[Redditolavoro] Fwd:Martedi 24 giugno 2008 - dalle ore 10.30 Alla Regione Puglia - via Capruzzi Presenza resistente di democratici e antifascisti [2]

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Mon Jun 23 05:36:09 CEST 2008


LIBERTÀ per NAZAN ERCAN (ZEYNEP KILIÇ)!

NO alla sua ESPULSIONE in TURCHIA

Martedì 24 giugno 2008 - dalle ore 10.30

Alla Regione Puglia - via Capruzzi

Presenza resistente di democratici e antifascisti

 

È ancora rinchiusa nel CPT di Ponte Galeria a Roma Zeynep Kiliç, la cittadina turca liberata pochi giorni fa dal carcere di Rebibbia dopo aver scontato una condanna per reati di opinione legati alla sua attività di controinformazione sulla repressione operata dal regime di Ankara contro i movimenti politici e sociali di opposizione. Appena scarcerata, Zeynep Kiliç non essendo in possesso di un permesso di soggiorno, è stata immediatamente condotta nel CPT in attesa che il magistrato decida la convalida o no del provvedimento restrittivo. Se venisse espulsa in Turchia, la giovane cittadina turca non solo rischierebbe una pesantissima condanna penale, ma la sua stessa incolumità fisica sarebbe messa a rischio in un paese che, secondo organismi internazionali e istituzionali di vario tipo, pratica la tortura nei confronti degli oppositori politici.

In queste ore numerosi comitati per la difesa dei diritti umani, associazioni di solidarietà con le organizzazioni della sinistra turca, giuristi e giornalisti si stanno mobilitando per impedire questo ennesimo atto di persecuzione nei confronti di una cittadina già pesantemente colpita a causa di attività di tipo esclusivamente politico e di opinione.

La colpa di Zeynep e del compagno Avni Er(condannato a 7 anni e ancora in carcere ) e delle decine di militanti dell'opposizione turca arrestati in Europa il 1.4.2004: essere membri del DHKP-C Devrimci Halk Kurtulus Partisi/Cephesi: Fronte rivoluzionario di liberazione del popolo), organizzazione comunista inclusa dagli USA nella lista delle organizzazioni da mettere al bando. (Lista che, approvata dal Consiglio d'Europa sulla scia dell'attentato alle Torri Gemelle, è stata recentemente messa in discussione dalla stessa Assemblea Parlamentare Europea, la quale, il 23/01/2008, ha definito come "lesive dei diritti umani fondamentali e completamente arbitrarie" le procedure impiegate per l'iscrizione in esse dei presunti terroristi).

La colpa di Zeynep: aver denunciato i crimini commessi dallo Stato Turco: dalla repressione del popolo kurdo al massacro delle Prigioni del 18 Dicembre 2000, (in cui vennero uccisi 28 prigionieri politici); dal divieto di esprimersi in kurmanji, la lingua parlata da 20 milioni di Kurdi, all'aver eliminato illegalmente (scomparsi, desaparecidos) centinaia di attivisti politici; dall'assalto alle Case della Resistenza del quartiere Kuçuk Armutlu di Istanbul per stroncare l'eroico sciopero della fame contro le famigerate celle di Tipo F delle carceri turche ai souvenir dei corpi mutilati di partigiani kurdi che i soldati turchi sono soliti mostrare come trofei di guerra!

 

Chiediamo alle forze democratiche e progressiste di mobilitarsi.

Facciamo appello a tutte le Istituzioni ed Enti democratici di seguire l'esempio del Consiglio Provinciale di Lecce ed a sottoscrivere SUBITO documenti di protesta e di condanna

Chiediamo inoltre al Consiglio regionale della Puglia di prender subito posizione, anche perchè in qualche cassetto deve ancora trovarsi un ordine del giorno  contro I' estradizione di Avni e Zeynep, presentato da 9 consiglieri della maggioranza, il 26 Febbraio del 2008.

 

Coordinamento contro l'Estradizione di Avni Er e Zeynep KILIC.




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Dal libro di Uberto Tommasi, Turchia - tulipani rossi (Ed. Achab, Verona, 2007 - info at edizioni-achab.it). 

La storia iniziò quando venne a trovarmi Hasan un giovane comunista turco, esule a Bruxelles. Uso questo nome di fantasia, come tutti quelli citati ne libro, per proteggerlo dall'interesse degli agenti dell'animoso servizio segreto turco, che in Europa è attivissimo in settori che vanno dal mondo politico a quello imprenditoriale, dove una opportuna pressione o la minaccia di una mancata commessa industriale, possono impedire che escano notizie considerate compromettenti per la "ragion di stato turca". Quella volta Hasan mi mostrò le fotografie di 122 ragazzi morti nelle carceri turche in un arco di tempo di sei anni, spiegandomi che la carneficina vera e propria aveva avuto inizio il 19 dicembre 2000. I militari con un'azione d'inaudita violenza, denominata "ritorno alla vita", avevano tentato di porre fine allo sciopero della fame di 816 detenuti politici che si opponevano, con quella forma di lotta, al trasferimento massiccio in 11 carceri speciali ed in reparti di nuova costruzione realizzati accanto alle vecchie prigioni, denominate di tipo "F". 

Questi penitenziari, secondo il giovane, erano stati voluti per isolare i prigionieri, al fine di ammorbidirne la resistenza ed interrompere la possibilità di trasmettere informazioni, come quelle sull'impiego della tortura durante gli interrogatori. Quell'azione, era avvenuta contemporaneamente in 21 carceri, causando la morte, tra atroci sofferenze, di 28 uomini e donne, soffocati dal gas, propagato dalle 20.000 bombe lacrimogene usate nell'attacco, o bruciati vivi dall'azione del fosforo bianco utilizzando l'arma chimica MK77 che non è altro che l'evoluzione delle bombe al Napalm usate in Vietnam composte di benzina (33%), Benzene (21%) e polistirolo. Miscela oggi sostituita dal WP (Willy Pete) una miscela solida che viene manipolata in ambienti senza ossigeno, in presenza del quale brucia producendo fumo bianco.  Se colpisce un persona le crea ustioni gravi e continua a bruciare fino all'esaurimento totale dell'ossigeno che si trova nell'aria e nella carne. Anche i vapori causati dalla reazione del prodotto con l'aria sono altamente tossici. Dopo l'uso fatto a Fallujah si sono visti autobotti americane lavare i muri delle case colpite per poter far entrare le truppe. Il fosforo bianco viene utilizzato dagli eserciti, pur essendo un'arma chimica vietata, con la scusa che ha un effetto illuminante sul campo di battaglia e che può creare una cortina fumogena per coprire spostamenti di truppe, mentre invece viene sempre più spesso usato direttamente contro militari e civili. La sua particolarità è che, mentre cuoce letteralmente animali e persone, lascia invece intatti gli edifici. Era contenuto nei proiettili sparati dai cannoni dei blindati. 

L'attacco fu portato avanti da 10.000 poliziotti, militari e truppe speciali, preparate al tipo di aggressione, proprio mentre erano in corso trattative fra un gruppo di giuristi, intellettuali e le autorità politiche. I sopravvissuti vennero trasferiti a forza nelle nuove celle d'isolamento e sottoposti ad ogni tipo di vessazione. Dopo essere passati per le mani della polizia, 600 giovani furono ridotti a larve umane dalla sindrome di Vernicke-Korsakoff contratta quando, incoscienti e legati ad un letto d'ospedale, dopo mesi di digiuno, furono sottoposti all'alimentazione forzata da medici compiacenti che evitarono di associare, in vena, agli zuccheri la vitamina B1, indispensabile per evitare la distruzione del sistema nervoso e l'insorgere di forme di atassia (tremori e problemi gravi alla mobilità ed all'equilibrio) e amnesia. Alcune delle persone che subirono questo tipo di trattamento sono ora costrette ad usare la sedia a rotelle. L'inganno adoperato, l'utilizzo dei possenti, quanto sproporzionati, blindati per affrontare dei ragazzi disarmati, l'impiego del fosforo bianco e nella frenesia dell'attacco, l'uccisione per "fuoco amico" anche di due soldati furono, secondo gli analisti politici, indice di debolezza e paura da parte del potere e delle gerarchie militari. Neppure i risultati ottenuti poterono giustificare l'attacco e la ferocia dimostrata dalle truppe. Infatti, lo sciopero della fame non si arrestò e continuò a produrre morti fra i detenuti politici che in Turchia, in mezzo ad una popolazione carceraria di 80.000 persone, ammontavano a circa 14mila individui, dei quali 3.000, appartenenti alla sinistra turca. Fino ad allora le autorità non avevano considerato opportuno applicare misure così drastiche, considerato che il fronte del carcere risultava unito nella lotta. Fu poi la cattura di Öcalan e la conseguente resa dei curdi, il gruppo più numeroso ed appoggiato dall'esterno dalla lotta di almeno 12.000 guerriglieri, ad isolare il ridotto numero dei politici, convincendo i governanti che quella sarebbe stata un'opportunità unica per liberarsi di chi bloccava da anni l'utilizzo delle carceri speciali, finanziate dalla Comunità Europea e considerate per il loro progetto (italiano), un possibile fiore all'occhiello per una nazione che si preparava ad entrare in Europa. 

E pareva proprio che la Turchia ce la stesse mettendo tutta per passare l'esame, dando una mano di vernice sopra simpatiche usanze come quella dei piatti di pesce fritti, in vendita sopra i battelli di pescatori ormeggiati nel Corno D'Oro e all'uso dei narghilè nelle terrazze dei caffè sparsi per la città. Uno strato di colore davvero molto sottile, infatti, da quanto risulta dalle pubblicazioni dell'Associazione Internazionale Giuristi Democratici, continuarono ad arrivare notizie di persone fermate e poi scomparse. Nelle caserme di polizia si continuò a trattenere per settimane persone sospettate, a torturare e ad intimidire sistematicamente i difensori degli imputati, a centinaia messi sotto processo per porli in condizione di non poter svolgere il loro lavoro assicurando il diritto alla difesa ai loro clienti. Tutti sistemi noti e condannati dalla Corte di Giustizia Europea. A tutto questo si sommava l'assoluta mancanza di protezione per chi denunciava le torture subite e l'assenza di un vero regolamento carcerario, levando al prigioniero diritti e dignità, sottoponendolo di fatto all'assoluto arbitrio dei carcerieri. Studi, inchieste e rapporti parlavano di un intero sistema convinto che solo la violenza potesse risolvere qualunque situazione. È vero che ufficialmente erano stati fatti degli sforzi per adeguare il paese alle regole della Comunità Europea, ma senza processi pubblici e punizioni esemplari, non si poteva cambiare la mentalità di persone che, fino a poco tempo prima, avevano gestito il sistema del terrore. Impressionante in proposito il rapporto del 30 marzo 2000 nel quale, Samuele Filippini, dell'associazione Papa Giovanni XXIII, descriveva un processo avvenuto nel 1999 in cui cinque imputati minorenni, dagli 8 ai 16 anni, più un maggiorenne di 24 anni, erano stati accusati di separatismo, per aver più volte scritto sui muri della scuola di Diyarbakir, frasi del tipo, "basta con la guerra vogliamo la pace". I ragazzi erano stati incarcerati, preventivamente, per oltre un anno e avevano subito torture con scariche elettriche, al fine di farli firmare un'autocondanna. Sempre secondo il Filippini, i dati forniti dallo stesso Ministero della Giustizia, nell'anno 1999 e solo nella regione del Sud-Est, spiegavano che erano stati 221 i casi di minorenni condannati per reati di vario tipo. 

In sintesi un bambino dagli 8 ai 16 anni, poteva essere incriminato per motivi politici per aver parlato o cantato in pubblico in lingua curda. Di questi, 68 furono condannati a morte e la loro pena commutata in 20 anni di prigione. I minorenni accusati furono incarcerati nelle celle degli adulti e subirono torture, come la denudazione ed interrogatori che durarono anche 15 giorni, pratiche che lasciano conseguenze psicologiche incalcolabili. Alcuni di questi sistemi furono poi formalmente aboliti dai governi turchi che seguirono, anche se i torturatori, i giudici ed i politici che perpetrarono questi delitti o li favorirono, sono ancora tutti al loro posto senza aver subito una punizione esemplare da porre come monito. La testimonianza che la tortura è la conseguenza di un modo di pensare, diffuso, radicato e difficilmente estirpabile, la fornirono, a Londra, otto anni fa, i cronisti dell'autorevole "European" sul quale furono pubblicate le fotografie di soldati turchi che esibivano le teste tagliate di alcuni curdi, scattate nella provincia di Hakkari, Nord Kurdistan. In quell'occasione Hasan Doner, il fotografo ufficiale dell'esercito turco, donando le fotografie, aveva dichiarato allo sbigottito reporter del giornale inglese: "Guardate che cosa facciamo ai cani, è una lezione per tutti i curdi, tutti finiranno così!" A quel tempo molti dei deputati britannici che si erano dichiarati favorevoli all'ingresso della Turchia in Europa, fecero marcia indietro e Lord Eric Avebury, presidente della Commissione per i Diritti Umani della Camera dei Lord, scrisse: "Per anni le autorità turche sono riuscite a tenere le immagini delle loro violenze lontane dai nostri occhi. Ora siamo in grado di vedere e di sapere. Che cosa fa l'ONU? Che cosa fa l'Europa?" Quella volta anche il relatore delle Nazioni Unite sulla tortura aveva dedicato più spazio alla Turchia che a qualunque altro paese nel mondo, ma era bastato qualche mascheramento propagandistico del regime turco per far chiudere gli occhi ad America ed Europa interessate al suo vasto mercato ed alla posizione geopolitica del paese. Tutto questo trapelò, nonostante che nel 1996, la presidenza del Consiglio turca avesse approvato tre iniziative a breve termine e diciotto a lungo termine, proposte dal Ministero degli Interni, per coprire le azioni in corso per debellare la guerriglia curda. Tali iniziative erano state raccolte in un documento dal numero di protocollo BO50HID0000073, che avrebbe dovuto rimanere "gizli", che in turco significa segreto. Alcune avrebbero dovuto servire a neutralizzare l'influenza, sull'opinione pubblica nazionale ed internazionale, di coloro che difendevano le ragioni del popolo curdo, a rifare l'immagine della polizia turca e dei guardiani di villaggio strettamente legati ai "lupi grigi" e alla mafia, accusati di torture e soprusi e ad impedire le attività di propaganda del PKK. 

Altre invece avrebbero riguardato l'inserimento di agenti segreti nell'attività logistica e sanitaria dei ribelli per eliminarne fisicamente i responsabili e l'avviamento di una campagna per denunciare come terrorista il PKK, per premere sui mass-media e sulla chiesa per smentire che in Turchia vi fosse un clima di persecuzione. Il documento descriveva anche una serie di iniziative dirette ad eliminare chiunque diffondesse la lingua curda. E non era finita, nel mirino del servizio segreto turco avrebbero dovuto esserci anche le delegazione di parlamentari, gli esponenti di organizzazioni umanitarie, in particolare Amnesty International, giornalisti ed operatori delle Ong straniere. Il programma comprendeva anche la diffamazione di religiosi vicini al PKK, la pressione su governi degli stati che ospitavano impianti della televisione curda, affinché li chiudessero ed il gettare discredito sui leader curdi del Fronte Nazionale di Liberazione, ospitati all'estero. Il primo gennaio del 1997 il programma era già operativo. Eppure, nonostante una strategia così accurata di mimetizzazione, notizie sempre più allarmanti trapelarono. Nel 1997, 16 giornalisti furono torturati in prigione e più di 250 fermati o incarcerati. Altri 62 furono oggetto di aggressioni d poliziotti o di sconosciuti, almeno 73 minacciati da poliziotti, capi mafiosi o capi villaggio. Quarantaquattro media furono processati, 87 sospesi o chiusi, 33 quotidiani o periodici sequestrati. Anche giornalisti stranieri subirono fermi o interrogatori dalle autorità turche, come quando quattro giornalisti italiani: Matteo del Bo, Carmela d'Anzuoni, Paolo Campagna, della Televisione svizzeraitaliana e Orsola Casagrande de "Il Manifesto" furono arrestati dalla polizia a Ftasa ed accusati di aver filmato senza autorizzazione. Quindi, nonostante ogni strategia di mimetizzazione, alla fine prevalsero paura e ferocia, le matrici di un comportamento difficilmente curabile in un popolo senza sradicare la consuetudine di un paese da troppo tempo in mano ad organizzazioni formate da politici, poliziotti e mafiosi, che inventavano dei nemici, ed una lunga guerra interna, per coprire i loro interessi. A riprova il fatto che ufficiali di polizia e guardie carcerarie, accusate di tortura e abusi, quasi mai furono sospesi, anzi in alcuni casi ebbero una promozione, e spesso risultò difficile anche l'identificazione dei torturatori, in quanto le vittime erano tenute bendate, le prove mediche delle torture soppresse ed i medici testimoni minacciati. A tutto questo si sommava la mancanza di volontà dei Procuratori di svolgere indagini nei casi in cui l'accusato fosse un agente di polizia. Tutti fattori che contribuirono a mantenere nei tutori della legge e nelle milizie che li appoggiavano un senso di assoluta impunità. 

È vero che nel marzo del 2001, la Turchia, come afferma un comunicato della Coalizione Italiana Contro la Pena di Morte, supportato da dati forniti da Amnesty International, NTC, HEW, International Herald Tribune, Coalit, delineò un programma con le azioni da intraprendere a livello nazionale al fine di conformarsi alle richieste avanzate dall'Unione Europea (dicembre 2000), necessarie per cominciare le negoziazioni. Furono istituiti organismi governativi a tutela dei Diritti Umani e si diede via a riforme legali, ma in sostanza non vi fu alcun miglioramento importante della situazione. Come dimostrarono una serie di azioni repressive nei confronti di partiti politici ed organizzazioni nella zona Sud orientale del paese a maggioranza curda, sfociate con l'arresto di numerosi rappresentanti del partito allora legale HADEP (pro-Kurdish People's Democracy Party). 

La situazione peggiorò improvvisamente, dopo gli attacchi agli USA dell'11 settembre, quando il governo arrestò 83 persone, fece chiudere dei giornali e mettere fuorilegge il partito islamico. Si ricominciò anche a torturare ed a testimonianza vi sono le numerose denuncie di maltrattamenti e torture a danno di uomini, donne e bambini ed attivisti politici, pratica in molti casi legata a discriminazioni di sesso, orientamento sessuale od origine etnica. Secondo denunce pervenute le torture si registrarono principalmente nelle stazioni di polizia e nelle gendarmerie nei giorni immediatamente successivi agli arresti. I metodi usati erano le percosse, il bendaggio degli occhi, la sospensione per le braccia o i polsi, le scosse elettriche, abusi sessuali, privazione dell'acqua e del cibo. Anche i difensori dei Diritti Umani continuarono a subire intimidazioni e minacce dalla polizia che non esitò ad irrompere, nel "Centro Di Trattamento e Riabilitazione di Diyarbakir della "Fondazione per la Difesa dei Diritti Umani" della Turchia, sequestrando per un mese anche le schede dei pazienti. Dopo le elezioni del 2002, che portarono al potere il governo del partito Giustizia e Sviluppo (AKP), fu approntata una legge contro la tortura, e decisa l'abolizione della pena di morte, anche se mancò ancora un reale impegno a far rispettare il principio di legalità, tanto è vero che i dati del primo semestre del 2004 parlavano ancora di 18 persone uccise dai servizi di sicurezza, 6 morte in carcere per mancanza di cure mediche, 6 detenuti che si erano dati fuoco per protesta, otto suicidi, due persone morte nei commissariati, 27 in scontri a fuoco con la polizia, 410 casi di tortura denunciati. E come questo tipo di detenzione crei dei danni psichici, difficilmente rimediabili con la semplice posta in libertà, lo prova la fine di Sergul Albayrak, una giovane donna di 26 anni che, liberata da appena due settimane, dopo 9 anni di carcerazione per motivi politici, il 26 dicembre del 2004 si diede fuoco in piazza Taxim ad Istanbul, per protestare contro il regime di isolamento a cui era stata sottoposta. 

La visita di Hasan mi convinse a documentarmi sul mondo della tortura, facendomi scoprire l'ipocrisia con la quale viene gestita una crudeltà che, come documenta Amnesty, viene ancora praticata in 132 paesi. Un tempo era opinione comune che il torturatore fosse una specie infame di cittadino che con il suo agire macchiava l'intera comunità. Poi le ammissioni di Bush sulle carceri segrete e l'ostinato tentativo dell'amministrazione governativa statunitense di ottenere via libera nel trattamento dei prigionieri, la fuoriuscita di immagini e notizie su tipi di tormenti psicologici e fisici praticati da militari americani (particolarmente efferata quella in cui un cane incattivito veniva spinto a mordere i testicoli ai prigionieri) ed il racconto come le vittime venissero spedite nelle carceri di paesi come l'Egitto ed il Marocco, in cui dei raffinati specialisti in torture avrebbero potuto interrogare i prigionieri con tutta calma, mi fecero capire che il tabù stava per rompersi, non nel tentativo di impedirne la pratica, ma per farne accettare l'esistenza. La giustificazione era sempre che la confessione di un prigioniero poteva salvare delle vite umane. Nel 2001, la proposta di introduzione del reato di tortura nel codice italiano, un vero e proprio buco nero normativo, sosteneva: "È difficile esplicitare esaustivamente il contenuto del reato di tortura... è necessario procedere ad una elencazione casistica". 

Di fatto sta che ci vollero cinque anni perché il 13 dicembre del 2006, venisse approvata all'unanimità, una norma che punisse i maltrattamenti. Un obbligo giuridico internazionale, politico e morale di fronte al quale il nostro paese era inadempiente da quasi venti anni. Alla fine la legge passò con norme particolarmente illuminate, come l'esclusione dell'immunità diplomatica per i cittadini stranieri accusati o processati per tortura, che dovevano essere estradati dove era in corso il processo penale o davanti ad un tribunale internazionale.  La legge contemplò anche la procedibilità universale contro qualunque cittadino italiano o straniero che avesse commesso il delitto di tortura all'estero. La norma prevede una pena di reclusione, da 3 a 12 anni, per "chiunque con violenza o minacce gravi, infligge ad una persona forti sofferenze fisiche e mentali allo scopo di ottenere da essa, o da una terza persona, informazioni o confessioni". Una legge nettamente in contrasto con l'opinione dei governanti americani, che hanno sempre ammesso che i prigionieri venivano maltrattati, ma che quegli abusi non potevano essere definiti torture. Questi maltrattamenti includevano: il legare i prigionieri ed appenderli in posizioni estreme, l'immergere la testa dei malcapitati nell'acqua tenendovela fino ad un istante prima dell'annegamento. La linea di difesa americana è che, secondo la Convenzione Internazionale, si può chiamare tortura solo un trattamento che ha per esito la morte, o lesioni permanenti. In proposito, Donald Rumsfeld presentò una lista di 25 tecniche di interrogatorio da applicare a presunti terroristi, poi ridotte a cinque. Quindi una Turchia che, rafforzata dall'uso da parte americana, di pratiche feroci, nella non-guerra Irakena, non rinuncia all'applicazione di gravi sevizie a prigionieri politici e sempre confidando nell'immunità, non condanna i torturatori, esempio che favorirebbe la creazione di una nuova generazione di tutori dell'ordine convinti che un minimo di legalità debba permeare il loro difficile lavoro. 

 

. Zehra è una giovane esile, con i capelli castani ed un sorriso dolcissimo. Il racconto delle sue peripezie inizia dai primi anni d'università quando, nel 1972, anche i giovani turchi, pervasi dal vento di libertà che aveva coinvolto il mondo intero, avevano iniziato una serie di manifestazioni per conquistare i minimi diritti di rispetto e per favorire la parità della donna. In quel tempo ero ad Istanbul e venni a sapere, dai diretti protagonisti, come esercito e polizia avessero attaccato la sede dell'università con i carri armati, reprimendo la manifestazione nel sangue. Nei giorni successivi si diffuse la voce che migliaia di studenti erano stati imprigionati, e torturati. Alcune ragazze, sottoposte alle scosse elettriche nella vagina, non poterono più avere figli e seppi che delle giovani anarchiche, che avevo conosciuto, erano state appese a ganci sul soffitto e violentate con gli sfollagente. 

Quella volta anche Zehra, era stata imprigionata. Le sue parole: "Mi legarono le braccia dietro la schiena e mi appesero al soffitto. Così i tendini delle spalle si strapparono. I dolori durarono anni e neppure dopo trent'anni si può dire che siano completamente passati. Il mio unico reato consisteva nell'essere stata una giovane studentessa del primo anno. Da quel giorno non lasciarono più in pace me e la mia famiglia. Dieci anni dopo, a mio fratello che cercava un lavoro a livello statale, glielo rifiutarono dicendo che aveva una sorella sovversiva". Nelle caserme turche, in 26 anni, sono passati per i vari gradi di tortura almeno un milione di persone, intere generazioni hanno subito l'esercizio del potere della polizia. In alcuni casi padri, madri, fratelli e sorelle, figli e nipoti. La cosa era cominciata nel 1980, quando la Turchia fu svegliata dal fragore dei carri armati nelle strade ed uno scarno comunicato radiofonico spiegò: "Le forze armate hanno assunto il controllo dello stato per proteggere l'incolumità delle cose e delle persone". L'aveva fatto emanare il generale Kenan Evren che aveva preso il potere "per mettere fine alla guerra fratricida" che da anni insanguinava il paese. La mattanza durò tre anni nei quali i militari si lasciavano alle spalle un bilancio drammatico: 650.000 persone fermate, 230.000 sottoposte a procedimento penale, 50 condannate a morte, 171 morti in seguito alle torture in carceri dai nomi diventati tristemente famosi -Mamak, Metris, Diyarbakir- 300 "morti sospette", 14.000 persone private della cittadinanza, 30.000 esuli all'estero e 4.000 docenti espulsi dalle università. Una dimostrazione di crudeltà che invece di spaventare ottenne l'effetto di cementare una solidarietà fra le vittime ed i loro famigliari che tutti i riti militareschi, a cui gli addestratori sottopongono le reclute di polizia per creare lo spirito di corpo, non potranno mai ottenere. Oggi, le pressioni della Comunità Europea, hanno ottenuto come unico risultato che le stanze di tortura venissero spostate in località segrete che corrispondono, ad Istanbul, alla sede della "Direzione di Sicurezza, Sezione di lotta contro il terrore", ad Ankara, al cosiddetto "D.A.L". (Laboratorio delle ricerche approfondite). Alle quali si aggiungono, dalla descrizione confusa delle vittime, indicazioni imprecise di luoghi di sevizie che si troverebbero in località Aksay o strada di Vatan" 

Ascolto la giovane turca raccontare, serena e senza rabbia, gli avvenimenti che l'avevano coinvolta, ma è quando le mostro le foto dei ragazzi uccisi nelle carceri che lei si emoziona. Succede anche a me ogni volta che le guardo, alcune sono riprese sul letto di morte, altre ancora fanno vedere i visi emaciati dal lungo digiuno, qualcuna impietosa pare scattata con una pellicola in bianco e nero, tanto può offrire all'obbiettivo l'immagine un corpo carbonizzato. Le didascalie che le accompagnano fanno vedere quanto fossero giovani le vittime. Cafer Dereli nato nel 1978, Canan Kulaksiz del 1981, Zehra Kulaksiz nel 1979, Meryem Altun del 1976, sono solo alcuni del centinaio di nomi e di altrettante date di nascita dei martiri dei quali colpiscono le espressioni dei visi. Quasi tutti sorridono. E colpisce terribilmente la loro espressione dolce, di chi ama la vita, ma sa di doversi sacrificare affinché un giorno si possa vivere in una Turchia senza l'incubo delle torture, di carceri speciali e senza doversi svegliare sgomenti, di notte, quando, davanti a casa, sbattono forte le portiere di una macchina. La mia interlocutrice soggiunge: "Chissà se i torturatori un giorno morendo nel loro letto, magari circondati da figli e nipoti ed assistiti religiosamente, avranno la stessa espressione serena sul viso, o se le facce delle vittime appariranno loro nel crepuscolare sgomento, tormentandoli e ricordandogli la gravità dei delitti che avevano commesso?" 

 

. Dopo un po' Hamide, una signora dallo sguardo franco e deciso, accetta di raccontarci la drammatica storia dei detenuti uccisi nelle carceri. Lei stessa ci riferisce di aver passato a Bayrampasa, il famigerato carcere di Istanbul, ispiratore di film come "Fuga di mezzanotte", più di un decennio e di essere stata sottoposta a tutte le pratiche di rituale ferocia riservata ai politici. Osserviamo alcune cicatrici che segnano braccia e collo della nostra interlocutrice e non abbiamo il coraggio di chiedere se sono conseguenza dei maltrattamenti. Hamide parla volentieri: "Lo scopo della lotta dei detenuti ha come primo obiettivo di permettere ai prigionieri di avere un minimo di vita sociale e di non dover subire un isolamento che favorisce l'arbitrio degli agenti di custodia e dei poliziotti che li torturano ed umiliavano in continuazione. La resistenza pacifica del popolo delle carceri, che tanto impauriva il potere, fu spezzata dall'intervento dei militari che usarono il fosforo bianco, bruciando vivi fra atroci sofferenze i malcapitati prigionieri. Fra i quali almeno l'ottanta per cento era detenuto per appoggio a gruppi terroristi e non per partecipazione ad azioni eversive. La procura, dopo il massacro" spiega la nostra intervistata, "aveva chiesto l'incriminazione di 399 prigionieri accusati di "Aver provocato la morte di più  11.33 53 persone attraverso una sollevazione armata", con riferimento a reati che i Turchia prevedono la pena capitale, mentre non una sola arma da fuoco era stata sequestrata. Inoltre, tragica beffa, ai detenuti ed alle famiglie dei morti, addebitarono le spese delle brande bruciate, come se i ragazzi martirizzati dal tormento del fosforo fossero stati responsabili di tanto crimine. Un po' come se nei campi di concentramento nazisti avessero fatto pagare ai superstiti la spesa del gas". 

Questo più di tutto, secondo Hamide, dimostrava come la pensavano i torturatori sulla possibilità di essere messi sotto accusa dalla comunità internazionale. Intanto dal carcere, nonostante il sistema di isolamento, tutti i giorni uscivano notizie di stupri di uomini, donne e ragazzi. La donna racconta le mille angherie subite dalle famiglie dei detenuti, a cui la polizia attribuiva responsabilità inesistenti. Questo metodo di tormentare ed emarginare socialmente i famigliari faceva parte della pressione usata per spezzare la serenità dei prigionieri ed indurli a collaborare. Un detenuto che, impotente ad intervenire, veniva a sapere che all'esterno i suoi parenti pativano fame e freddo e non potevano trovare lavoro, facilmente perdeva il suo coraggio. Di recente, la polizia era intervenuta aggredendo un campeggio estivo organizzato dalla Tayad, per i bimbi dei carcerati. Tutti erano stati prelevati e trasportati sui cellulari fino al primo posto di polizia, dove genitori e figli erano stati separati e tutti trattenuti per una giornata subendo umilianti perquisizioni ed erano stati denunciati per associazione eversiva. Ogni tanto qualcuno entra nella stanza avvicinandosi a noi per ascoltare o per raccontare la propria storia o quella di un famigliare. È un fiume di informazioni quello che per ore esce dalla bocca dei presenti, descrivendo un mondo di orrore inconcepibile nella nostra epoca. Eppure la cosa che più colpisce è la serenità delle persone che mi stano parlando, un'atmosfera unica che non ho potuto osservare in nessuno dei luoghi di guerra dove sono stato che, per chi ha avuto un'educazione cristiana potrebbe ricordare i racconti sulla calma con cui i primi martiri accoglievano tortura e morte. Anche quando Hamide parla di una ragazza morta nello sciopero della fame dice: "Ha sorriso fino all'ultimo momento". 

E le fotografie dei 120 giovani che hanno perso la vita lo provano. Nel loro sguardo non ce né rassegnazione, né paura. La dignità che dimostrano le vittime suona come l'annuncio di una lontana, ma certa vittoria e mi fanno capire perché la polizia turca abbia usato i carri armati per attaccare dei ragazzi. Era sicuramente stata una grande ed inesplicabile paura che li aveva portati a compiere un gesto così sproporzionato. Chiedo come i giornali trattino le informazioni di questi avvenimenti e mi viene risposto che le notizie vengono passate dai mass-media in modo scarno e che solo i giornali di sinistra riportano per intero gli avvenimenti. Con il risultato che, a parte l'eco creato dai fogli di alcuni piccoli gruppi della sinistra internazionale, nella comunità europea le notizie non richiamavano l'attenzione necessaria. Questo contribuiva ad aumentare il senso di impunità dei torturatori, favoriti anche da una recente amnistia. Secondo Hamide, nel 1996, durante un iniziale tentativo di trasferimenti nei carceri "F type", dopo i primi 12 morti, davanti alla reazione della stampa, il governo aveva fermato le traduzioni forzate ed incominciato a trattare. Poi, in un secondo tempo, il potere, garantitosi con adeguate pressioni, il silenzio stampa e verificata la certezza del sonno dell'Europa, aveva ripreso la tragica mattanza senza grossi fastidi. 

. Infine è un cortometraggio, che inizia con l'immagine di un mazzo di tulipani rossi, ad impressionarmi, esso documenta la storia di alcuni dei giovani uccisi, ma soprattutto riporta le fotografie dei cadaveri sfigurati dal fosforo bianco, immagini simili a quelle, sfuggite alla censura americana, provenienti da Fallujah in Iraq, dopo l'attacco americano del 2004. Nel film, il corpo martoriato di una ragazza appare completamente divorato dal famigerato prodotto chimico, pur lasciando tracce dei lineamenti contorti in uno spasimo terribile. La figura inarcata della giovane, la cui bianca dentatura risalta sul corpo ridotto a carbone, appare come un vero monumento all'efferatezza di cui è capace l'uomo. Come se un cervello malato avesse escogitato un modo per obbligare i poliziotti turchi, con il loro orrendo gesto, a dimenticare di essere popolo loro stessi, erigendo un muro insormontabile contro il perdono, per non poter tornare indietro, per cancellare ogni possibilità di pentimento ed impacciare definitivamente nella condanna i colleghi indecisi che cominciavano a pensare. Un'azione che stigmatizza l'immagine del poliziotto sinistro e sonnambulo, occupato a non farsi riconoscere dalle vittime, a nascondere il proprio indirizzo sotto l'incubo di una inevitabile vendetta, a vivere dentro costruzioni recintate, molto simili a prigioni, come appartenesse ad un esercito occupante. Mentre all'opposto i suoi nemici in mezzo al popolo ci vivono di diritto, partecipando con esso a gioie ed angustie, a soddisfazioni e difficoltà che si incontrano in una società ingiusta, per riuscire a vivere dignitosamente. 

Chiedo ad Hamide, se l'immagine dei tulipani rossi, posta all'inizio del documentario, avesse un particolare significato e lei risponde che quelli erano i fiori che loro portavano sulle tombe dei martiri, un simbolo che la tradizione legava alle lacrime d'amore.






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