[Redditolavoro] Fiera del libro. La libertà non ha confini né bandiere

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Wed Mar 5 15:15:11 CET 2008


Fiera del libro. La libertà non ha confini né bandiere

Ogni anno la Fiera del libro di Torino invita un paese diverso e suoi
scrittori quali protagonisti di incontri, dibattiti, approfondimenti. Nel
2008 avrebbe dovuto essere invitato l’Egitto, ma per la concomitanza con
un evento culturale di grande rilievo in quel paese, non se ne è fatto
nulla. Israele ha quindi avanzato la propria candidatura, anche alla luce
del fatto che nel 2008 cadono i sessant’anni dalla proclamazione dello
stato ebraico (14.5.1948). La stessa data segna per i palestinesi l’inizio
della perdita della loro terra e viene ricordata come la “catastrofe”. È
nata quindi l’idea di una serie di iniziative di protesta e di
sensibilizzazione sulla situazione del popolo palestinese da tenersi in
concomitanza con la Fiera del libro, compresa quella del boicottaggio
della Fiera stessa. Val la pena a questo punto riflettere sui meccanismi
all’opera in questa vicenda.

Ci sono alcune parole intorno alle quali si articolano i discorsi intorno
alla costruzione dello stato moderno e sono: terra, popolo, nazione,
confini. Si determina quindi uno stretto legame tra libertà, identità e
stato, visto come l’unico strumento per affermare completamente la propria
autonomia e autodeterminazione rispetto agli altri popoli. Ancora oggi,
nel mondo da tutti ritenuto globalizzato, gli stati nascono e proliferano
per spinta dal basso di popolazioni viventi su di un certo territorio e
per impulso dall’alto di potenze che utilizzano l’arma nazionalista nello
scontro con altre potenze. I casi della disgregazione dell’Unione
sovietica e della Jugoslavia sono emblematici del complesso gioco tra
interessi eterogenei che portano alla nascita di uno stato ancora oggi,
come nel caso del Kosovo, regione serba a maggioranza albanese che ospita
grandi basi americane ormai dalla “guerra umanitaria” condotta dalla Nato
per difenderne la popolazione dall’asserito pericolo di “genocidio” da
parte dei serbi. Così, i “popoli senza stato”, come i kurdi ed i
palestinesi, per citare i più famosi, rivendicano non solo un certo grado
di autonomia rispetto agli stati tra i quali è spartita la loro terra, ma
la creazione di un proprio stato come unica condizione in grado di
garantire sicurezza e libertà. La bandiera diventa simbolo della nazione,
da sventolare mentre, magari, si strappano o bruciano quelle altrui.
Stato, confini, bandiera: tutto lo strumentario dello stato nazionale è
applicato ancora oggi a livello non solo simbolico ed è bagaglio della
competizione politica sia nazionale che internazionale.
Come accennato, il fatto che una minoranza “oppressa” possa assurgere al
livello di stato viene letta come unica via per la tutela della minoranza
stessa, sia da parte dei membri della minoranza che da parte di
interessati “protettori”. Così, scendono in campo altre parole a
complicare il nostro quadro, a sfumarlo. Sono: diritti umani, minoranza,
vittima. L’essere o l’essere stati vittime di ingiustizia offre una
patente morale che vela gli attuali comportamenti ingiusti. Su questo
piano, il simbolico ha un peso talora decisivo. Fatti, tragedie, reali,
vengono amplificati ed utilizzati come veri e propri strumenti di
propaganda, ancora decenni dopo i fatti reali. Il caso dell’olocausto è
paradigmatico. Non solo esso ha agito potentemente al momento della
nascita dello stato di Israele per giustificarla, ma ancora oggi riverbera
i suoi effetti sul presente. Così per la storia di persecuzioni cui gli
ebrei furono sottoposti nell’occidente cristiano, in misura incomparabile
rispetto ai paesi musulmani dove hanno quasi sempre prosperato, fino al
‘900. L’essere stato vittima rende giusti, giustifica, dicevamo, i
comportamenti attuali. Non c’è nessun legame tra le camere a gas e
l’occupazione coloniale nei confronti dei palestinesi, eppure l’accusa di
antisemitismo pende sempre sul capo di chi critica lo stato di Israele per
i suoi comportamenti nei confronti dei palestinesi. In modo analogo, l’uso
del terrorismo (parliamo di bombe sugli autobus o nei bar che uccidono
“nel mucchio”) viene giustificato dai comportamenti colonialisti di
Israele e dal suo altrettanto terroristico uso della violenza (parliamo ad
esempio di bombardamenti aerei, navali e terrestri su villaggi di civili).
L’asimmetria tra le forze in campo fa sì che i morti palestinesi siano tre
volte quelli israeliani. L’asimmetria tra l’olocausto e l’occupazione
della Cisgiordania e di Gaza fa sì che i morti israeliani “pesino” di più
sulla stampa occidentale di quelli palestinesi. Mentre i palestinesi sono
una minoranza oppressa, Israele si dipinge oggi quasi fosse in una
situazione da 1948 o 1967, attaccato contemporaneamente da tutti i paesi
confinanti musulmani, isola occidentale in un mare di bandiere verdi
musulmane.
Vero è che il ritorno prepotente della religione al centro del dibattito e
dell’agire politico ha complicato ulteriormente le cose. Se Israele è “lo
stato degli ebrei”, i musulmani vivono in molti stati. Di fronte
all’incertezza indotta da un mondo globalizzato, la religione, potente
strumento di identità, è balzata in primo piano nel mondo musulmano. Nel
corso degli anni ’80, gli USA ed Israele hanno favorito lo svilupparsi di
gruppi religiosi, anche fondamentalisti in funzione antisovietica, come in
Afganistan, o per contrastare la laica OLP di Arafat. Il risultato è sotto
gli occhi di tutti e vede un rinnovato protagonismo e centralità
dell’islam nel discorso politico. La rivoluzione khomenista in Iran ci ha
messo il resto. Senza religione non ci sarebbero gli attacchi suicidi. Lo
scontro tra ebrei e musulmani era sullo sfondo rispetto a quello tra
israeliani e palestinesi e altri paesi arabi. Oggi non è più così. Da un
lato la composizione sociale di Israele è profondamente cambiata: le prime
generazioni di immigrati, provenienti dall’Europa e guidate da una classe
dirigente sionista imbevuta di illuminismo e socialismo (cosa che non ha
impedito loro di iniziare a cacciare i palestinesi dalla loro terra),
hanno lasciato il posto a ondate migratorie di ebrei provenienti dalla
Russia e da paesi del Nord Africa e dall’Asia, in genere di estrazione
sociale bassa e più legati alla tradizione, se non smaccatamente di
destra. Così, un processo iniziato negli anni ’70, dopo la vittoriosa
guerra del 1967, ha portato in Israele alla costituzione di partiti
ortodossi, divenuti rapidamente l’ago della bilancia parlamentare. Stanchi
della corruzione di Fatah, il movimento politico da sempre dominante in
Palestina, attraverso libere elezioni i palestinesi hanno scelto un
governo guidato da un movimento religioso come Hamas, affermatosi negli
anni anche grazie ad un capillare lavoro sul territorio di assistenza e
condivisone delle dure condizioni della popolazione. In Libano il
radicamento di un movimento nazionale sciita come Hezbollah ha resistito
alla guerra dello scorso anno da parte di Israele. Del resto, la destra
fondamentalista cristiana americana e la destra israeliana si identificano
nella difesa di Sion dai pericoli che la minacciano: e Sion è l’Occidente.
Che il presidente iraniano Ahmadinejad sostenga pubblicamente che Israele
debba essere cancellato dalla carta geografica offre più di uno spunto
alla sindrome vittimaria, vera o simbolica, che alimenta la politica
internazionale. Ancora, all’Occidente giudaico-cristiano, liberale, basato
sui diritti civili e sulla democrazia, si può opporre un Oriente
musulmano, liberticida, dispotico e oscurantista. Da qui potenti simboli
propagandistici a sostegno dell’esportazione della democrazia per via
armata. Da qui la contrapposizione tra combattenti islamici e “crociati
infedeli”. Ma da qui, anche l’indissolubile legame tra politica e
religione quando si parla di Medio Oriente, nel momento in cui la
religione diventa centrale in movimenti come Hamas o Hezbollah,
costituendo il motore della loro azione sociale e politica nei confronti
di uno stato cui si appartiene (in stragrande maggioranza) perchè si
appartiene ad una certa religione, quella ebraica: stato quindi dove la
religione è costitutiva dell’identità nazionale.
Ma il conflitto tra palestinesi ed israeliani non ha solo natura politica
e religiosa: il possesso della terra, di “una terra”, va anche declinato
in termini economici. Israele è una potenza regionale non solo militare,
ma anche economica, con un territorio, fino al 1967, assai scarso.
L’occupazione delle terre palestinesi, la costruzione di colonie, hanno
avuto ed hanno le modalità rapaci e predatorie del colonialismo di ogni
tempo. La manodopera palestinese a basso costo è stato uno dei motori
dell’economia israeliana per molti anni, fino a che è stata in parte
sostituita dalle ondate immigratorie di ebrei “poveri” dal Magreb e dalla
Russia. La precarietà della condizione palestinese, imposta con la forza
militare da Israele, è quindi anche precarietà economica, povertà
“strutturale”, mancanza di risorse e quindi di autonomia.

Ironicamente, cristianesimo islam ed ebraismo sono definite “religioni del
libro”, basandosi su testi “rivelati” come Bibbia e Corano. E dalla “Fiera
del libro” eravamo partiti. Il fatto che Israele sia il paese ospitato
proprio nel sessantesimo della sua nascita coincisa con l’inizio della
sistematica cacciata dei palestinesi dalle loro terre, ha costituito la
molla di una dura polemica su media e giornali, quando si è iniziato a
parlare di boicottaggio della Fiera stessa. I concetti cui abbiamo
accennato sopra (stato, religione, vittima) si sono messi potentemente
all’opera, branditi dai due fronti contrapposti. Anche qui si è verificata
un’asimmetria evidente. Il fronte del boicottaggio è davvero poca cosa in
termini numerici e mediatici rispetto alla stragrande maggioranza di
giornali e tv, compattamente schierati pro Israele. Per non parlare delle
istituzioni, dal presidente della repubblica in giù. O dei partiti
politici: tutta la destra compatta è dalla parte di Israele, nonché il Pd.
Eppure Israele è presentato ancora come “vittima”, come se il suo “diritto
ad uno stato” fosse minacciato, come se questa minaccia nascesse dal fatto
che Israele è Occidente e vessillo di democrazia, la quale democrazia è
frutto naturale della “religione ebraica e cristiana”. Sul fronte opposto,
si chiede che ai palestinesi, “vittime” dell’oppressione israeliana, sia
riconosciuto il “diritto ad uno stato”, unico vero strumento di libertà ed
autodeterminazione. I due fronti si battono a colpi di bandiere,
sventolate ed indossate, ciascuno in difesa di una “vittima” e proiettando
sulla stessa i conflitti interni, nazionali e pure locali, brandendo
contro l’altra parte accuse di antisemitismo o di nazismo (questa ultima
accusa è lanciata reciprocamente: Israele sarebbe nazista e pure chi
l’accusa per il suo trattamento dei palestinesi).
Chi come gli anarchici ed i libertari si batte per un mondo “senza dio né
stato” non vede nella religione e nelle istituzioni statali un mezzo di
liberazione, anzi li identifica come le due maggiori maschere del potere
che opprime i singoli. Liberarsi da un’oppressione statale costituendo
un’altro stato è per gli anarchici una contraddizione in termini. Il
problema è distruggere, disgregare la forma stato che continua, nonostante
gli acciacchi ed il tempo, ad essere protagonista di un mondo che si dice
globalizzato. Anzi, è proprio la forma stato che viene con duttilità
utilizzata per modellare i rapporti di forza tra potenze: stati nascono,
stati vengono invasi, stati muoiono o vengono fatti a pezzi tra stati
diversi. Ovunque nascono nuove gerarchie, nuove burocrazie, nuove classi
politiche, nuove polizie, nuovi eserciti. Tutto l’armamentario dello stato
e della sua oppressione. E non di rado a questa oppressione si aggiunge
quella religiosa: lo stato è garante dei privilegi della chiesa, di ogni
chiesa, e ne impone con la forza le regole di comportamento, di
disciplinamento delle coscienze, disciplinamento di cui lo stato
naturalmente ringrazia. L’oppressione coloniale dello stato di Israele nei
confronti dei palestinesi, oppressione contro cui si deve combattere, può
finire certo come sono finite altre guerre di liberazione coloniale, con
la creazione di un nuovo stato. Lo scrollarsi di dosso l’oppressione
militare ed economica dello stato di Israele è solo un pezzo del percorso
verso la libertà: fermarsi alla creazione di un’altro micro stato e vedere
in esso la soluzione dei problemi, ancor più se questo stato si connotasse
in senso religioso, per gli anarchici sarebbe il modo di frustrare
l’anelito di libertà che viene dalla lotta del popolo palestinese. Ai
palestinesi oppressi, sfruttati, massacrati va tutta la nostra
solidarietà. Insieme a loro, e con gli israeliani che rifiutano e si
battono contro l’apartheid, è necessario lottare per una solidarietà
internazionalista vera, che non sia parteggiare per un nazionalismo
piuttosto che un altro. Il nostro impegno rimane l’abolizione di ogni
stato e di ogni frontiera, contro lo sfruttamento capitalista dell’uomo
sull’uomo, contro ogni forma di totalitarismo religioso che asservisce le
coscienze, per un mondo di uomini e donne liberi ed uguali.
Torino, 4 marzo 2008

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