niente da vincere; lo fanno per competere, per reggere 
il livello degli altri. Per non lasciare adito a dubbi di sorta preciso 
subito che di questo gruppo non fa parte Romano Prodi». La competizione, 
il miglioramento delle prestazioni, sono i nodi centrali della chiave 
interpretativa che ci offre Rebecchi. Ma procediamo con ordine. «Io non 
criminalizzo la chimica: la chimica esiste, è utile in mille 
circostanze. Ma se la utilizzi per aumentare le tue prestazioni, 
sessuali, lavorative, persino per divertirti, allora vuol dire che c'è 
un problema. Intendiamoci, tanti artisti, poeti, scrittori hanno assunto 
droghe per curiosità, per conoscenza. Lo stesso Siegmund Freud. Ma 
stiamo parlando del Medio Evo. Oggi i ragazzi si drogano come noi si 
beveva il caffè o si succhiava il latte dalla mamma. Per loro farsi una 
striscia di coca o un'anfetamina è un fatto normale, persino ovvio. 
Senza alcuna solida motivazione il giovane diventa 'spontaneamente' 
consumatore. Incidono molto i modelli culturali (la competizione spinta 
all'esasperazione) e interviene un fatto imitativo. Così come da bambini 
si vuole andare al Burghy o al Mcdonald's perché lo fanno tutti a 
prescindere dalla schifezza che ti danno da mangiare, così qualche anno 
più tardi, con lo stesso atteggiamento, può capitare di farsi di 
cocaina. Questo segnala la presenza di un vuoto che spesso si tenta di 
riempire con la droga. E siccome la società è classista, se non hai 
soldi di famiglia, per pagarti la dose rubi, o spacci, o ti prostituisci».
Arriviamo al mondo del lavoro. Se con le categorie interpretative 
classiche si comprendono alcuni comportamenti 'devianti' nel 
sottoproletariato, è più difficile farsene una ragione quando il 
soggetto interessato è l'operaio di fabbrica. «Saltano le differenze 
etiche. Ammettiamo pure che in fabbrica a spingerti al consumo possa 
essere una condizione difficile, segnata dalla fatica. La fatica alla 
linea di montaggio, dove la durata della mansione che si ripete sempre 
uguale a se stessa è al di sotto del minuto, provoca effetti negativi 
sulla salute dell'operaio, dolori, lombalgie. Una situazione di questo 
tipo farebbe pensare che la sostanza adatta ad alleviare la condizione 
di sofferenza sia l'eroina che è un anestetico e dunque attenua il peso 
e le conseguenze di un lavoro faticoso. Invece sempre più spesso la 
droga assunta, anche in fabbrica, è la cocaina. La cocaina è un 
eccitante, serve ad aumentare la produzione». Le parole di Rebecchi sono 
confermate dal racconto di tanti operai che abbiamo intervistato: il 
picco produttivo spesso e volentieri si verifica durante il lavoro 
notturno, il terzo turno che è quello dove il consumo di cocaina è più 
alto, anche per una rarefazione dei controlli. Se ne deduce, chiedo a 
Rebecchi, che la cocaina è funzionale alla produzione e dunque è una 
'droga di sistema'? «Negli anni Settanta l'uso di sostanze poteva avere 
una qualche connotazione antisistema, oggi è tutta interna, verrebbe da 
dire funzionale al sistema. Non vale solo per gli operai, vale per i 
manager, per gli sportivi». In fabbrica c'è chi sostiene che si riesce a 
convivere meglio con l'eroina che non con la cocaina... «E' verissimo, 
con l'aggravante che la cocaina ha un'azione sulle arteriole, può 
provocare microinfarti. Alla lunga ti brucia il cervello. Un effetto 
analogo può essere provocato dalle anfetamine di cui è quasi sempre 
sconosciuta la composizione».
Come si può intervenire rispetto a questo fenomeno, come si possono 
aiutare i giovani operai finiti nell'imbuto del consumo, in molti casi 
nello spaccio per potersi pagare la dose quotidiana? «La cosa che rende 
più difficile l'intervento è proprio la mancanza di motivazione sociale 
nella decisione di assumere sostanze, che non sia l'aumento della 
prestazione individuale e di conseguenza della produzione. Sei 
disarmato, anche gli strumenti tradizionali come la psicoanalisi sono 
spuntati. Ti può capitare di chiedere a un giovane paziente di fare 
delle libere associazioni, dopodiché a un certo punto ti domandi: ma che 
vuoi che associ questo poveraccio, se non ha un cazzo di idea nel 
cervello? Dico che ti senti disarmato perché se il giovane consumatore, 
che sia operaio o studente, non ha una motivazione, quando gli dici di 
smettere ti risponde semplicemente 'e perché? Mi piace'. Guarda che 
domani starai male, avrai delle conseguenze gravi sulla salute, gli 
contesti, ma ti accorgi che non glie ne frega niente. Il che vuol dire, 
lo ripeto, che nelle giovani generazioni c'è una caduta, una rinuncia a 
costruirsi un futuro, una prospettiva di vita». E la vita stessa perde 
di valore... «Senza ideali, non solo politici o religiosi ma 
semplicemente civili, si resta solo dentro una realtà durissima che non 
si sopporta più. Così si finisce per tornare all'infanzia, si regredisce 
allo stadio all'oralità. Vuoi dimostrare di essere più potente di chi ti 
sta vicino».
La scelta può essere individuale, ma un fenomeno di queste proporzioni 
assume inevitabilmente un carattere sociale. Dice Rebecchi: «La 
regressione è legata alla natura della società in cui viviamo, e 
l'aumento della prestazione individuale, in qualsiasi campo, risponde al 
comandamento della competitività». Alcuni operai, a conferma di quanto 
ci dice Rebecchi, ci hanno spiegato che ci si fa, e si convince anche il 
partner o la partner a tirare coca, prima del rapporto sessuale per 
migliorare le prestazioni. «E' la logica maschile classica di chi vuole 
dimostrare che ce l'ha più lungo, la sessualità si riduce all'aspetto 
penetrativo. Pensi che in un rapporto sia questo e solo questo a 
interessare la donna. E ti esalti perché una striscia di cocaina ti fa 
sentire più potente ma non sai, o non ti interessa sapere che col tempo 
quella roba ti renderà impotente».
Rientriamo in fabbrica. Alcuni operai sostengono che la cocaina aiuti la 
socializzazione con gli altri operai, oltre a migliorare la prestazione 
individuale. «Certo - risponde Rebecchi - ma è la socialità della 
colpevolezza, certo non è la socialità della condivisione. E' la 
denuncia estrema di una condizione di solitudine. E se in passato 
drogavi generazioni intere per mandarle a combattere e morire in guerra, 
oggi con la caduta dei valori le distruggi drogandole per farle produrre 
di più alla catena di montaggio». Rebecchi conclude il suo ragionamento 
tornando al concetto della mancata motivazione nell'assunzione di 
sostanze 'dopanti', da cui discende la mancata motivazione a smettere: 
«Il generale cinese Zhu De era dedito al consumo di oppio. Quando iniziò 
la Lunga marcia, prima di assumerne il comando fece una scelta, aveva 
una motivazione forte per smettere. L'unico luogo in cui era vietato il 
consumo dell'oppio era il fiume Yangtze, così salì su una barca che 
scendeva il fiume chiedendo al proprietario di non fargli mettere i 
piedi a terra per alcuni mesi, per nessuna ragione. Così, con una 
motivazione forte, vinse le sue due guerre».  *(Il Manifesto del 27 
maggio 2008)*

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      -(Rapt)-
www.inventati.org/rapt

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