[Redditolavoro] I PESCECANI DELLA FIAT (NELLE GUERRE DI IERI E...)

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Thu Nov 6 19:47:44 CET 2008




La 
  situazione economica italiana vive un momento di depressione legato ad un quadro 
  mondiale negativo nel 1904 -1905. Questa situazione si aggrava per l’Italia 
  nel 1907 con il terribile terremoto che scuote Reggio Calabria e Messina e che 
  dissesta ulteriormente il già provato bilancio dello stato italiano (distruzione 
  in una notte di non meno di 4 miliardi di ricchezza privata fonte Cabaita in 
  G. Porosini, Il capitalismo italiano nella prima guerra mondiale).

  

  In un panorama così provato il regno d’Italia si imbarca in guerra 
  coloniale per conquistare la quarta sponda. Nell’1911-12 l’Italia 
  combatte contro l’impero ottomano per Tripoli e la Libia. La guerra sarà 
  un piccolo laboratorio di quello che accadrà, poi, in misura molto più 
  ampia con la prima guerra mondiale, con l’affacciarsi nell’affaire 
  guerra di industrie che grazie allo sforzo bellico vedranno crescere i propri 
  profitti, la propria potenza politico-economica; il deficit dello stato si aggraverà 
  di circa due miliardi di lire.

  

  Lo scoppio della guerra nel giugno 1914 assesta in un primo momento un colpo 
  gravissimo all’economia; si verificano subito problemi con le importazioni 
  e poi arrivano le misure restrittive al commercio imposte dal governo, successivamente 
  attenuate, per cui c’è una limitazione anche alle esportazioni. 
  Ma successivamente la situazione migliora e l’Italia inizia a trarre qualche 
  minimo beneficio dalla sua posizione di neutralità.

  

  Ma il movimento intenso, dietro le quinte, degli stati già coinvolti 
  nel conflitto (soprattutto Francia e Germania) che cercano di tirare l’Italia 
  nell’uno o nell’altro campo raggiunge il suo scopo quando nel 1915 
  l’Italia dopo le radiose giornate di maggio dichiara guerra all’Austria 
  per quella che viene presentata come la quarta guerra di indipendenza.

  

  L’Italia allo scoppio della guerra è fondamentalmente un paese 
  agricolo, con una industria ancora poco competitiva e con alcuni suoi settori 
  chiave dominati da capitali stranieri (notevole, ad esempio, la presenza di 
  capitale tedesco nel settore delle energia e della nascente chimica).

  Il governò italiano si trova a confrontarsi con realtà che hanno 
  una diversa forza economica e industriale.

  Nel 1913 la produzione di acciaio era di 900 mila tonnellate contro i 17 milioni 
  e 600 mila della Germania, i 7 milioni e 800 della Gran Bretagna e i 4 milioni 
  e 600 della Francia cifra analoga a quella prodotta dalla Russia.

  Nella produzione di ghisa il divario era ancora maggiore con l’Italia 
  che produceva circa 427 mila tonnellate un quinto di quanto prodotto dall’Austria 
  –Ungheria, un decimo di quello che produceva la Russia zarista.

  

  Arriva, comunque, il maggio del 1915 e l’Italia è in guerra.

  

  Lo stato si trova a doversi organizzare in maniera nuova per adeguare il proprio 
  esercito alle esigenze dello sforzo bellico. In quest’ottica i controlli 
  della pubblica amministrazione nei confronti delle aziende fornitrici vengono 
  ad essere molto più labili che in situazioni di pace; in alcuni momenti 
  cruciali del conflitto questo “controllo” viene quasi a sparire 
  del tutto.

  Lo stato nell’organizzarsi per razionalizzare lo sforzo produttivo nel 
  periodo bellico arriverà a creare nel 1915 il ministero delle armi e 
  munizioni; ministero che oltre al gabinetto del sottosegretario, ha due uffici 
  per le ispezioni e per le richieste, tre ripartizioni (servizi generali, mobilitazione 
  industriale, servizio tecnico armi e munizioni) e tre direzioni (artiglieria, 
  del genio e aeronautica).

  

  La ripartizione che incideva maggiormente nella programmazione dell’attività 
  bellica dello stato e, in cui, più stretti erano i rapporti con i privati 
  era quella per la mobilitazione industriale. Ad essa compete “di determinare 
  gli stabilimenti da considerare “ausiliari”, di agevolare il coordinamento 
  delle attività di questi con l’attività degli opifici militari, 
  di intervenire nelle controversie economiche e salariali fra dirigenti e personale, 
  autorizzare “le dimissioni, i licenziamenti ed i passaggi di personale 
  fra l’uno e l’altro stabilimento, sorvegliare il lavoro delle maestranze 
  minorili e femminili, nonché occuparsi delle scuole, del tirocinio dei 
  nuovi operai, delle garanzie igienico sanitarie sul lavoro”. (pg 127 G. 
  Porosini, Il capitalismo italiano nella prima guerra mondiale) 

  In questi comitati un ruolo importante verrà assunto dagli industriali 
  che con questi contatti riusciranno a stringere accordi e posizioni migliori 
  per le proprie industrie. 

  

  La grande mobilitazione richiesta per la guerra non fu solo in termini umani 
  con la richiesta di migliaia di combattenti per diventare la “carne da 
  macello” che verrà sacrificata nelle trincee, ma fu anche mobilitazione 
  dell’economia. Lo stato, non solo in Italia, ma in tutta Europa vedrà 
  crescere il proprio ruolo in maniera esponenziale, assumendo dovunque una deriva 
  autoritaria con la limitazione o sospensione delle pratiche e delle prassi della 
  democrazia borghese-parlamentare. 

  Per dare un senso della crescita delle competenze e degli impegni dello stato 
  in Italia il numero dei dipendenti della pubblica amministrazione passò 
  da 339 a 519mila unità. 

  

  Intervento “totalizzante” ,quindi, dello stato che gestiva ora più 
  direttamente la vita dei cittadini: chiede agli italiani di sottoscrivere diversi 
  prestiti obbligazionari per sostenere la guerra, rastrella i risparmi del pubblico. 
  “Nel settore dell’agricoltura, il governo interviene con calmieri, 
  requisizioni, incoraggiamenti, obblighi di lavoro e di produzione , tesseramenti, 
  minacce di confische. Per accrescere la produzione promette ai contadini somme 
  in denaro proporzionate all’entità dei raccolti, si impegna a pagare 
  contributi a coloro che dissodano terre, bandisce concorsi a premi a favore 
  di quei proprietari che effettuano semine primaverili. Per tutta la durata della 
  guerra promuove ed organizza ed impone coltivazione di terre e trasformazioni 
  colturali e nei periodi di più intenso lavoro nelle campagne disciplina 
  gli esoneri e la concessione di manodopera militare.” (Porosini, Il capitalismo 
  italiano nella prima guerra mondiale) 

  

  Ma il campo dove la prima guerra mondiale produsse una situazione molto particolare 
  fu l’industria.

  Abbiamo detto che l’Italia era un paese arretrato non solo nei confronti 
  dei principali paesi ostili (Austria-Ungheria e impero tedesco) ma era lontana 
  anche dai paesi alleati (Usa, Francia e Gran Bretagna). Lo stato perciò 
  decise di intervenire in maniera consistente in questo settore non solo come 
  era accaduto per l’agricoltura con prezzi calmierati o con limitazioni 
  alle importazioni ed esportazioni ma volle intervenire direttamente nella produzione 
  e nella programmazione di svariate attività (materiale bellico, cantieristica, 
  trasporti e più in generale nella siderurgia e nella metallurgia) creando 
  in alcuni casi direttamente impianti. 

  Quando l’approvvigionamento delle materie prime per le industrie si rivela 
  scarso e difficile, assoggettata a controllo il relativo commercio, “rende 
  obbligatoria la denuncia della disponibilità, fissa i prezzi d’imperio, 
  acquista direttamente dall’estero (o requisisce all’Interno) i materiali 
  necessari, privilegia il consumo bellico con divieti di vendita non autorizzata 
  dalle amministrazioni militari. Per il carbone importa direttamente da paesi 
  stranieri, adotta provvedimenti tendenti a stimolare la produzione di quello 
  nazionale e promuove economie di consumo.” (Porosini, Il capitalismo italiano 
  nella prima guerra mondiale)

  

  A tal scopo si individuano industrie che vennero definite “ausiliare”, 
  su cui lo stato esercita un controllo maggiore, anche nei confronti degli operai 
  ma che beneficiavano in maniera privilegiata nell’approvvigionamento di 
  materie prime, fattore non trascurabile man mano che il conflitto renderà 
  più difficile reperire tali risorse, e avevano più facilità 
  nell’aggiudicarsi le commesse dello stato.

  Gli stabilimenti industriali coinvolti e dichiarati “ausiliari” 
  erano 125 nel 1915 con 115 mila operai; 1976 nel 1918 con oltre 900 mila operai 
  (inclusi una sessantina di stabilimenti militari).

  La prima guerra mondiale rappresenta, quindi, l’occasione per l’industria 
  italiana di fare il balzo e in molti casi di emanciparsi dalle ingerenze stranieri 
  presenti nella penisola. La “grande guerra” vedrà (e la nostra 
  attenzione si focalizzerà sui maggiori gruppi industriali) un aumento 
  di capitale per le maggiori industrie costante dal 1914 fino a dopo la fine 
  del conflitto, una crescita della produzione, del numero della forza lavoro, 
  delle dimensioni stesse delle aziende che vedranno il moltiplicarsi degli stabilimenti.

  

  Le profonde trasformazioni non riguardano solo l’attività degli 
  imprenditori. La guerra muta profondamente anche il proletariato italiano.

  L’Italia già dal 1914, ma la situazione peggiora notevolmente con 
  l’entrata in guerra e sarà una costante degli anni di guerra, assiste 
  ad una forte svalutazione della moneta e quindi ad una forte perdita del potere 
  di acquisto del salario. Questa diminuita capacità di acquisto viene 
  aggravata dalla penuria di mezzi che nel corso di quegli anni sarà sempre 
  maggiore.

  La classe operaia sarà profondamente trasformata.

  

  Se è vero che gran parte della “carne da cannone” che percorrerà 
  le trincee sarà formata da contadini, anche il proletariato industrializzato 
  darà un contributo fondamentale all’esercito.

  Le esenzioni dall’andare al fronte, prevista dallo stato per alcune figure 
  professionali dell’industria, spingerà molti commercianti e piccoli 
  borghesi a cercare un lavoro in una industria al fine “di imboscarsi”. 
  E alcuni giornali socialisti dell’epoca non mancheranno di sottolineare 
  la peculiarità della nuova classe operaia e stigmatizzare la volontà 
  del piccolo borghese a “diventare operaio”.

  

  Lo stato promulga una “speciale legislazione di guerra” che va a 
  modificare le norme regolatrici dei turni di lavoro domenicali e del riposo, 
  permettendo agli industriali di reclutare decine di migliaia di donne “senza 
  le usuali garanzie; di concentrarle in stabilimenti spesso inadatti e improvvisati, 
  di occuparle molte ore al giorno e della notte in dispregio alle norme consuete; 
  di moltiplicare ed di generalizzare ore di lavoro supplementari; di adottare 
  misure di estrema gravità per evitare le assenze collettive e individuali 
  dalle fabbriche, i rifiuti di obbedienza, le minacce; di comminare pene severe 
  anche a donne e bambini” (Porosini, Il capitalismo italiano nella prima 
  guerra mondiale)

  

  SI vennero a creare quattro “figure giuridiche” di operaio: gli 
  “operai militarmente comandati” a disposizione del comando territoriale; 
  gli operai militari, in virtù di mansioni speciali che svolgono; gli 
  operai “borghesi” senza obblighi militari; le donne e i ragazzi 
  (Vittorio Castronovo, Giovanni Agnelli). 

  

  E sono proprio questi due soggetti che contribuiscono a modificare ulteriormente 
  la classe operaia; con un lavoro minorile quantitativamente in forte aumento 
  (il limite dei 15 anni non viene mai rispettato) mentre la presenza femminile 
  arriverà a toccare alla fine della guerra le 180 mila unità.

  La presenza delle donne è massiccia soprattutto nelle industria pesante, 
  dove vengono dirottate le operaie già impiegate negli stabilimenti tessili.

  “La manodopera negli stabilimenti militari venne militarizzata, quella 
  degli stabilimenti ausiliari venne assoggettata a un pesante regime disciplinare 
  (sospensione di tutte le conquiste sindacali a cominciare dal diritto di sciopero) 
  orari e cottimo in funzione dell’emergenza, multe e licenziamenti per 
  donne e ragazzi, disciplina militare per gli uomini (prigione, processi e invio 
  al fronte). Da questo punto di vista soltanto gli operai austriaci vennero trattati 
  come gli italiani, negli altri paesi la disciplina di fabbrica venne mantenuta 
  senza militarizzazione.” (Mario Isnenghi – Giorgio Rochat, La grande 
  guerra 1914-1918, La nuova Italia 2000)

  

  La legislazione adottata dal governo durante la guerra porta alla soppressione 
  di norme che tutelavano la sicurezza degli operai; “Alcuni comitati regionali 
  segnalavano ben presto l’aumento degli infortuni, imputandolo non solo 
  al deterioramento dei macchinari e alla inesperienza, ma anche all’esaurimento 
  degli operai”.( Porosini, Il capitalismo italiano nella prima guerra mondiale) 
  

  

  Le rivendicazioni operaie si faranno sentire nel 1917 quando con il crollo di 
  Caporetto e con quello che sembra imminente dello stato, le privazioni, le sofferenze 
  patite per tanti anni faranno esplodere il malcontento (in quei giorni alcune 
  città rimangono prive di viveri per carenze di approvvigionamenti). 

  Gli scioperi del 1917-18 che si verificarono in Italia furono meno consistenti 
  di quelli avuti in Germania o in Gran Bretagna (qui l’attività 
  sindacale non venne mai bloccate dalla guerra).

  

  Già dai primi anni di guerra si scatenano voci su gli enormi profitti 
  che le grandi industrie vanno accumulando in quelle circostanze, in cui, sacrifici 
  e privazioni vengono imposte a tutti. Tale questione sarà sollevata sia 
  da parte socialista (l’ordine nuovo di Torino parlerà di pescecani 
  che si aggirano tra i banchi del parlamento) ma anche da parte dei giolittiani 
  (anche se queste critiche saranno interessate in quanto i seguaci dell’ex 
  presidente del consiglio attaccheranno in particolare la Fiat che era passata 
  da posizioni neutraliste ad un atteggiamento più dichiaratamente bellico 
  –il vicepresidente era nel consiglio di direzione dell’Idea nazionale, 
  noto quotidiano interventista) e da parte di esponenti liberali sottolineavano 
  come la discrepanza economico-sociale nel paese stava aumentando in misura rischiosa 
  per la stessa sopravvivenza dello stato.

  “Nelle industrie belliche a produttività crescente, la forte lavorazione 
  ha permesso la formazione di facili e poderosi profitti, derivanti non meno 
  che dall’aumento dei prezzi, dalla diminuzione dei costi a mano che la 
  produzione in serie aumentava. Di tali giganteschi guadagni si sono avvantaggiati, 
  più ancora che le società industriali, i singoli dirigenti , i 
  commercianti , gli intermediari, con le loro partecipazioni, talora modeste 
  ma diffuse su una larga massa di unità fabbricate o vendute.” (Porosini, 
  Il capitalismo italiano nella prima guerra mondiale) 

  

  Di questo si occuperanno anche saltuariamente le autorità dello stato 
  che apriranno inchieste su singole aziende; una indagine complessiva dell’intera 
  condotta dell’industria e più in generale del mondo imprenditoriale 
  nel corso del conflitto mondiale sarà effettuata dal parlamento nel 1923 
  (Relazione della commissione parlamentare d’inchiesta per le spese di 
  guerra 6 febbraio).

  

  “Abolito ogni calcolo di costi ci si gettò alla moltiplicazione 
  del prodotto, sotto lo stimolo degli alti prezzi garantiti dalle forniture belliche. 
  I profitti medie delle anonime, che erano del 4,26% alla vigilia del conflitto, 
  balzano nel 1917 al 7,75%; e ancor più significativi gli incrementi nei 
  settori più direttamente impegnati nella produzione bellica. Così 
  i profitti siderurgici salgono al 6,30 % al 16,55%; quelli dell’industria 
  automobilistica dall’8,20% al 30,51%; gli utili dei fabbricanti di pellami 
  e calzature dal 9,31 al 30,51%; quelli dei lanieri dal 5,18% al 18,74%; quelli 
  dei cotonieri, che ancora alla vigilia del conflitto si dibattevano in una gravissima 
  crisi, da -0,94 al 12,27%; quelli dei chimici dallo 8,02 al 15,39%; quelli dell’industria 
  della gomma dall’8,57% al 14,95%.” (Rosario Romeo, Breve Storia 
  della grande industria in Italia 1861-1961, Cappelli).

  

  “Il settore metalmeccanico si sviluppa in una sorta di forzato isolamento 
  autarchico, con effetti positivi in termini di maturazione di autonome conoscenze 
  tecnologiche da un lato e negativi dall’altro , per quanto concerne l’attenzione 
  al controllo dei costi , che non è certo al centro delle preoccupazioni 
  degli imprenditori in quel momento .Altro elemento caratterizzante l’evoluzione 
  dell’economia italiana è il processo di concentrazione oligopolista 
  che vede emergere alcune società oltre all’Ansaldo, particolarmente 
  l’Ilva e la fiat, che diversificando la loro produzione abbracciavano 
  nuovi campi di attività.” (Pg 100 Doria, Ansaldo l’impresa 
  e lo stato, Franco Angeli Editore)

  

  Vediamo quindi alcuni dei principali soggetti di quegli anni che hanno dominato 
  la scena economica e sono stati tra i maggiori soggetti coinvolti con le commesse 
  dello stato.

  

  Agli inizi del 1914 la Fiat era al 30° posto tra le aziende italiane e rappresentava 
  il 50% del contingente autovetture nazionale. Legata agli ambienti giolittiani 
  era su posizioni neutralista. La crisi del 1907 aveva portato un rafforzamento 
  delle banche (banca commerciale in testa).Nel 1914 perde le commesse della marina 
  tedesca, in seguito al mutato clima internazionale. La situazione è grave; 
  la posizione neutralista viene modificata dall’atteggiamento assunto dal 
  vicepresidente Ferraris che si avvicina agli ambienti nazionalisti del quotidiano 
  l’Idea Nazionale; posizione che irrita gli ambienti della banca commerciale. 
  Il Ferraris in seguito all’atteggiamento della Commerciale si allontanerà 
  dal quotidiano nazionalista. Nel 1914 non riesce la collocazione sul mercato 
  di un prestito obbligazionario per la Fiat San Giorgio (società deòg 
  ruppo) e il prestito viene assunto in toto direttamente dalla casa madre.

  

  La Fiat aveva già collaborato con lo Stato in occasione della guerra 
  libica; nel 1915 oltre che con il miglioramento dei mezzi di autotrasporto, 
  la Fiat raggiunge una grande specializzazione nella produzione delle mitragliatrici 
  e di esplosivi. Tra il 14 gennaio e il 31 agosto del 1915 una nuova ingente 
  massa di ordinazioni militari per circa 55 milioni si era riversata sulle controllate 
  del gruppo. 

  

  La legislazione speciale introdotta dopo la proclamazione della guerra farà 
  si che tutto il personale addetto agli stabilimenti sarà soggetto alla 
  giurisdizione militare, con gli operai sorvegliati dai militari e dai carabinieri. 
  

  “Entrando alla Fiat - scriveva l’Avanti del 22 marzo 1916- gli operai 
  devono dimenticare in modo più assoluto di essere uomini per rassegnarsi 
  ad essere considerati come utensili” (pg 81 Vittorio Castronovo, Giovanni 
  Agnelli, Einaudi 1977), garantendo con questo sfruttamento l’incremento 
  senza precedenti del rendimento della manodopera.

  

  Nel 1916 viene stipulato tra l’azienda e il sindacato un concordato a 
  cui, però, erano contrari i lavoratori a causa dei ritmi di lavoro ritenuti 
  da questi micidiali e alle manipolazioni coercitive. La situazione si aggrava 
  ancora di più quando in seguito alla strafexpidetion del maggio la perdita 
  di tanto materiale, e quindi la sua sostituzione chiese un ulteriore sforzo 
  di produzione.

  

  Nel 1917 avvengono le manifestazioni operaie a Torino in cui si chiede la pace 
  che ponga fine alle restrizioni e alle privazioni che il proletariato vive; 
  in seguito a questi episodi, su pressioni anche della casa Torinese, il governo 
  proclama Torino zona di guerra riducendo libertà e diritti dei sudditi 
  italiani.

  Nello stesso anno avviene l’incorporazione nella Fiat di diverse società 
  (società ferriere piemontesi, società industrie metallurgiche). 
  

  

  Nel 1916 ci furono voci di scalata all’azienda ad opera dei fratelli Perrone 
  del gruppo Ansaldo, anche se successivamente ci furono esperienze di collaborazione 
  tecnica tra le imprese. Il tentativo di scalata aveva portato la Fiat ad un 
  aumento del capitale sociale nella Fiat San Giorgio da 5 milioni e 500 mila 
  a 22 milioni e questo aveva di fatto impedito ai Perrone di entrare nella controllata 
  Fiat. 

  Questo era avvenuto alla luce di un accordo per cui l’Ansaldo si sarebbe 
  occupato di “cose di mare”, mentre la Fiat si sarebbe occupata di 
  autotrasporti e ferrovie. Ma l’acquisto di Fiat di altre aziende metallurgiche 
  aveva fatto saltare tutto.

  

  Nel 1916 Fiat esportava 4000 motori in Inghilterra e Francia. 

  A giugno del 1918 Agnelli chiede un aumento di capitale trovando l’obiezione 
  da parte di alcuni azionisti di minoranza. I Perrone approfittando degli attriti 
  avevano con l’appoggio della Bis rastrellato numerose azioni. Ad ottobre 
  del 1918 ci fu l’aumento di capitale.

  Nel 1918 la Fiat effettua insieme con il finanziere Gualino la scalata al credito 
  italiano (istituto che aveva già cooperato con la Fiat) per rispondere 
  al tentativo di scalata, fallito grazie a mosse interne, alla banca Commerciale 
  da parte dei Perrone e della Bis che avevano elaborato questa mossa per mettere 
  in crisi l’istituto di piazza della scala che era il maggiore finanziatore 
  dell’azienda di Torino.

  

  Il nuovo tentativo fu bloccato nel 1919 con l’appoggio dell’Ilva 
  di Max Bondi che contributi a recuperare azioni in mano alla Bis. Fiat e Ilva 
  firmarono un patto di sindacato con in pegno reciproco scambio di azioni; con 
  questo accordo inoltre veniva allontanata la Bis dal sindacato della Comit. 
  Tuttavia l’accordo con l’Ilva durò solo pochi mesi sufficienti 
  per far fallire il secondo tentativo dei Perrone.

  

  La Fiat subì già negli anni del conflitto l’attacco degli 
  antichi referenti politici giolittiani venendo accusata di accumulare eccessivi 
  profitti, in un momento difficile per il paese. L’avvocato Giovanni Torelli, 
  azionista di minoranza della Fiat, pubblica sulla stampa nel marzo del 1916 
  un articolo in cui affermava “I singoli direttori.. percepiscono centinaia 
  di migliaia di lire ciascuno. Ora nemmeno il comandante delle armate d’Italia, 
  nemmeno il presidente del consiglio dei ministri ha questi favolosi stipendi 
  … Questa guerra lascerà un mondo sanguinante per molte rovine. 
  Non è equo che persone privilegiate nella vita sociale diano esempio 
  di avidi, improvvisi, colossali lucri quand’assistiamo ad una fioritura 
  meravigliosa di rinunzie e di sacrifici da parte degli umili e dei meno abbienti.” 
  (p10 Vittorio Castronovo, Giovanni Agnelli, Einaudi 1977)

  

  I guadagni della fiat nel 1915 ammontavano a quasi il 90% rispetto al capitale 
  azionario.

  “Due aumenti di capitale … erano serviti a porre al riparo da ogni 
  eventuale provvedimento fiscale di indole corretti a, i cospicui profitti accumulati 
  dalla fiat nei primi sei mesi di guerra … Il decreto luogotenenziale del 
  7 febbraio 1916 …. Aveva inteso limitare, a partire dall’esercizio 
  del 1915 per le società anteriori al conflitto, il dividendo massimo 
  all’8% del capitale, salvo che nell’ultimo triennio esso avesse 
  superato tale limite, nel qual caso (cosi per la Fiat la cui media era stata 
  dell’11% il nuovo dividendo poteva pareggiare il livello triennale.” 
  (pg 90 p10 Vittorio Castronovo, Giovanni Agnelli, Einaudi)

  

  La legge prevedeva che gli utili accantonati e non distribuiti ai soci non fossero 
  gravati da imposta di ricchezza mobile e non veniva esclusa la possibilità 
  di aggregare questo risparmio con il preesistente capitale sociale. Di tutte 
  e due queste ipotesi si avvalse la Fiat.

  

  La Fiat fu sottoposta ad una campagna di accusa da parte de “la Stampa” 
  che condannava il patriottismo interessando della azienda degli Agnelli; la 
  campagna tornò utile, comunque, alla Fiat.

  Il prezzo delle proprie azioni subii un ribasso cosi come quello di diverse 
  aziende metallurgiche che la Fiat stava per assorbire e che entrarono nella 
  società degli agnelli con costi minori. 

  

  La Fiat aveva nel 1914 4000 addetti che diventarono nel 1918 40510; gli utili 
  dichiarati moltiplicarono velocemente; il capitale sociale passava da 25 milioni 
  e mezzo del 1914 ai 128 milioni del 1918.

  

  La Caproni rappresenta un caso particolare, ma non il solo di quegli anni. Un 
  piccolo laboratorio gestito dai fratelli Caproni diventò nel corso del 
  conflitto bellico una delle più importanti se non la più importante 
  industria nel nascente settore aeronautico. La Caproni riuscii come molte altre 
  industrie ad ottenere dallo stato garanzie, anticipazioni ed esclusione delle 
  imposte sui sovrapprofitti di guerra. 

  

  Ma ci furono anche pesantissime critiche sul lavoro della fabbrica aeronautica 
  che non si spensero neppure nel 1917 quando fu istituito il commissariato generale 
  dell’aeronautica ufficialmente per dare vigore e ordine allo sforzo di 
  costruzioni, in realtà per limitare le voci di favoritismi e sperperi 
  che si diffondevano. 

  

  Nel 1918 la Caproni avrebbe dovuto consegnare 1 aereo al giorno a partire dal 
  1 aprile; in ottobre aveva costruito una trentina. Dei 361 milioni di lavoro 
  commessi dallo stato rivendico la restituzione di 300 milioni.

  

  L’Ilva nasce a Bagnoli agli inizi del 900 dalle stesse imprese del gruppo 
  Terni per produrre ghisa beneficiando della legge del 1903 che prevedeva agevolazioni 
  per l’area di Napoli.

  Nel 1911 si era visto affidare l’esercizio degli impianti di Piombino, 
  Elba siderurgica, Ligure metallurgica e ferrerie Italiane. 

  

  Il referente creditizio del Consorzio era rappresentato da quella Banca commerciale 
  che sarà a più riprese oggetto di attacchi da parte del mondo 
  industriale e da settori degli ambienti politici nazionalisti accusata di essere 
  una banca tedesca.

  Nel periodo dal 1910 al 1915 L’Ilva produceva il 90 per cento della lavorazione 
  della ghisa in altoforno in Italia e i tre quinti della produzione nazionale 
  di acciaio.

  La guerra portò ad una ulteriore crescita dell’Ilva.

  “Nel solo ultimo anno di guerra il consorzio denunciava 300 milioni di 
  capitale versato, circa altrettanto di impianti e attrezzature, 200 milioni 
  di partecipazioni e gli addetti al gruppo risultavano in numero di circa 50 
  mila” (G. Porosini, Il capitalismo italiano nella prima guerra mondiale) 
  

  Nel ‘19 però l’amministrazione militare vantava nei confronti 
  dell’Ilva 100 milioni solo per i casi di indebito lucro; cifra che venne 
  ridotto prima a 44 milioni e poi a definitivi 12 milioni circa di lire.

  

  “ La Società degli Altiforni, Acciaierie e Fonderie di Terni venne 
  fondata il 10 marzo 1884 per costruire e gestire impianti capaci di produrre 
  acciaio secondo le tecniche più avanzate in uso nei principali paesi 
  industriali e col proposito specifico di fabbricare le piastre necessarie alla 
  corazzatura delle navi della Regia Marina.” (pg 3 F Monelli, Lo sviluppo 
  di un grande impresa in Italia la terni dal 1884 al 1962, Einaudi 1975 )

  La nascita della società è segnata da una commistione tra interesse 
  pubblico e privato. Lo stato per motivi di sicurezza nazionale non voleva dipendere 
  dall’estero in un settore così vitale e delicato per lo sviluppo 
  economico, ma anche per un eventuale impegno bellico; gli industriali, d’altra 
  parte, in un paese ancora fondamentalmente agricolo investivano in questi settori 
  della nascente industria in qualche modo garantiti dall’intervento diretto 
  o indiretto della protezione statale. 

  

  La Terni dal 1899 al 1904 è la storia dell’alleanza tra interessi 
  borsistici, bancari e industriali che trovano in alcuni momenti nell’impresa 
  il loro punto di convergenza. 

  Per molti anni la Terni fu l’unica referente dell’amministrazione 
  militare italiana, producendo corazze, cannoni e proietti perforanti. Tra il 
  1901 e il 1914 la quota della produzione nazionale di acciaio grezzo spettante 
  alla Terni si stabilizzò intorno al 5-6 % una percentuale esigua a prima 
  vista, ma rilevante se si pensa che con essa venne fabbricata una gran parte 
  dei prodotti siderurgici speciali che le imprese nazionali erano allora in grado 
  di fornire. 

  

  La Terni fu in realtà un gruppo sui-generis. Di fatto fu un’altra 
  creatura della Banca Commerciale e dei suoi interessi. Monelli parla del gruppo 
  Terni “soltanto, come di un mero fatto di potere destinato ad avere ad 
  un certo punto ad avere una rilevanza più nell’influenza esterna 
  esercitata dai suoi dirigenti sulle scelte di politica economica e finanziaria 
  dei governi, che non per i risultati conseguiti sul piano tecnico, industriale 
  e finanziario.” (pg 90 F Monelli, Lo sviluppo di un grande impresa In 
  italia la terni dal 1884 al 1962)

  

  La Terni funzionò a pieno regime dalla fine del 15 e il suo ruolo fu 
  essenziale nella fase iniziale del conflitto perché assicurò i 
  prodotti di base che venivano lavorati negli stabilimenti statali e da altre 
  imprese private quando ancora non erano pronti i nuovi impianti della Ansaldo.

  

  Un raffreddamento tra i rapporti tra stato e Terni si ebbero a ridosso dell’inchiesta 
  sulla marina scaturita dalla violenta polemica che oppose il ministro della 
  marina Bettolo e il deputato socialista Ferri; inchiesta che, però, non 
  porto a nessun risultato concreto se non all’abbandono del dicastero da 
  parte del Bettolo, e d'altronde la conclusione non poteva essere diversa visto 
  che non vennero interrogati né sentiti amministratori della società 
  né persone ad esse appartenenti.

  

  La macchina produttiva dell’acciaieria produttiva esplicitò le 
  massime sue possibilità proprio tra il 1916 e il 1917. Durante il ‘18 
  lo sforzo produttivo non rallentò ma l’aumento ulteriore della 
  produzione non poté mantenere il ritmo dei due anni precedenti; per ovvi 
  limiti tecnici essendosi la terni impegnata nell’attività di produzione 
  trascurando di creare una nuova capacità produttiva e per crescenti scompensi 
  organizzativi determinati dalle difficoltà di approvvigionamento di materie 
  prime soprattutto di combustibile.

  

  Lo stato si rivelò un cliente difficile, non perché impedì 
  di spuntare ottimi margini di profitti ma perché concentrò sempre 
  la sua spesa in pochi esercizi, tardò altre volte a definire i particolari 
  ordinati, in altri casi rinvio i collaudi e tardo a pagare. L’impresa 
  da parte sua pur di non lasciarsi sfuggire le commesse procedette alla cieca 
  si espose al rischio di errori di valutazioni nelle previsioni dei costi da 
  sopportare. 

  

  I crediti verso lo Stato permisero alla Terni di avere agevolazioni nell’ottenere 
  dalla Comit i fondi necessari.

  

  “Il livello dei sovrapprofitti di guerra della Terni, sebbene notevole, 
  non fu trai più elevati; avrebbe potuto certamente essere maggiore se 
  l’impresa avesse potuto lavorare da sola tutto l’acciaio che fondeva.” 
  ( pg 117 F Monelli, Lo sviluppo di un grande impresa in italia la terni dal 
  1884al 1961) 

  

  L’Ansaldo fu senza dubbio uno dei soggetti più coinvolti nelle 
  complesse vicende societarie e in quella che qualcuno definì la guerra 
  parallela tra i grandi gruppi industriali.

  I fratelli Perrone, che guidarono la società in quegli anni, riuscirono 
  a “vendere” così bene la loro immagine a tal punto che il 
  generale Cadorna affermò che senza l’Ansaldo non sarebbe stata 
  possibile la riscossa del Piave.

  

  La società Ansaldo si trasforma da accomandita in spa agli inizi del 
  900 fondendosi con la società Armstrong. Ferdinando Maria Perrone arriverà 
  alla direzione nel 1902; nel corso di un decennio la famiglia Perrone, nel frattempo 
  sono arrivati alla guida i figli Mario e Pio, riesce ad estromettere la Armstrong 
  divenendo di fatto il solo controllore della società. 

  

  Nel momento in cui scoppia la guerra l’Ansaldo capisce che la situazione 
  può essere promettente, ma ha bisogno di capitali. Visto il panorama 
  del settore del credito con i maggiori Istituti (Credito Italiano, Banco di 
  Roma, Banca Commerciale) legati ai concorrenti i Perrone sono tra i principali 
  artefici della nascita della Banca Italiana di Sconto che vedrà la luce 
  negli anni immediatamente precedenti lo scoppio del conflitto e che si legherà 
  a doppio filo all’Ansaldo.

  

  L’Ansaldo ha nel 1914 un patrimonio industriale di 45 milioni di lire 
  che arriveranno alla fine del conflitto a 135,5 milioni; gli stabilimenti passano 
  da 9 nel 1914 a 18 alla fine della guerra; i titoli di proprietà da 174 
  mila lire prima dello scoppio della guerra a 40 milioni nel 1917; i dipendenti 
  passeranno da diecimila a più di 60 mila nel 1918 , anche se i Perrone 
  parleranno di 80 mila.

  Il capitale della società passerà da 30 milioni di lire a 500 
  milioni nel 1918 (fonte Doria, Ansaldo l’impresa e lo stato, Franco Angeli 
  Editore) con crediti vantati per 701 milioni di lire del 1918 a fronte di 300 
  milioni di debiti (la situazione nel 1915 era di 19 milioni di lire di crediti 
  e 23 di debiti diversi).

  

  Nel corso degli anni 1914-1918 l’Ansaldo si scontrerà con gli altri 
  gruppi italiani: uno dei primi scontri sarà contro la Fiat e porterà 
  la società dei Perrone ad acquisire la Fiat Sangiorgio, poi divenuta 
  Ansaldo San Giorgio.

  La presenza del gruppo torinese in alcuni settori venne ritenuta inaccettabile 
  e venne attaccata come fosse un nemico. Dapprima l’Ansaldo cercò 
  di scalare la Comit per tagliare i fondi alla casa di Torino, tentando di raggiungere 
  il duplice scopo di sbarazzarsi di due nemici. Ma la scalata venne bloccata, 
  e comunque la Fiat era riuscita ad assicurarsi altre linee di credito entrando 
  a controllare il Credito Italiano. A quel punto i Perrone tentarono direttamente 
  la conquista della società di Agnelli. Ma anche questo tentativo andò 
  male.

  

  Le continue battaglie ingaggiate dai Perrone avevano lo scopo di creare un complesso 
  industriale che fosse un “sistema verticale a ciclo completo”, già 
  “iniziato prima della guerra e durante questa portata a compimento, del 
  sistema verticale a ciclo completo composto di tre raggruppamenti industriali: 
  il siderurgico (materia prima, energia elettrica e semilavorati) il meccanico 
  e il marittimo che si integravano a vicenda”. (pg 81 Anna Maria Falchero, 
  La Banca Italiana Di Sconto 1914-1921, Franco Angeli Editore 1990)

  

  Lo sviluppo integrale dell’industria dei fratelli Perrone prevede, quindi, 
  anche la conquista del settore elettrico. L’Ansaldo già nel 15 
  soffre per le temporanee diminuzioni dell’erogazione di elettricità, 
  fornitale dalla società elettrica Negri e dalle Officine Elettriche Genovesi 
  (oeg). Nei due anni successivi le polemiche con la Negri, relativamente alla 
  quantità erogata e ai prezzi, sono frequenti e salgono di tono quando 
  sul finire del 17 la Negri passa sotto il controllo della banca commerciale. 
  I Perrone, temendo di cadere vittime delle manovre dell’istituto di credito, 
  reagiscono acquistando azioni della Negri e della stessa Comit. Uno dei tentativi 
  di scalata della Comit operati dai Perrone si conclude nel giungo del 918 con 
  un accordo che prevede, tra l’altro, la cessione all’Ansaldo di 
  50 mila azioni della negri; Mario Perrone diviene presidente della negri e delle 
  oeg che entrano a far parte del gruppo Ansaldo insieme ad altre imprese elettriche 
  controllate dalla Negri: la società forze idrauliche della Maira, la 
  società alto Po, la società idroelettrica ligure di la Spezia, 
  In tal modo i Perrone intenti alla realizzazione del complesso elettro-siderurgico 
  di Aosta, possono fondatamente ipotizzare la creazione di una grande rete di 
  produzione e trasporto d’energia che copra l’arco alpino occidentale 
  e quello appenninico e alimenti un poderoso organismo industriale.

  

  Le fonti a cui i Perrone avevano attinto le centinaia di milioni necessari alla 
  attuazione del loro programma erano sostanzialmente tre: la bis, che fini col 
  rappresentare il loro unico grande creditore; lo stato, che attraverso gli anticipi 
  sui lavori in corso, in percentuali crescenti, dal 67 al 75% delle somme dovute 
  per forniture militari (il che si traduceva in veri e propri finanziamenti governativi 
  ottenuti per questa via dalla società ligure); nonché gli obbligazionisti 
  e gli azionisti che sottoscrissero in due anni ben 70 milioni di nuove azioni 
  e 100 milioni di obbligazioni. Lo stato per parte sua tra il ‘15 e il 
  1917 ampliò la propria esposizione creditizia verso la società 
  ligure da 10 a 170 milioni di lire garantendo inoltre i due aumenti di capitale 
  effettuati dall’Ansaldo tra il 16 e il 17 ed assumendo le concomitanti 
  emissioni di obbligazioni ipotecari. (pg 88 Anna Maria Falchero, La banca italiana 
  di sconto 1914-1921, Franco Angeli Editore 1990)

  

  L’Ansaldo manterrà, nonostante una discordanza nelle cifre, “in 
  aumento costante il volume della produzione che raggiunge i suoi massimi proprio 
  dopo il disastro di Caporetto: in un momento critico per le sorti della guerra, 
  dunque l’Ansaldo può presentarsi come salvatrice della patria.” 
  (Pg 115 Marco Doria, Ansaldo l’impresa e lo stato, Franco Angeli Editore, 
  1989).

  

  Da Doria vediamo che nel 1918 risultano (pg 103) numerose aziende collegate 
  nel gruppo nelle materie prime (ad esempio miniere di Murlo e di Cogne) e fonti 
  di energia (Negri e OEG), nella metallurgia (Fonderie e acciaieria Genova Cornigliano, 
  Stabilimenti siderurgici Aosta) nella meccanica (meccanico Genova Sampierdarena 
  e artiglieria Genova sampierdarena e Cornigliano, Sit torino) e nelle compagnie 
  di navigazione (Nazionale di navigazione e Translatantica Italiana).

  

  Ultimo argomento da trattare parlando dell’economia e del capitalismo 
  italiano di quel tempo è il mondo creditizio.

  Abbiamo già accennato alla nascita della Banca Italiana di sconto per 
  volontà anche dell’Ansaldo, ma anche di ambienti politici (F.Saverio 
  Nitti) che volevano contrastare il ruolo che giocavano nell’ambito dell’economia 
  italica istituti di credito che in misura diversa erano accusati di essere stranieri 
  (nello specifico Banca Commerciale, e in misura minore anche il credito Italiano, 
  vennero accusati di essere banche “tedesche”).

  

  La Banca Italiana di Sconto (BIS) nasce nel 1914 successivamente si fonde e 
  incorpora altri due istituti di credito (società Bancaria, credito provinciale 
  e pgobank). La bis nasce con l’aiuto di capitali francesi per spostare 
  l’Italia, ancora neutrale, su posizioni più favorevoli all’intesa. 
  Presidente del cda fu nominato Guglielmo Marconi per motivi di prestigio e per 
  cercare di ottenere finanziamenti dagli Usa. 

  La Bis, al cui interno l’Ansaldo aveva una posizione dominante, possedeva 
  il Secolo XXI di Genova, e aveva ottimi rapporti con Naldi, direttore de Il 
  resto del carlino; successivamente il neonato istituto di credito acquistò 
  Il Messaggero ed entrò nel capitale di Idea nazionale, quotidiano nazionalista. 
  Con questi giornali l’Ansaldo-bis conduceva una campagna contro il tentativo 
  da parte francese di scalare la Comit (tentativo fallito) perchè voleva 
  rimanere l’unico referente della finanza d’oltralpe.

  

  “I primi anni di guerra si erano comunque rivelati estremamente redditizi 
  e gli ingenti soprapprofitti di gran parte delle imprese avevano creato le condizioni 
  di mercato per poter reperire sulla piazza italiana i milioni occorrenti per 
  il previsto ed ormai improrogabile aumento di capitale della Sconto superando 
  così l’impasse provocato dalle cautele dei finanzieri statunitensi 
  riconfermate … nella meta del 1916”. (pg 66 Anna Maria Falchero, 
  La banca italiana di sconto 1914-1921, Franco Angeli Editore 1990)

  

  L’istituto di credito di riferimento dell’Ansaldo vide il proprio 
  rapporto tra utile di esercizio e patrimonio netto passo dal 7,5 % del 1915 
  al 12% del 1917.

  

  La Bis aumentò il capitale sociale, all’unanimità, nel 1917 
  portandolo da 70 a 115 milioni.

  

  Dopo aver parlato della Banca Italiana di Sconto nata a ridosso del conflitto 
  bellico, e che proprio per la sua spregiudicata condotta non sopravviverà 
  per molto tempo (la liquidazione avverrà agli inizi degli anni 20), esaminiamo, 
  brevemente il mondo del credito di quegli anni.

  

  Lo scoppio della guerra permise anche il rafforzarsi degli istituti di credito 
  e in particolar modo dei principali quattro (oltre alla Bis, Banca Commerciale, 
  Credito Italiano e Banco di Roma) che se prima del conflitto riuscivano a distinguere 
  le loro attività da quelle industriali che finanziavano, dopo la commistione 
  del 14/18 ciò non fu più possibile. Nel corso della guerra i tentativi 
  di scalata reciproci che ci furono tra le banche, cosi come accadde nell’industria, 
  furono finanziati secondo Falchero (pg 129), di fatto dagli anticipi versati 
  dallo stato per le commesse di guerra e quindi alla fine fu lo stesso stato 
  a finanziare queste operazioni.

  

  Dalla breve carrellata fatta, emerge un dato innegabile: in corrispondenza degli 
  anni della prima guerra mondiale ci furono personaggi che accrebbero a dismisura 
  la loro fortuna mentre c’era chi la guerra la viveva al fronte tra indicibili 
  sofferenze e privazioni e non nelle situazioni edulcorate che i giornali descrivevano.

  Un intero popolo “visse” la guerra, ma furono in pochi a trarre 
  vantaggi da quella che, al di là di ogni retorica, fu un utile strumento 
  di arricchimento .

  

  Lo storico inglese Dennis Mack Smith sostiene che quelle sui pescicani “ 
  che accumulavano ricchezze grazie alla guerra” erano storie deprimenti; 
  e certamente saranno state deprimenti per chi viveva al fronte e nelle città 
  il dramma di una guerra e vedeva spesso arrivare in prima linea materiale inservibile 
  (una storia, di cui però non ho trovato fonti scritti, parla di scarponi 
  che sulla neve si scoloravano lasciando vedere che erano fatti con il cartone 
  e non col cuoio).
Bibliografia 
  di riferimento

  Mario Isnenghi – Giorgio Rochat, La grande guerra 1914-1918, La nuova 
  Italia 2000

  D. Mack Smith, Storia d’Italia 1861-1961, CDE Milano1969 

  G. Porosini, Il capitalismo italiano nella prima guerra mondiale, La nuova Italia 
  editrice 1975

  Rosario Romeo, Breve Storia della grande industria in Italia 1861-1961, Cappelli

  Anna Maria Falchero, La banca italiana di sconto 1914-1921, Franco Angeli Editore 
  1990

  Marco Doria, Ansaldo l’impresa e lo stato, Franco Angeli Editore, 1989

  F Monelli, Lo sviluppo di un grande impresa in italia la terni dal 1884al 1962, 
  Einaudi 1975

  L. Gianotti, Gli operai della Fiat hanno 100 anni, Editori Riuniti 1999

  Vittorio Castronovo, Giovanni Agnelli, Einaudi 1977

  AAVV, Fiat documenti 1989-1949.

  P Spriano, Storia di Torino operaia e socialista : da De Amicis a Gramsci, Einaudi,1972. 
  

  N. Colajanni, Storia della Banca in Italia, Newton 1995
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