[Redditolavoro] LA FABBRICA.LICENZIAMENTI E MORTE (E.A.)
frank ficiar
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Sat Jan 12 21:00:21 CET 2008
LA FABBRICA: LICENZIAMENTI E MORTE
by Operai Contro / Categoria :: Numero 322
Pubblicato il ven, 11 gen @ 23:32
Un terribile fine d’anno, in dicembre sette operai bruciati in acciaieria. Dodici
operai licenziati quasi contemporaneamente negli stabilimenti Fiat del meridione fra
ottobre, novembre e gennaio. Sui morti della Thissen un mare di inchiostro già
consumato, sui licenziati poche righe nei giornali locali. Eppure… Eppure esiste fra
i due eventi un collegamento strettissimo che si chiama fabbrica, un territorio del
tutto particolare. Usiamo il termine fabbrica in senso generale e cioè quel
territorio separato dal resto della società dove gli operai vendono le loro braccia
per un salario e sono utilizzati dal padrone per produrre una merce dalla cui vendita
deve ricavare un profitto adeguato al livello di capitale investito. La proprietà
privata, che è il fondamento della società odierna salvaguardia questo territorio da
incursioni esterne o le rende molto innocue. Qui il padrone, o per dirla più
modernamente, il manager assoldato dagli azionisti, stabilisce modi di comportamento,
regolamenti interni, sistemi di produzione e utilizzo dei macchinari. Per rendere
operative le sue decisioni mette a capo di semplici operai responsabili,
coordinatori, vere e proprie guardie; sono anch’essi lavoratori e lavorano per far
lavorare gli operai alle condizioni dettate dal padrone. La legge parla chiaro: tocca
all’imprenditore organizzare la produzione. Un altro dei cardini del della società di
oggi.
Si ma non esageriamo, dice il riformista democratico, la fabbrica non è quel
territorio dove il padrone è il despota assoluto, deve rendere conto ad un sistema di
leggi che ne limitano la discrezionalità. Dopo la morte. Dopo cioè, che da quei
cancelli, che delimitano il suo territorio escono gli operai maciullati, avvelenati,
morti. Solo allora interviene, con i suoi tempi, la magistratura, si mette in atto
qualche controllo in più, avvisando per tempo il datore di lavoro in modo che possa
mascherare meglio impianti e cicli di lavoro. Cosa ha evidenziato la strage di Torino
se non l’assoluto arbitrio di un gruppo dirigente aziendale sulle condizioni di
produzione e con questo sulla pelle degli operai che vi lavoravano? Tocca agli operai
mettere un freno, nessuno lo metterà per loro, è vero, ma se non si capisce il regime
di fabbrica non si capiscono le difficoltà che gli operai affrontano quando decidono
di fare in proprio
Per capire saltiamo nei feudi industriali del Meridione, e solo un mese prima.
Quattro operai vengono licenziati alla Fiat di Melfi, uno alla Fiat di Pomigliano.
Il primo licenziato di Melfi è un delegato sindacale, scrive un volantino contro uno
di quei capi ligi al dovere, un comunicato sindacale, denuncia solo che il capo ha
minacciato gli operai nel corso di uno sciopero. Chi decide sulla legittimità di
questa iniziativa? La legge italiana? No, un dirigente FIAT che scrive una lettera di
contestazione, all’operaio cinque giorni di tempo per giustificarsi e nel frattempo
espulso dal feudo: sospensione cautelare, non potrà più entrare a lavorare. Il nostro
delegato porta le giustificazioni, chi deve giudicare se sono valide o da rigettare?
E’ ancora lui, il dirigente Fiat, non deve nemmeno motivare la sua scelta, non sono
valide punto, licenziamento. “Venga a ritirare le spettanze il giorno …” Il delegato
ricorrerà in tribunale, passeranno mesi se non anni e come tirerà avanti nel
frattempo? Non sono problemi del despota in giacca e cravatta, il delegato doveva
pensarci prima.
Per gli altri tre licenziati la storia è ancora più esplicativa di cosa si intenda
per regime di fabbrica e uguaglianza dei cittadini. Il provvedimento riguarda tre
operai che vengono perquisiti come indagati per il reato di terrorismo. A quelli che
si fanno impressionare dalla parola terrorismo chiediamo di essere seri, è solo un
sospetto. La perquisizione non ha prodotto niente, gli operai sono estranei
totalmente, comunque il diritto dice che fintanto ché non c’è la condanna definitiva
non sono colpevoli. Il padrone FIAT sa prima di altri delle perquisizioni. E’ da
sempre che carabinieri e magistratura collaborano con i datori di lavoro a tenere a
bada gli operai facinorosi, ma farla cosi sporca…Anche qui il comando di fabbrica
ragiona sulla base di leggi che valgono solo nel suo territorio. Contestazione
scritta: lei è sospettato, farebbe ridere chiunque il fatto che l’essere sospettato
sia già un reato. Ma non è così per il padrone. I soliti cinque giorni di formalità e
poi la sentenza è emessa non da un tribunale, ci vorrebbero accusatori, difensori,
giudici, ma da un uomo Fiat con pieni poteri: naturalmente licenziati, tutti e tre.
Anche loro si rivolgeranno alla giustizia esterna, con i suoi tempi, la prima udienza
dopo quasi tre mesi. Nel frattempo, alla fame. Da nessuna parte, tantomeno in
parlamento un sospettato è trattato così ma per gli operai vige una legge
particolare. Così particolare che al licenziato dell’Alfa di Pomigliano viene
contestata un’azione fuori dal territorio proprio di fabbrica. In un salone di
vendita di auto Fiat degli operai protestano per il regime in cui sono costretti a
produrre le stesse auto, uno striscione contro il precariato, un comizio volante. E
solo una piena ed effettiva libertà di espressione ma la Fiat individua l’operaio che
ritiene responsabile della protesta, gli contesta l’iniziativa e dopo i soliti cinque
giorni lo licenzia. Le giustificazioni respinte. Dai giudici a chiedere la
reintegrazione, intanto fuori dalla fabbrica.
Cosa vogliono gli industriali ed in particolare il management della Fiat è chiaro,
tagliare le teste pensanti di una possibile ripresa delle lotte degli operai sui
loro interessi, dal salario al problema del potere nella società. Foraggiare e
favorire lo strato di sindacalisti concertativi, quelli “del prendere quello che il
padrone dice di poter dare” ed eliminare gli attivisti sindacali direttamente
prodotti dagli operai che tendono a ragionare operai contro padroni, salari contro
profitti, classe contro classe. Ed eliminarli con un’azione preventiva prima che
costruiscano solidi rapporti con la maggioranza degli operai.
Il gruppo dirigente della Fiat non poteva presentare la sua azione in questi termini,
avrebbe dovuto ammettere che stava conducendo un’operazione politica, per difendere i
suoi interessi di classe contro esponenti della classe avversa, cosi ha dovuto
costruire a tavolino i licenziamenti trovando per ognuno una causa particolare. Lo ha
potuto fare in piena repubblica democratica, perché essa, fondandosi sulla proprietà
privata e il ruolo centrale dell’imprenditore fa della fabbrica moderna il luogo dove
il cittadino diventa operaio, ed in questo modo cade sotto un’altra legislazione
particolare che è quella stabilita dal padrone. Noi li chiamiamo licenziamenti
politici proprio perché sappiamo che si producono nel timore che hanno gli
industriali di trovarsi nuovamente ed ancora di fronte ad una classe rinata dopo
tante sconfitte più forte e più determinata di prima.
E.A.
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