[Redditolavoro] Ortomercato di Milano - Io, schiavo al mercato di Milano per due euro e mezzo di paga

SLAI Cobas Cremona slaicobascremona at gmail.com
Mon Nov 17 12:17:15 CET 2008


http://www.repubblica.it/2008/11/sezioni/cronaca/schiavo-mercato/schiavo-mercato/schiavo-mercato.html
***Una notte di lavoro con le centinaia di immigrati disposti a tutto per
pochi spiccioli
Per farsi sfruttare c'è anche chi si accoltella davanti ai "caporali"* *Io,
schiavo al mercato di Milano per due euro e mezzo di paga* *di PAOLO BERIZZI
*

  [image: Io, schiavo al mercato di Milano per due euro e mezzo di paga]
*MILANO -* Prima cosa: scavalcare. "Lì in mezzo, tra la porta numero 3 e la
4, vai tranquillo", mi suggerisce Driss, un ragazzo marocchino, sorriso
sghembo e infreddolito. Se vuoi lavorare come schiavo delle cassette,
all'Ortomercato di Milano, devi arrampicarti su questa barriera di ferro -
saranno tre metri e mezzo d'altezza - che gira sui quattro lati e che ora
traballa per i movimenti accelerati e scomposti di chi sale sopra e salta
dall'altra parte. Le quattro di notte. Sono dentro. "Vai al piazzale 60, o
al 61, o al 62, o al 63, che c'è lavoro". Calpesti uno dei 450 mila metri
quadrati del mercato e ti sbatte addosso la sensazione di essere in un posto
dove non sei nient'altro che braccia, ma dove un misero lavoro nero - questo
sì - puoi cercarlo in libertà. Senza nessuno che ti punta, che ti intralcia.


Confuso nella suburra dei bancali, file interminabili di pile di scatole di
legno e di plastica; odori forti di ortaggi, il freddo che li stampa nelle
narici; i fumi dei Tir, 300 ogni notte; i camioncini degli ambulanti che
aspettano il carico (il nome del proprietario è scritto sulla ribalta con la
vernice spray); i caporali che smistano il traffico umano.

La spianata di cemento di via Lombroso è il regno del racket delle braccia e
delle cassette. Si lavora come servi. Sembra di stare nell'800 sudamericano,
o nelle campagne meridionali degli anni Cinquanta. Invece è Milano, la
capitale economica d'Italia. Mille chilometri dal cottimismo dei pomodorini
di Foggia, di Castel Volturno, di Pomigliano d'Arco. L'Ortomercato - 1
milione di tonnellate di merce venduta ogni anno (il 30% va all'estero) - è
gestito da una società del Comune (Sogemi). Qui dentro si carica e si
scarica frutta e verdura per sei o anche dieci ore di fila: dall'una di
notte alle undici del mattino. Si guadagnano 15-20 euro. Sfruttamento
schifoso, tanto al chilo. Ti pago il caffè, dicono gli ambulanti e i
grossisti che si presentano in furgone o in Suv ai ragazzi egiziani,
marocchini, tunisini, rumeni, albanesi, indiani, filippini, a questo
esercito di disperati - qualche centinaio, italiani quasi zero - che ogni
notte arriva per tirare su un po' di spiccioli. Molti si rivolgono agli
intermediari, i "cacciatori di braccia".

Altri fanno da sé. Si mettono lì, fanno la posta davanti agli ambulanti. Si
spostano in gruppi. Seguono la corrente dei muletti che schizzano da un
posteggio (gli stand dei venditori) all'altro, portano in giro sempreverdi e
primizie di stagione dappertutto nella ragnatela infinita dei capannoni (145
imprese,160 produttori locali). Certe notti gli schiavi delle cassette si
accoltellano per mettere le mani su un bancale prima che arrivi un altro.
Una guerra dei poveri che deflagra negli anfratti bui che circondano i
capannoni.
Cinque minuti dopo le quattro sono di fronte al padiglione C (sud).
Giubbotto, berretto di lana, guanti da lavoro. E due braccia da sfruttare.
Tra gli stand delle cooperative che brulicano di venditori e compratori e
via Varsavia (dove ci sono le porte 3 e 4) si estendono i piazzali di carico
più "battuti": dal 59 al 63. E' un ufficio di collocamento all'aperto.

Praticamente ci sono solo immigrati extracomunitari. Quelli già al lavoro.
Quelli che arrivano alla spicciolata dopo avere scavalcato la cinta
vulnerabile come una fetta di burro. Quelli che "comandano", e a cui si
appoggiano i verdurai per reclutare manodopera. Ci sono manovali e
magazzinieri "fantasma". Sono invisibili come lo sono - incredibilmente - i
colleghi che scavalcano da fuori. E nessuno che li fermi mai. Spuntano dalla
cabina di carico dei furgoni. Entrano nel mercato dalla porta principale, la
4, come clandestini, nascosti dove poi verrà sistemata la merce. Via
Lombroso è una groviera. Altro che i tornelli promessi da Sogemi nel 2007,
annunciati alle cooperative in regola - che sono la maggior parte - e mai
installati.

"Aspetta qui" mi dice un marocchino sulla quarantina. Paziento tra i bagni
fetidi del piazzale 62, un'autoambulanza e una fila di furgoncini. Guardo
attorno. Il confine tra l'essere qualcuno o qualcosa e il non essere niente
è una fila di mini uffici. Sono i box dei grossisti, disposti lungo il
perimetro dei capannoni e anche all'interno. Sono il punto d'approdo di
molti "schiavi". I caporali e gli ambulanti li ingaggiano sui piazzali e poi
li obbligano a fare la spola tra i camion e gli stand. C'è una confusione
pazzesca.

Magari il problema dell'Ortomercato fossero "solo" le tonnellate di eternit
(tettoie, tubature, rivestimenti) che il Comune in 43 anni non ha ancora
rimosso; magari fossero solo gli autoarticolati che arrivano da tutta Europa
e, anziché fermarsi nelle aree di sosta, si infilano nelle stradine che come
arterie tagliano il ventre molle del mercato. Di più. Il problema non è
nemmeno e soltanto la criminalità organizzata - camorra, mafia, soprattutto
ndrangheta - che da vent'anni si infiltra nel più grosso mercato alla
distribuzione d'Italia (qui aveva messo radici la cosca calabrese
Morabito-Bruzzaniti-Palamara, che faceva partire quintali di cocaina e che
aveva aperto un night club nella palazzina della Sogemi).

La vera piaga è il lavoro nero. Diffuso, trasversale, tollerato,
indisturbato. Un sistema che sembra far comodo a tutti. Dei 3mila lavoratori
dell'Ortofrutticolo si calcola che almeno la metà siano irregolari. Ci sono
cooperative che sembrano specializzate nell'offrire lavoro aumm-aumm; alcune
chiudono e poi riaprono sulle proprie ceneri. I titolari si "ripuliscono",
escono dalla porta e rientrano dalla finestra. E a poco valgono gli sforzi
di guardia di finanza, ispettorato del lavoro e sindacati.

Davanti all'ufficio di un grossista che si chiama come il frutto da cui si
ricava l'olio, sta per scoppiare una rissa tra egiziani e marocchini. Volano
insulti e spintoni. Si ribalta una pila di casse di kiwi. Il solito
problema: la guerra dei bancali. Valgono 50 centesimi quando sono carichi di
roba. Una goccia nel mare del giro d'affari del mercato (3 milioni di euro
al giorno). Il lavoro chiama. Il mio uomo, adesso, è un ambulante italiano,
dieci anni di Ortomercato, accento partenopeo intatto.

"Questo deve fare due viaggi", mi dice indicando il vecchio furgone con la
fiancata scrostata. Due viaggi "pieni". Vuol dire che bisogna caricare la
merce. Mi rimbocco le maniche. Siamo in tre, due fissi, uno, l'ultimo
arrivato, temporaneo (per stanotte mi chiamo Alberto e vengo dall'Albania).
Affondo in mezzo a muri di arance, cime di rapa, lattuga, melanzane, banane,
mele, cavoli. Nadil viene da Tunisi. Si è fatto quattro mesi a San Vittore
per spaccio. Adesso è qui a caricare: "Vengo ogni notte ed è l'unico posto
dove si trova lavoro senza problemi. Un paio di volte mi ha fermato la
polizia, ti cacciano fuori, ma la sera dopo ritorni".

Il capo gira, controlla. Si allontana per trattare coi grossisti la merce da
acquistare e portare ai mercati rionali. Poi torna e chiede di fare in
fretta. "Ragazzi, qui si lavora... ". C'è chi aspetta il suo turno, qualche
"briciola" da raccogliere, qualche cassetta da impilare. E' infrequente
sentire parlare italiano. Tra chi scarica, il rapporto italiani-stranieri è
di uno a trenta. Se non fosse per l'auto della polizia municipale e quella
della vigilanza privata Securitalia che ogni quarto d'ora tagliano questa
folla di lavoratori in nero - molti clandestini - senza battere ciglio,
sembrerebbe di stare in un suk africano. Nel caos, alle cinque e mezza, un
muletto investe un ragazzo marocchino (irregolare): frattura alle gambe,
ricovero al Paolo Pini. Parte il primo viaggio del "mio" furgone. Continuo a
caricare.

Sono sotto un altro "posteggiante". Un tipo tarchiato con gli occhiali che
fa lavorare, a giro, una decina di immigrati, qualcuno giovanissimo. Uno mi
offre una manciata di semi di finocchio. E' l'alba. Al bar del capannone D
ci sono un busto di Mussolini e un poster del Duce. Dominano il bancone
dall'alto. "Fino a qualche anno fa - ragiona il vecchio operatore
ortofrutticolo davanti al caffè - in questi piazzali c'erano le cooperative
regolari, adesso è uno schifo, un mercato di schiavi che nessuno vuole o
riesce a fermare". I padiglioni e i piazzali mano a mano si svuotano. Gli
ultimi tir escono che sono le 6. Ma c'è ancora il tempo per tre ore di
lavoro. Sono sempre lì a trasportare cassette. Le ordino sul furgone. Con i
miei colleghi africani ci capiamo a gesti. La cosa su cui sembriamo più
d'accordo è che, tutti noi, non vediamo l'ora che i furgoni escano da qui
per piazzare la merce nei mercati rionali. E che i "capoccia" sborsino il
misero salario per troppe ore di lavoro.

Alla fine della notte, quando la luce del giorno rende ogni operazione meno
facile, meno fluida, l'ambulante mi chiama da parte. Dietro un camion. Mi
paga. Quindici euro per sei ore di carico. Due euro e cinquanta all'ora.
Scavalco di nuovo la barriera di ferro, il confine fra il suk e la città.
Sempre lì, tra la 3 e la 4, nello stesso punto da cui ero entrato. "Ciao
Alberto, se vuoi ci vediamo domani".

(*17 novembre 2008*)
 *LE FOTO DELLA NOTTE AL
MERCATO<http://milano.repubblica.it/multimedia/home/3700281>
*  http://milano.repubblica.it/multimedia/home/3700281



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