[Redditolavoro] "Nuovi" strumenti di controllo sulla classe
Rapt
rapt at inventati.org
Fri Oct 3 22:39:04 CEST 2008
Mi scuso per la lunghezza dell'articolo, ma è molto interessante.
**
QUANTO TIRA
LA CLASSE OPERAIA
La *cocaina* va a ruba nelle fabbriche
di *Loris* *Campetti*
<http://itaca.netfirms.com/cgi-bin/artman/exec/view.cgi?archive=57&num=3899>
Atessa (Chieti) «Il proletariato non è soltanto una classe che soffre...
La vergognosa situazione economica nella quale si trova lo spinge
irresistibilmente in avanti e lo incita a lottare per la sua
emancipazione definitiva». Così scriveva nel 1840 Friedrich Engels nella
sua magistrale «Indagine sulla condizione della classe operaia in
Inghilterra». E' un'idea semplice quanto straordinaria quella di Engels
e Marx, che ha mosso centinaia di milioni di uomini e donne in tutto il
pianeta nel corso dei due secoli alle nostre spalle. Un'idea che ha
cambiato il mondo, emancipando grandi masse da una condizione di miseria
e subalternità attraverso la lotta di classe, il «motore della storia».
A che punto è la storia, 170 anni dopo l'indagine di Engels? Questa
domanda ci è sorta spontanea al termine della nostra inchiesta sul
consumo e la diffusione delle droghe nelle fabbriche italiane, e siamo
andati a risfogliare i testi classici, memori delle operaie tessili di
Manchester poco più che bambine, costrette ad avvelenarsi con «cherry,
porto e caffè» per reggere un ritmo di lavoro disumano per 15-16 ore al
giorno. Nel 2008 ci sono realtà industriali importanti in cui
addirittura il 50% dei lavoratori si fa di *cocaina* e, in misura
minore, di eroina e di ogni sostanza capace di rendere più tollerabile
una «vita di merda», o meglio, di far sognare un'improbabile fuga da
essa. Di merda è il lavoro così come la normalità delle relazioni in
paesi privi di vita sociale, che concedono ben poco alle speranze di
futuro e di cambiamento, ci raccontano le tute blu. Ci si fa per
lavorare, per sballare, per fare l'amore. Ci si fa alla catena di
montaggio, in discoteca con gli amici, a letto con la moglie per
migliorare le prestazioni sessuali; poi arriva la dipendenza e con essa
lo spaccio per pagarsi la dose. Operai e operaie, capi e sorveglianti,
adescati in fabbrica da altri operai: una «pista» nei cessi della
fabbrica tanto per provare, l'esaltazione e il cuore che batte a mille,
l'adrenalina che all'inizio fa persino aumentare la produzione, infine
la consuetudine. Si lavora di notte per guadagnare trecento euro in più,
1.400 invece di 1.100 euro buoni per affrontare l'astinenza e la crisi
della quarta settimana. La notte ci sono meno controlli, «tu fai i
picchi di produzione e i capi non ti rompono il cazzo». Qualche ragazza
può persino arrivare a prostituirsi per pagarsi la dose, per fortuna
casi sporadici.
*Dall'officina al muretto*
Dalla fabbrica la droga arriva nei paesi di provenienza dei lavoratori
in una spirale perversa di cui, oltre alle forze dell'ordine, si
occupano in pochi: operatori sociali, Ser.T, qualche livello
istituzionale. Le aziende nascondono finché possono il fenomeno per
salvare la faccia; quando un caso esplode, magari dopo l'ennesimo blitz
dei carabinieri, scelgono la repressione attraverso il licenziamento o
le «dimissioni spontanee», a volte aiutano il recupero dei
tossicodipendenti. I sindacati, anch'essi, rimuovono, cosa che non
riescono più a fare i delegati il cui impegno rischia di cambiare
natura, assorbito dal lavoro di aiuto ai ragazzi finiti nella spirale.
Ragazzi - anche iscritti al sindacato, persino delegati - che non
vivono, se non molto parzialmente, il lavoro come emancipazione, come
veicolo per costruirsi un futuro, ma come pura fonte di introito per
continuare a sniffare coca o a iniettarsi eroina, oppure a fumarla «come
fa un gruppo di ragazze del mio turno», dice Arturo che da anni prova a
disintossicarsi e ci ricade ogni volta, nonostante il suo appuntamento
quotidiano al Ser.T di Pescara. Lui dal sindacato (è iscritto alla Fiom)
si aspetta «solo un aiuto per difendermi dai capi che mi ricattano, mi
perseguitano, mi danno giorni e giorni di sospensione per poi tenerli
nel cassetto e tirarli fuori ogni volta che provo ad alzare la testa».
Arturo alterna lavoro in fabbrica, assenze per malattia e molto d'altro
per tirare avanti. Ha abbandonato l'università in seguito a un grande
trauma, il terremoto al suo paese, San Giuliano di Puglia, e ha
cominciato a farsi.
Abbiamo iniziato il nostro viaggio alla Sevel di Atessa, Val di Sangro,
Abruzzo. Assegneremo nomi di fantasia a molti interlucutori, ragazzi e
ragazze che usano sostanze stupefacenti, delegati sindacali che chiedono
l'anonimato, operatori delle forze dell'ordine impegnati nell'antidroga.
La Sevel è la principale fabbrica italiana della Fiat per numero di
addetti dopo Mirafiori. Vi si costruiscono i furgoni Ducato per la
multinazionale torinese e per la francese Psa (Peugeot e Cytroen), un
prodotto che non sta risentendo della crisi internazionale
dell'automobile. Dalla nascita, nel 1980, la Sevel ha progressivamente
aumentato la sua capacità produttiva e oggi dà lavoro a 6.500 persone
sui tre turni, mattino, pomeriggio, notte, a cui si aggiungono quasi
duemila operai di ditte esterne che operano nel perimetro dello
stabilimento e migliaia di addetti dell'indotto. Solo in Val di Sangro
sono 10 mila le famiglie che vivono di Sevel, tra i 10 e i 15 milioni di
euro al mese che rappresentano la principale fonte di reddito della
valle. Inutile dire che al peso economico dell'azienda si aggiunge
quello politico. Una situazione per molti aspetti analoga a quella
determinatasi in Basilicata con l'arrivo della Fiat-Sata. L'azienda
procede con assunzioni massicce - ci racconta la nostra guida, il
delegato Fiom Antonio Di Tonno - grandi infornate di ragazzi e ragazze
diciottenni selezionati alla bell'e meglio. Il bacino primario ormai non
è più sufficiente a soddisfare la domanda Fiat e sono sempre più
numerose le assunzioni effettuate in tutto il Chietino, il Pescarese, il
Molise, la Puglia, la Campania. Età media bassissima, alto turnover
perché qui «si fatica sodo»: «I giovani vivono in modo estraniante il
rapporto con la fabbrica e il sindacato, per non parlare della politica.
Pensano al pallone, alla pizza, alla discoteca. E alla *cocaina*. C'è
chi fa di tutto per non farsi confermare al termine del periodo di
prova, così da poter dire ai genitori: "io ho provato, non è colpa mia
se non mi hanno preso". Vuoi per questo atteggiamento, vuoi per una
diffusione della droga fuori controllo, adesso la Sevel sta assumendo
persone un po' più grandi, tra i 25 e i 28 anni». Tanto i delegati
quanto un ufficiale dell'antidroga che in fabbrica è di casa, con blitz
notturni alla ricerca quasi sempre fruttuosa di sostanze, valutano che
un dipendente su due sia coinvolto con maggiore o minore frequenza e
dipendenza nel giro della *cocaina*. Fino a poco tempo fa, dosi massicce
di droga venivano trovate negli armadietti degli operai. Ci raccontano
di sequestri di molte dosi di coca, di eroina e mattoni fino a un chilo
di peso di hashish. In tanti sono stati beccati, ora tutti si sono fatti
più accorti.
*Il silenzio è d'oro*
Non sempre i rapporti delle forze dell'ordine con la sicurezza aziendale
sono idilliaci, così ai blitz interni allo stabilimento si aggiungono
quelli fuori, a colpo sicuro. Perché tossici e spacciatori sono
ricattabili, ed è da loro che arrivano le soffiate a Ps e Cc. E
all'azienda, che talvolta utilizza le spiate per poi compromettere gli
spioni facendo a sua volta spiate ai i loro compagni di lavoro. Ci sono
stati arresti, ma tutto resta sotto traccia, e la stampa, anche quella
locale, tace. La Procura si muove con i piedi di piombo, a volte neanche
sostiene il lavoro dei Pm che autorizzano l'utilizzo delle cimici nel
tentativo di arginare il fenomeno. «In fabbrica - dice Antonio - è
saltato l'ordine. E l'azienda, dopo aver lavorato con costanza a
neutralizzare il sindacato, ora lamenta la mancanza di un'interlocuzione
con noi, nel senso che non siamo più un interlocutore forte di una
conoscenza approfondita della fabbrica, degli operai, dei problemi».
Questi giovani operai e operaie sono completamente diversi dalla classe
operaia che conosciamo e raccontiamo. I «vecchi» con vent'anni e più di
servizio in Sevel, sono furiosi con le nuove generazioni in tuta blu:
«Se le cercano, non vogliono fare un cazzo, ti contattano solo per farsi
spostare in postazioni migliori. Sono individualisti e non ci
rispettano, la droga li ha svuotati dentro. Invece del lavoro - dicono -
hanno in testa la *cocaina*». Su una cosa vecchi e giovani sembrerebbero
uniti: votano in maggioranza a destra, per Fini e Berlusconi, o non
votano, anche molti di quelli che avevano investito sul governo Prodi e
sono rimasti delusi. Anche qualche iscritto ai sindacati, persino un po'
di delegati possono votare a destra: «Con la tessera difendono il
salario dal padrone, con il voto a destra lo difendono dallo stato che
ci massacra con le tasse». «La fabbrica è diventato un supermercato, si
vende di tutto: puoi acquistare un motore Alfa, un paracarro, uno
stereo, ogni tipo di droga proveniente soprattutto da Napoli attraverso
i camionisti che portano in fabbrica componenti e materiale necessario
alla produzione dei furgoni. La roba finisce in mano agli spacciatori
interni e, di mano in mano, raggiunge tutti i reparti, poi esce dalla
fabbrica e arriva nei paesi dove tutti consumano droghe leggere e tanti,
forse addirittura l'80%, si fanno di coca, dai 14 ai 40 anni», racconta
un addetto alla repressione esterna e ci confermano i ragazzi con cui
parliamo, nonché il segretario della Fiom abruzzese, Marco Di Rocco:
«Una piaga sociale».
Ma il processo di trasformazione culturale riguarda innanzitutto la
fabbrica: ci si fa sulla linea di montaggio, si sniffa nelle pause
vicino all'armadietto e al cesso ci si buca. Qualche volta, ci dice un
ufficiale, «sono stati beccati dei ragazzi esaltati che facevano l'amore
dentro i furgoni che costruiscono». I furti negli armadietti non si
contano, «riescono a svuotarne così tanti perché operano in squadre
organizzate», ci dice un altro delegato. Ma spariscono anche i sifoni
dei bagni, gli specchi. «Tutto per quattro soldi, per un quartino». Il
quartino è una dose da un quarto di grammo di coca, con una ventina di
euro te la porti a casa o alla catena. Il suo prezzo, da Napoli ad
Atessa, può anche triplicare.
*Ricatti e minacce*
Perché lo fanno? «Perché sono uguali ai loro coetanei che studiano o
vivacchiano in paese. Qualcuno - ci dice chi si occupa di droga nel
territorio di Lanciano - all'inizio tira coca per reggere un lavoro
molto pesante, ma non è questa la motivazione prevalente. Lo fanno
soprattutto la notte perché la sorveglianza è minore. E se chi spaccia è
ricattabile, i sorveglianti interni non hanno strumenti per intervenire
e vengono minacciati». Giulietta e Romeo sono due operai in trattamento
da qualche anno al Ser.T. Eroinomani, ora vivono con la loro dose
quotidiana di metadone e giurano di esserne fuori. Giulietta ha
ereditato un'epatite C dal tempo in cui si bucava, è stata trasferita
dalla linea a un posto più umano solo dopo quattro svenimenti. Ora
lavora in verniciatura, che non è l'ideale per chi ha il fegato
compromesso. Il nostro delegato Fiom si impegna di fronte a noi ad
aiutarla a farsi trasferire in un posto compatibile con il suo stato di
salute. Questo fanno i delegati, spesso chiamati a «dare una mano» con i
capi, per ottenere turni o postazioni migliori: «Mi arrivano in casa -
dice Antonio - i genitori di ragazzi finiti nella spirale. Chiedono
aiuto». Molti sono giovani con contratti atipici. Si subisce il turno di
notte perché sei precario e ricattabile, o lo si sceglie per guadagnare
300 euro in più, o perché «ci si può drogare senza troppe rotture di
coglioni». I «pipistrelli» spesso vivono la notte come un «regalo», e
lavorano a testa bassa per difenderlo.
Il Ser.T di Lanciano ha 220 utenti, la metà sono operai Sevel. «Non ci
si fa per reggere la fatica. Molti arrivano in fabbrica già legati alla
coca o all'eroina. All'inizio può darti un po' di carica, se la
controlli ti aiuta ma se ne fai un uso eccessivo non riesci più a
lavorare. Il fisico regge meglio l'eroina - sostiene Romeo - che dà
assuefazione solo psicologica. Con l'ero e poi passando al metadone
riesci a fare la tua vita. Con la coca è peggio, 30 euro al giorno per
la dose è tutto quello che cerchi. Si sente dire che al montaggio c'è
stato qualche caso di ragazze che si prostituivano per tirar su i
soldi». Questo è un tabù, anche chi è disposto a raccontarti tutto finge
di non sapere, di non aver capito la domanda. Si sa «ma non si dice,
sono solo voci che corrono». Corrono in fretta. Ripeti la domanda e
allora la risposta è obbligata: «Una volta succedeva, adesso meno e solo
a fine mese quando lo stipendio è finito». Rimozione o pudore? Forse
entrambe le cose. Giulietta dice di dover ringraziare un capo che l'ha
aiutata quando era ridotta molto male e pesava 38 chili: «Ero arrivata a
consumare anche 80 euro al giorno per l'eroina, e a quel punto non ti
resta che spacciare», se di prostituirti non vuoi sentir parlare. Che
cos'è il lavoro per questi ragazzi? Per Romeo «è la cosa principale, mi
dà un senso, un'identità» e invece per Giulietta «non è possibile
identificarsi con questo lavoro. Se potessi me ne andrei domani. Ma non
in un'altra fabbrica, tutto sommato la Sevel è il miglior posto di
lavoro in zona. Vorrei fare altro nella vita». E il sindacato? «Ho un
buon rapporto, è importante il sindacato. Però - ammette Romeo -
raramente partecipo agli scioperi». E Giulietta: «Io non ho rapporti, i
miei delegati sono pappa e ciccia col padrone. Solo la Fiom si salva.
Però agli scioperi aderisco, almeno a quelli di otto ore così mi
risparmio la fatica di andare in fabbrica». Perché vi fate? «Prova tu a
vivere in questi paesi, poi lo capisci e ti fai anche tu». Non ha dubbi
Giulietta. Ora riesce a vivere decentemente insieme al suo compagno.
«Ormai siamo fuori. Ma non dal metadone, quello te lo porti dietro tutta
la vita». Romeo non ha rinunciato all'idea di liberarsi anche del
metadone, «una volta ci ho provato, forse proverò ancora». Sono due
utenti modello, da cinque anni non si bucano e riescono a farsi le
vacanze fuori: prima però passano al Ser.T, si portano le dosi
quotidiane e poi via, alla ricerca di una vita normale. Con chiunque
parli ti senti ripetere che con la *cocaina* non c'è problema, «puoi
smettere quando vuoi». Fatto sta che non smettono. In pochi ammettono di
essere tossicodipendenti. Lo raccontano a noi o a se stessi?
*La crisi della comunità*
L'impressione che si trae da questo primo giro è che la «diversità»
operaia sia finita, i giovani in tuta sono uguali a quelli senza perché
la fabbrica non è più una comunità, un luogo identitario, di
aggregazione. Si condivide una stessa condizione di lavoro ma è più
facile mettersi insieme per sniffare che per lottare contro il padrone.
La fabbrica è sempre più un luogo di transito per i giovani. E un luogo
di consumo, di spaccio.
*Un po' di coca e il turno se ne vola
via. *
*Inchiesta Sata di Melfi, dal «prato verde» alla tossicodipendenza.**
*Nello stabilimento gioiello della Fiat si «tira» per reggere i ritmi
del Tmc2. Ma la cocaina detta anche tutti i tempi della vita e permette
un commercio che per molti consumatori si trasforma in un bel business.
All'inizio era il «prato verde», messi di grano a perdita d'occhio nella
straordinaria piana di San Nicola. Il grano ha lasciato il posto allo
stabilimento Fiat-Sata di Melfi e la collina che si arrampica verso il
paese è ferita da una strada costruita tutta in sopraelevata. Quando
venne inaugurata la fabbrica, nel '94, speranze di emancipazione e
retorica postdemocristiana si mescolarono in una narrazione inedita in
questa terra lucana: arriva il capitalismo serio, si può uscire da una
povertà contadina dominata per decenni dal paternalismo di Emilio
Colombo. Arriva l'industria, arriva il progresso. Il vecchio applaudiva
al passaggio dei nuovi padrini: «Romito, salutateci Agnello», aveva
scritto su un cartello ripreso da cento telecamere e alla Fiat veniva
concesso tutto, dalla deroga al divieto del lavoro notturno per le donne
a una rivisitata forma di gabbie salariali che condannavano i futuri
operai a guadagnare meno dei loro compagni di Mirafiori e a lavorare di più.
«Prato verde» chiamarono lo stabilimento di San Nicola. Perché nasceva
dal nulla (il grano, si sa, è nulla) e nell'assenza di memoria
dell'industria e del conflitto. Ci sono voluti 10 anni esatti perché gli
operai di Melfi esplodessero decretando la fine della pace sociale, per
21 giorni bloccarono i cancelli, ressero alle cariche della polizia e
ruppero un isolamento che inutilmente, in tanti nella politica, nei
media e persino nei sindacati avevano cercato di costruire intorno ai
nuovi briganti in tuta blu. Vinsero, con il sostegno quasi solitario
della Fiom, diventarono maggiorenni conquistando diritti che altri, in
altre stagioni, avevano conquistato e che ora, tutti insieme, rischiano
di perdere di nuovo.
Quasi 15 anni dopo la nascita, Melfi è uno degli stabilimenti di punta
della Fiat. 5.300 dipendenti diretti, 10 mila con l'indotto. Gli operai
arrivano a San Nicola ogni mattina, pomeriggio e notte da tutti i paesi
della Basilicata, dal nord della Puglia e in parte dalla Campania. Ore e
ore di pullman o di macchina, centinaia di incidenti stradali con tanti
morti e feriti accumulati in 15 anni di pendolariato. Anche qui, come
alla Sevel in Val di Sangro, lavora una classe operaia molto giovane che
spesso non riesce a reggere i ritmi ossessivi della fabbrica modello,
come testimonia un turnover molto alto. Anche qui, come alla Sevel,
impazza la cocaina. Mentre ci lasciamo alle spalle la piana e il paese
viaggiando verso Potenza, un delegato Fiom senza nome ci racconta la
«normalita» del consumo e dello spaccio lungo le linee di montaggio -
pardon, le Ute, un acronimo che sta per Unità produttive elementari che
viaggiano sui ritmi della famigerata metrica Tmc2, responsabile di
strappi, ernie, tunnel carpali, tendiniti. «La cocaina circola in
fabbrica dall'inizio, ma solo da pochi anni ha assunto dimensioni di
massa. Un carrellista che lavora nella mia Ute vende una quantità di
dosi incredibili agli altri operai, ai capi, ai vigilanti che tirano da
matti, alle donne. Lo spaccio è quotidiano come il consumo, ma il
venerdì e prima delle vacanze il volume degli affari va alle stelle
perché vengono acquistate le dosi per il sabato sera in discoteca, o per
le ferie. Il mio amico carrellista prima di Natale ha tirato su 15 mila
euro, in poco tempo si è fatto casa». Ci si droga anche dentro la
fabbrica? «Gli operai - risponde - si fanno durante le pause, li
riconosci perché riprendono il lavoro eccitati, tirano su col naso, è
una specie di tic, e per una mezz'ora producono come pazzi, poi si danno
una calmata. All'inizio sono solo consumatori saltuari, ma quando
prendono il vizio si trasformano in piccoli spacciatori per pagarsi la
dose. Le canne se le fanno direttamente sulla Ute: sentissi che profumo...».
*Droga di sostegno*
I prezzi della cocaina si aggirano tra i 70 e i 100 euro a grammo, i
soliti 20-25 euro a quartino. Arriva soprattutto da Foggia portata dai
soliti camionisti che riforniscono la fabbrica di pezzi, componenti e
sogni di gloria, o di fuga che dir si voglia. «C'è anche qualcuno che si
buca - continua il racconto del nostro amico delegato - e spesso viene
aiutato dall'azienda a recarsi qualche periodo in comunità per tentare
di disintossicarsi». Perché si drogano? «Anni di lavoro in questa
fabbrica ti spompano. Il ritmo è stressante, i viaggi quotidiani per
raggiungere o lasciare il lavoro fanno il resto e la vita nei paesi è
banale, noiosa. C'è chi si fa per reggere lo stress, ma spesso le
motivazioni sono altre: per stare bene con gli amici, per stare bene con
la moglie o il marito. Molti si portano la coca a casa e fanno sniffare
anche la moglie per scopare meglio». Vuol dire che con gli amici si sta
male senza farsi? E che non si riesce a divertirsi in discoteca o a
letto senza l'uso di cocaina? Il delegato scuote le spalle, e va avanti
nel suo racconto. Insiste sul legame con il sesso: «Quando tirano, anche
in fabbrica, non li ferma più nessuno. Qui si dice «inculare la formica»
quando sei preso dal raptus e ti senti Rambo, e succede che il tuo
compagno di lavoro, un po' per gioco e un po' no, venga a toccarti il
culo, non avendo una donna a portata di mano». Tra i consumatori ci sono
anche iscritti al sindacato? «Ce ne sono, ce ne sono. Anche delegati.
Uno dell'Ugl è stato anche bastonato perché era in ritardo con il
pagamento allo spacciatore. I delegati Fiom? Qualche spinello, quello
tutti. Sì, qualcuno usa anche la cocaina. La maggior parte dei
consumatori - cambia discorso - è sposato e ha figli». Qual è la
percentuale dei cocainomani? «C'è chi dice il 40%, chi corregge la cifra
al rialzo: uno su due».
Stress, noia, sesso, voglia di essere diverso anche se poi finisce che
sei esattamente uguale a tutti gli altri tuoi coetanei. «Di notte c'è
meno controllo ma si sniffa in tutti i turni. In questa fabbrica si può
comprare fumo, coca, eroina ma anche perizoma, canottiere,
elettrodomestici. Tutti sanno nessuno parla. Per paura, per convenienza,
per quieto vivere». In realtà c'è chi parla: i blitz dell'antidroga
fuori dai cancelli, sui piazzali dello stabilimento, finiscono spesso
con arresti, dunque le spiate non mancano. Chi viene pizzicato con le
mani nella farina viene spinto dall'azienda a dimettersi, oppure viene
degradato e spostato in altre unità, «è successo recentemente a un
quarto livello del montaggio». Dalla lotta vittoriosa dei 21 giorni,
Michele è assessore di Rifondazione alle politiche sociali della
provincia di Potenza, in distacco dalla Fiat di Melfi dove fa l'operaio:
«Ho assistito personalmente - ci racconta - all'arresto di due operai
sul pullman che ci riportava al paese dopo il turno di notte: sono
saliti in tre, uno in borghese dalla porta davanti e due in divisa da
quella posteriore per bloccare le uscite e sono andati a colpo sicuro
mettendo le manette a due operai, direttamente sul pullman. Per fortuna
quella volta non avevano roba con sé e sono stati rilasciati». In
qualche caso, però, scatta il licenziamento ma sempre con motivazioni
diverse: «Due ragazzi - ci racconta l'avvocato Lina Grosso che segue le
cause di lavoro per la Fiom - sono stati licenziati per assenza
ingiustificata, ma è noto che si trattava di due tossicodipendenti. Noi
avviamo la procedura ma in questi casi la Fiat punta sempre a
monetizzare, offrendo soldi a chi di soldi ha bisogno come il pane, pur
di non arrivare a sentenza. Per noi è difficile convincere questi
ragazzi a non accettare l'offerta, anche perché non abbiamo alcuna
certezza di vincere la causa». E questo è uno dei tanti problemi a
Melfi, dove le procedure d'urgenza (il 700 contro i licenziamenti)
durano mesi e mesi e le sentenze, quando ci si arriva, rarissimamente
sono a favore del sindacato. «C'è invece il caso di un altro operaio,
dipendente da alcol, che l'azienda metteva regolarmente in postazioni
per lui insostenibili. Una volta chiese di poter uscire per andare in
ospedale perché stava male. Lo bloccarono più volte finché non riuscì a
scappare determinando momenti di forte tensione. Fuggì in automobile
dopo una colluttazione con due capi in stato confusionale ed ebbe un
incidente d'auto. L'azienda l'ha licenziato e noi abbiamo fatto causa.
Abbiamo perso in primo grado e siamo andati in appello, anche perché una
perizia medica ha stabilito che non era in grado di intendere e di
volere per cui non è stato condannato in sede penale. Dopo una seconda
perizia che ha confermato la prima, la Fiat ha proposto la transazione,
cioè la monetizzazione per non arrivare a sentenza. Il nostro assistito
non ha accettato e ora aspettiamo il verdetto del giudice». Finalmente,
all'inizio della settimana è avvenuta una cosa che ha ridato qualche
speranza all'ufficio legale della Fiom: il giudice di Melfi ha accolto
il ricorso contro il licenziamento di un operaio Sata, Michele
Passannante, «senza giusta causa», dopo l'apertura di un'inchiesta
giudiziaria in cui è indagato per una presunta appartenenza all'area del
terrorismo. Ora la Fiat dovrà riaprirgli le porte della fabbrica e
pagargli gli stipendi arretrati.
*Un'emergenza che dilaga*
La Regione Basilicata si occupa della Fiat di Melfi dal giorno della sua
apertura, e lo fa manifestando talvolta un certo grado di autonomia
rispetto allo strapotere esercitato nel territorio dalla multinazionale
torinese. Ha attivato inchieste («magari la Procura fosse altrettanto
attiva», ci dicono gli avvocati che difendono gli operai) sul mutamento
della vita nei paesi in cui vivono i dipendenti Sata e dell'indotto,
sugli infortuni stradali stradali legati al pendolarismo, sul mobbing.
La Regione si è occupata anche di tossicodipendenza in fabbrica. In
particolare c'è un'inchiesta curata dall'equipe della Cooperativa
Marcella sulla percezione delle droghe da parte dei lavoratori dell'area
industriale di Melfi: «Tutti sono concordi nell'affermare che l'uso
delle sostanze è gravemente nocivo per la salute», pur ritenendo che
alcune, come le droghe leggere, possano aumentare la capacità lavorativa
e insieme a quelle sintetiche migliorino la resistenza alla fatica, a
differenza di alcol e psicofarmaci. In molti pensano che l'uso di droghe
pesanti e sintetiche facciano correre rischi all'interessato e ai
compagni di lavoro. Sono al corrente del consumo crescente di droghe in
fabbrica, o per conoscenza diretta, o per lo spaccio evidente, le
siringhe abbandonate, i furti, l'eccesso di assenze per malattia,
qualche episodio di violenza. Solo il 21% degli intervistati esclude che
nella sua azienda si consumino sostanze stupefacenti. Un dato allarmante
su cui riflettere è segnalato da un intervistato su due: chi si fa si
infortuna di più. Il 50% sostiene che chi si droga è «una persona normale».
L'altro dato che non deve sorprendere è che il consumatore «non si
ritiene tossicodipendente» (44,9%). Per il 77,3% del campione, infine,
«le imprese dovrebbero avere un programma di lotta contro la droga».
Qualche mese fa, nel terzo stabilimento meridionale della Fiat per
importanza, quello di Cassino, fu realizzato un video con un operaio
intervistato di spalle che raccontava il consumo di droga durante il
turno di notte. Diceva molte verità, e proponeva qualche certezza di
troppo e troppo politicamente corrette: ci si fa di cocaina solo per
resistere a un lavoro altrimenti insopportabile. E' così, ma non è solo
così. Ne parleremo nelle prossime puntate. Finora abbiamo indagato solo
grandi fabbriche metalmeccaniche, anzi Fiat, perché è più facile
stabilirvi relazioni e perché il tasso di vent'enni è altissimo. Non si
creda però che si tratti di un fenomeno circoscritto a queste realtà. In
tutti i settori dell'industria e dei servizi il consumo della cocaina è
drammaticamente alto e crescente. Lo è nei lavori faticosi, come
nell'edilizia, nei lavori ripetitivi, in quelli che prevedono il
rapporto con il pubblico. Lo è soprattutto tra i giovani e i precari.
C'è chi pensa che ci sia un rapporto tra la diffusione delle droghe e la
riduzione dei conflitti sul lavoro. Ipotesi, naturalmente, tutte da
verificare.
*(Il Manifesto del 16 maggio 2008)**
* **
*Tra fatica e coca, operai alla
catena. **
*
Il grande rimosso. Le aziende oscillano tra silenzio e repressione,
sindacato in difficoltà. A rischio la sicurezza sul lavoro: si svaluta
il salario, si svaluta la vita.
Ancora metalmeccanici, ancora droghe. «Hai deciso di metterci in
mezzo?», mi chiede con tono scherzoso ma anche preoccupato un delegato
della Fiom. La verità è che va reso onore al coraggio di questa
categoria, e al suo sindacato più rappresentativo: non è facile mettere
in piazza problemi come questi che costringono ad aprire una discussione
a tutto campo, sul rapporto con le nuove generazioni di lavoratori e di
esse con il lavoro, il conflitto, il sindacato, sul ruolo stesso dei
delegati sindacali, le Rsu. Non tutti sono disposti ad aprire questo
libro doloroso perché parla di sofferenze dei giovani, nel lavoro come
nella vita, una vita alla giornata, senza investimenti sul futuro. Parla
di solitudini operaie, cioè di quella classe che liberando sé stessa
avrebbe dovuto liberare l'umanità. Raramente, invece, «la classe» è
apparsa incatenata come oggi, alla linea di montaggio innanzitutto. E
poi a una nuova povertà, con salari che continuano a perdere valore
dentro un lavoro non più riconosciuto socialmente. Prigioniera, infine,
di una cultura dominante televisiva, in cui all'emancipazione
individuale e collettiva si sostituisce l'emulazione dei comportamenti e
consumi di chi «ce l'ha fatta», magari del padrone. E il conflitto, che
«naturalmente» dovrebbe essere agito nei confronti di chi ti sfrutta, si
scarica invece contro i soggetti socialmente più deboli.
*La cessione del quinto*
Occuparsi di droghe sul lavoro aiuta a scoprire meglio la materialità
della condizione operaia. Di chi si è già mangiato il 70% del Tfr per
l'acquisto della casa, di chi ha ceduto un quinto dello stipendio per
attivare un mutuo, magari per comprare l'automobile nuova o la tv al
plasma, commenta un vecchio operaio bergamasco. E via di quinto in
quinto finché dello stipendio non resta nulla, un pezzo alla volta è
finito in tasca ai moderni strozzini, finanziarie e banche che si fanno
pagare il 13% di interessi sui prestiti. Sempre che tu abbia un
contratto a tempo determinato, se sei un precario non puoi concederti
neanche il lusso di farti succhiare lo stipendio. Eccola, la nuova
classe operaia in carne e ossa.
Concludendo i lavori della conferenza nazionale d'organizzazione della
Fiom a Cervia, il segretario generale Gianni Rinaldini ha raccontato un
paese inquietante segnato dagli effetti di una globalizzazione selvaggia
che spinge gli operai a competere tra di loro. La crisi del lavoro,
amplificata dalla sua frantumazione, fa saltare un modello logorato di
rappresentanza sindacale e sociale. In questo contesto opera la spinta
delle imprese allo smantellamento della contrattazione collettiva, per
sostituirla con rapporti /ad personam /con i singoli lavoratori.
All'interno dell'individualizzazione del rapporto con il lavoro e con il
padrone, si inserisce la massiccia e crescente diffusione delle sostanze
stupefacenti in fabbrica, nei cantieri edili e navali, nei servizi. «Che
altro deve accadere? Se il problema è di queste dimensioni - ha detto
Rinaldini in riferimento all'inchiesta del manifesto - dobbiamo aprire
una discussione tra noi e con i delegati». Anche questa è una scelta
coraggiosa, sapendo che la rottura del silenzio scatena reazioni
pericolose da parte delle aziende, che o non sanno quel che succede
nelle loro fabbriche, o più verosimilmente fingono di ignorarlo. Quando
la verità s'impone, il passaggio dalla rimozione alla repressione viene
spontaneo ai dirigenti d'azienda, un fatto di dna. Ed ecco allora che
dai delegati si pretenderebbe la delazione, quando non si passa
direttamente alla violazione della legislazione che tutela la privacy
dei lavoratori: alcune piccole aziende hanno tentato di imporre ai
dipendenti o agli aspiranti tali le analisi delle urine per verificare
l'eventuale consumo di sostanze. Si può capire il comunicato dei
delegati Fiom della Sevel Val di Sangro che, pur aggrappandosi a una
lettura un po' riduttiva della diffusione di cocaina nel loro
stabilimento, ne ammettono l'esistenza e anzi denunciano le loro
ripetute quanto inascoltate richieste alla direzione aziendale di
affrontare il problema «con serietà e trasparenza, senza
criminalizzazione di chi vive questa condizione».
Un aspetto preoccupante, segnalato da un'inchiesta commissionata dalla
Regione Basilicata di cui ha riferito il manifesto di venerdì scorso, è
legato al rischio che il consumo di droghe possa provocare un
abbassamento dei livelli di sicurezza e, di conseguenza, un aumento
degli infortuni sul lavoro. Me ne parla un operaio di un'acciaieria (ci
si consenta la genericità del riferimento, ampiamente giustificata dalla
delicatezza della questione e dal rischio che corre chi prova a metterci
le mani): qualche settimana fa si è verificato un grave infortunio, per
fortuna non mortale, a una macchina. Nelle tasche dell'operaio ferito
sono state trovate alcune bustine di cocaina. In un'altra fabbrica di
peso, un delegato ha chiesto un incontro con il responsabile del
personale per denunciare la diffusione della cocaina, mosso dalla
preoccupazione che ad essa sia connesso un possibile aumento degli
infortuni. «L'azienda ha finto di cadere dalle nuvole. I casi sono due:
o non controllano la fabbrica, e sarebbe gravissimo, oppure fanno i
finti tonti per evitare ricadute sull'immagine».
Il consumo di droghe (cocaina in particolare) cresce con l'abbassamento
dell'età media dei lavoratori e con lo spezzettamento del ciclo
produttivo, accompagnato dalla terziarizzazione di pezzi di produzione e
servizi e dal lavoro in affitto, che fanno convivere nello stesso posto
di lavoro imprese e forme contrattuali assai diverse. Per i delegati è
sempre più difficile controllare o addirittura conoscere l'insieme, il
che rende più fragile lo stesso intervento sindacale. Se i giovani in
molte realtà assumono coca, il fenomeno dell'alcolismo è legato
tradizionalmente ai lavoratori ultraquarantenni. Dal Veneto all'Emilia
quest'ultimo fenomeno è particolarmente diffuso, come confermano alcuni
delegati della Bassa reggiana. In Emilia mi raccontano di operai
allontanati per ubriachezza: è il caso della ex Landini a Fabbrico, nel
Reggiano, dove il consumo di cocaina è limitato ad alcuni casi
concentrati nel turno di notte: «Canne a go-go, ma roba pesante poca».
Il fenomeno è comunque abbastanza contenuto e sotto controllo, grazie
anche a una rete efficiente di servizi nel territorio, figli del modello
sociale emiliano. Qui, come in altri stabilimenti della regione, sono
moltissimi i giovani assunti dal Mezzogiorno d'Italia e sbattuti in
un'area geografica dove la vita è carissima e una casa in affitto costa
poco meno dell'intero stipendio. Campare con mille euro al mese o poco
più non è facile, non consente di costruirsi un futuro e la vita si
brucia sulla linea di montaggio giorno per giorno. Alla ex Landini
lavorano anche 70-80 indiani. Non bastano i menù differenziati per
costruire una buona convivenza, tra italiani e immigrati
extracomunitari, tra emiliani e meridionali, tra giovani e anziani.
Persino nel consumo delle sostanze i comportamenti sono differenziati.
In una grande acciaieria come l'Ilva di Taranto - tra diretti e
indiretti oltre 17 mila lavoratori, le dimensioni di una cittadina di
provincia - si può trovare di tutto, mi raccontano, «è una specie di
supermercato in cui puoi comprare anche cocaina. Sta diventando un
problema in uno stabilimento in cui è pericoloso anche camminare,
figuriamoci lavorare all'altoforno. Devi essere lucido, attento, sennò
rischi di farti male e fare del male ai tuoi compagni. Pensa
all'attenzione a cui è chiamato chi lavora sul carroponte e sposta una
siviera contenente 300 tonnellate di metallo liquido». Chi racconta
queste cose è preoccupato per gli effetti delle droghe consumate sul
lavoro, e lo è anche per il rischio che aprire questo capitolo possa
fornire «un alibi ai padroni, pronti a ripetere la solita canzoncina:
gli infortuni? Colpa della distrazione degli operai. E' un imbroglio,
perché le responsabilità dei morti e dei feriti sul lavoro sono degli
imprenditori, dei ritmi insopportabili, della non applicazione della
normativa sulla sicurezza, dell'organizzazione del lavoro». Detto
questo, aggiunge un secondo operaio, «non dobbiamo nascondere le nostre
di responsabilità». Ma la riduzione del potere di controllo delle Rsu,
sottoposte all'attacco e all'emarginazione da parte degli imprenditori,
la fatica che fanno i Rappresentanti sindacali per la sicurezza ad
assolvere al loro ruolo, troppo spesso osteggiato dalla controparte,
sono ostacoli alla costruzione di un modo di lavorare meno pericoloso.
E' la solita storia, «per i padroni contano solo la produzione e il
profitto».
*Li riconosci dal cambio d'umore*
Dai fumi e dal fuoco dell'altoforno passiamo alla griffe più prestigiosa
del made in Italy, la Ferrari di Maranello. L'uso di sostanze, che una
volta era connesso al mondo dorato della Formula 1, qui in fabbrica «si
intuisce, anche senza vedere il tuo compagno che si fa un acido o chissà
quali pastiglie, la cocaina c'è ma è meno diffusa, almeno al montaggio.
Se sali di grado la musica cambia. L'hashish è diffuso tra i giovani, ma
si fuma soprattutto nelle pause. Chi assume sostanze si riconosce per
quel particolare stato di euforia che lo prende: ti accorgi che dopo una
pausa il tuo compagno di lavoro ha cambiato stato d'animo». 2.800
dipendenti, la maggioranza impegnati nello stabilimento di Maranello e
una piccola parte alla Scaglietti di Modena dove si saldano le scocche.
Alla Ferrari si costruiscono anche i motori e si verniciano le scocche
per la Maserati. «Il settore Corse, qualche centinaia di dipendenti, fa
storia a sé. Ma nella produzione di serie il lavoro e la sua intensità,
Maranello non è poi così diverso da Mirafiori. Così come il salario base
che si aggira intorno ai 1.100 euro, a cui vanno aggiunti il premio di
risultato (un buon contratto integrativo) e l'eventuale lavoro notturno
o straordinario. In alcune aree come il montaggio dove si lavora su tre
turni, l'80% dei dipendenti viene da sud. Questi ragazzi vengono su
carichi di entusiasmo, prima di accorgersi che la fatica è tanta, i
soldi pochi e la vita come gli affitti è carissima. Rapidamente arriva
la disillusione, la frustrazione. Negli ultimi anni l'uso di sostanze è
aumentato in diverse aree della produzione, soprattutto tra le ditte
terze e durante il turno di notte. Il mercato per le rosse va alla
grande, cresce la produzione e nell'arco di un paio d'anni la Ferrari
prevede di estendere i tre turni su tutto lo stabilimento. Intanto
aumenta la richiesta di lavoro straordinario. Mentre uno della mia
generazione si è battuto e si batte per le otto ore, vedi dei ragazzi
che fanno la fila per ottenere qualche ora di straordinario, al punto
che i capi si permettono di discriminare, a te sì e a te no, dipende
dalla dedizione; e così fanno vivere le ore di lavoro in più come una
concessione benevola e non come un carico aggiuntivo di sfruttamento»,
dice sconsolato un operaio anziano che aggiunge: «Vedo ragazzi
intimiditi a cui viene annullata la personalità, per loro il lavoro
significa soltanto reddito. Allora capisci anche perché fanno gli
straordinari o chiedono di lavorare di notte, per guadagnare e spendere
di più. E si diffonde la droga con tutto quel che comporta, spaccio
compreso».
La politica delle assunzioni massicce dal Mezzogiorno ha la conseguenza
inevitabile di ridurre progressivamente il tasso di sindacalizzazione. E
può anche succedere che la Fiom, l'organizzazione ampiamente
maggioritaria in Ferrari, venga sconfitta a un referendum sulla
turistica: «Vince chi punta tutto sui soldi, alla faccia della
condizione lavorativa». (3/continua)
(Il Manifesto del 23 maggio 2008)
*«Senza la speranza vince la
cocaina» *
Il dominio della competitività. Emilio Rebecchi analizza i comportamenti
in fabbrica e le cause che fanno crescere il consumo. Migliorare le
prestazioni è funzionale alla produttività La società è classista, se
non hai soldi di famiglia per pagarti la dose spacci, rubi o ti
prostituisci.
Ultima puntata
Bologna
«Il carcerato almeno una speranza ce l'ha: quella di uscire dalla
galera, per fine pena o tentando la fuga. Spesso si ha l'impressione che
al giovane, al giovane operaio, sia negata anche la speranza di fuga. Se
a un ragazzo togli la speranza di costruirsi un futuro gli hai tolto un
diritto fondamentale». Il ragionamento di Emilio Rebecchi segue una
logica stringente quanto disperante. Psichiatra, psicoanalista,
attentissimo ai comportamenti giovanili e alle dinamiche sociali nei
posti di lavoro, Rebecchi ha lavorato a molte ricerche e inchieste ed è
a lui che chiediamo un aiuto per tentare di decodificare le ragioni che
stanno dietro la spaventosa diffusione di sostanze stupefacenti nelle
fabbriche, negli uffici, nei cantieri. Il consumo di droghe tra i
lavoratori non rappresenta certo una novità, ma oggi sono cambiate le
motivazioni, le modalità del consumo, le stesse sostanze assunte e
soprattutto, è cambiata la dimensione del fenomeno. Lo incontriamo nel
suo studio sulla collina bolognese.
«Io ho sempre apprezzato moltissimo Pantani. Mi ha colpito il
ragionamento che faceva ancora prima di diventare un grande campione:
'io sono il più forte, diceva, ma se gli altri prendono le sostanze
resto indietro. Bisognerebbe che tutti smettessero, e siccome questo non
avviene sono costretto a prenderle anch'io'. Il ragionamento non fa una
piega, ma così si alza il livello dello scontro. Conosco un gruppo di
bolognesi che pratica il ciclismo per passione, diciamo che fanno
cicloturismo. Lo sai che si bombano anche loro? Mica lo fanno per
vincere, non c'è niente da vincere; lo fanno per competere, per reggere
il livello degli altri. Per non lasciare adito a dubbi di sorta preciso
subito che di questo gruppo non fa parte Romano Prodi». La competizione,
il miglioramento delle prestazioni, sono i nodi centrali della chiave
interpretativa che ci offre Rebecchi. Ma procediamo con ordine. «Io non
criminalizzo la chimica: la chimica esiste, è utile in mille
circostanze. Ma se la utilizzi per aumentare le tue prestazioni,
sessuali, lavorative, persino per divertirti, allora vuol dire che c'è
un problema. Intendiamoci, tanti artisti, poeti, scrittori hanno assunto
droghe per curiosità, per conoscenza. Lo stesso Siegmund Freud. Ma
stiamo parlando del Medio Evo. Oggi i ragazzi si drogano come noi si
beveva il caffè o si succhiava il latte dalla mamma. Per loro farsi una
striscia di coca o un'anfetamina è un fatto normale, persino ovvio.
Senza alcuna solida motivazione il giovane diventa 'spontaneamente'
consumatore. Incidono molto i modelli culturali (la competizione spinta
all'esasperazione) e interviene un fatto imitativo. Così come da bambini
si vuole andare al Burghy o al Mcdonald's perché lo fanno tutti a
prescindere dalla schifezza che ti danno da mangiare, così qualche anno
più tardi, con lo stesso atteggiamento, può capitare di farsi di
cocaina. Questo segnala la presenza di un vuoto che spesso si tenta di
riempire con la droga. E siccome la società è classista, se non hai
soldi di famiglia, per pagarti la dose rubi, o spacci, o ti prostituisci».
Arriviamo al mondo del lavoro. Se con le categorie interpretative
classiche si comprendono alcuni comportamenti 'devianti' nel
sottoproletariato, è più difficile farsene una ragione quando il
soggetto interessato è l'operaio di fabbrica. «Saltano le differenze
etiche. Ammettiamo pure che in fabbrica a spingerti al consumo possa
essere una condizione difficile, segnata dalla fatica. La fatica alla
linea di montaggio, dove la durata della mansione che si ripete sempre
uguale a se stessa è al di sotto del minuto, provoca effetti negativi
sulla salute dell'operaio, dolori, lombalgie. Una situazione di questo
tipo farebbe pensare che la sostanza adatta ad alleviare la condizione
di sofferenza sia l'eroina che è un anestetico e dunque attenua il peso
e le conseguenze di un lavoro faticoso. Invece sempre più spesso la
droga assunta, anche in fabbrica, è la cocaina. La cocaina è un
eccitante, serve ad aumentare la produzione». Le parole di Rebecchi sono
confermate dal racconto di tanti operai che abbiamo intervistato: il
picco produttivo spesso e volentieri si verifica durante il lavoro
notturno, il terzo turno che è quello dove il consumo di cocaina è più
alto, anche per una rarefazione dei controlli. Se ne deduce, chiedo a
Rebecchi, che la cocaina è funzionale alla produzione e dunque è una
'droga di sistema'? «Negli anni Settanta l'uso di sostanze poteva avere
una qualche connotazione antisistema, oggi è tutta interna, verrebbe da
dire funzionale al sistema. Non vale solo per gli operai, vale per i
manager, per gli sportivi». In fabbrica c'è chi sostiene che si riesce a
convivere meglio con l'eroina che non con la cocaina... «E' verissimo,
con l'aggravante che la cocaina ha un'azione sulle arteriole, può
provocare microinfarti. Alla lunga ti brucia il cervello. Un effetto
analogo può essere provocato dalle anfetamine di cui è quasi sempre
sconosciuta la composizione».
Come si può intervenire rispetto a questo fenomeno, come si possono
aiutare i giovani operai finiti nell'imbuto del consumo, in molti casi
nello spaccio per potersi pagare la dose quotidiana? «La cosa che rende
più difficile l'intervento è proprio la mancanza di motivazione sociale
nella decisione di assumere sostanze, che non sia l'aumento della
prestazione individuale e di conseguenza della produzione. Sei
disarmato, anche gli strumenti tradizionali come la psicoanalisi sono
spuntati. Ti può capitare di chiedere a un giovane paziente di fare
delle libere associazioni, dopodiché a un certo punto ti domandi: ma che
vuoi che associ questo poveraccio, se non ha un cazzo di idea nel
cervello? Dico che ti senti disarmato perché se il giovane consumatore,
che sia operaio o studente, non ha una motivazione, quando gli dici di
smettere ti risponde semplicemente 'e perché? Mi piace'. Guarda che
domani starai male, avrai delle conseguenze gravi sulla salute, gli
contesti, ma ti accorgi che non glie ne frega niente. Il che vuol dire,
lo ripeto, che nelle giovani generazioni c'è una caduta, una rinuncia a
costruirsi un futuro, una prospettiva di vita». E la vita stessa perde
di valore... «Senza ideali, non solo politici o religiosi ma
semplicemente civili, si resta solo dentro una realtà durissima che non
si sopporta più. Così si finisce per tornare all'infanzia, si regredisce
allo stadio all'oralità. Vuoi dimostrare di essere più potente di chi ti
sta vicino».
La scelta può essere individuale, ma un fenomeno di queste proporzioni
assume inevitabilmente un carattere sociale. Dice Rebecchi: «La
regressione è legata alla natura della società in cui viviamo, e
l'aumento della prestazione individuale, in qualsiasi campo, risponde al
comandamento della competitività». Alcuni operai, a conferma di quanto
ci dice Rebecchi, ci hanno spiegato che ci si fa, e si convince anche il
partner o la partner a tirare coca, prima del rapporto sessuale per
migliorare le prestazioni. «E' la logica maschile classica di chi vuole
dimostrare che ce l'ha più lungo, la sessualità si riduce all'aspetto
penetrativo. Pensi che in un rapporto sia questo e solo questo a
interessare la donna. E ti esalti perché una striscia di cocaina ti fa
sentire più potente ma non sai, o non ti interessa sapere che col tempo
quella roba ti renderà impotente».
Rientriamo in fabbrica. Alcuni operai sostengono che la cocaina aiuti la
socializzazione con gli altri operai, oltre a migliorare la prestazione
individuale. «Certo - risponde Rebecchi - ma è la socialità della
colpevolezza, certo non è la socialità della condivisione. E' la
denuncia estrema di una condizione di solitudine. E se in passato
drogavi generazioni intere per mandarle a combattere e morire in guerra,
oggi con la caduta dei valori le distruggi drogandole per farle produrre
di più alla catena di montaggio». Rebecchi conclude il suo ragionamento
tornando al concetto della mancata motivazione nell'assunzione di
sostanze 'dopanti', da cui discende la mancata motivazione a smettere:
«Il generale cinese Zhu De era dedito al consumo di oppio. Quando iniziò
la Lunga marcia, prima di assumerne il comando fece una scelta, aveva
una motivazione forte per smettere. L'unico luogo in cui era vietato il
consumo dell'oppio era il fiume Yangtze, così salì su una barca che
scendeva il fiume chiedendo al proprietario di non fargli mettere i
piedi a terra per alcuni mesi, per nessuna ragione. Così, con una
motivazione forte, vinse le sue due guerre». *(Il Manifesto del 27
maggio 2008)*
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-(Rapt)-
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