[Redditolavoro] R: Sono morto così all'ILVA,Pensando a Francesca.

anna a.grav at libero.it
Fri Dec 12 17:12:47 CET 2008


 

Ieri un altro lavoratore è morto all'Ilva di Taranto. Un manutentore di una
ditta d'appalto. Il terzo dall'inizio dell'anno. Si chiamava Jan Zygmuntjan
Paurowicz, aveva 54 anni ed era all'ultimo giorno di lavoro nell'altoforno. Lo
vogliamo ricordare con questo testo di Francesca Caliolo che racconta 
la storia di suo marito, un altro operaio che lavorava all'Ilva, un altro
operaio morto sul posto di lavoro, da solo. Francesca scrive immedesimandosi nel
marito, facendo come se lei fosse lui. Racconta, in poche pagine struggenti, la
sua ultima giornata «da vivo». Da qualche tempo Francesca gira l'Italia per
raccontare la storia di suo marito, il dolore e l'ingiustizia per lei e per i
suoi figli di quella assenza. Perché non ci sia più assuefazione, fatalismo,
silenzio. 

Francesca Caliolo
Il giorno in cui misi piede per la prima volta come operaio nel cantiere Ilva di
Taranto, fui preso dallo sconforto, come mai mi era accaduto nella mia lunga
esperienza lavorativa. Difficile arrivare alla fine di quella giornata. Trovare
quel lavoro non era stato facile: dopo mesi di mobilità e decine di domande
inoltrate a ditte del settore, un contratto a due mesi mi aveva dato respiro.
Conoscevo già il cantiere per averci lavorato in trasferta qualche anno prima.
Quella sensazione che avevo ora però, era di definitiva appartenenza a quel
luogo e questo mi infondeva pessimismo per il futuro. Dovevo avere
un´espressione molto avvilita se, tornato a casa, mia moglie mi abbracciò forte,
dicendosi sicura che presto avrei trovato qualcosa di meglio. Invece restai in
quella ditta per due anni, passai in un´altra come caposquadra per altri due,
per poi tornare alla prima, divenendo vice-capocantiere circa tre anni dopo. 
Questo scatto di livello mi gratificò, gravandomi al tempo stesso di una grande
responsabilità, a causa di lavori molto impegnativi che eravamo chiamati a fare.
Ciò che restava immutato era il paesaggio.
Contro un cielo velato dai fumi, si stagliavano bizzarre architetture: come
cattedrali futuriste consacrate alla grande economia, svettavano numerose
ciminiere, attorniate da condutture metalliche che percorrevano in lungo e in
largo la città-cantiere, trasportando enormi quantità di gas, per arrivare ai
potenti altoforni capaci di ridurre i metalli in lava incandescente.
A fumi e vapori si aggiungeva il `polverino´, come lo chiamavano qui, che si
sollevava dalle nere colline di carbone dei parchi minerali, in una sorta di
moderna rivisitazione dell´Inferno dantesco. Di tanto in tanto, paradossalmente,
il tutto era avvolto dalle note dell´"Inno alla gioia" di Beethoven, diffuse
dagli altoparlanti per sottolineare il momento culmine della "colata". A questo
scenario pian piano non ci feci più caso, se non per il fatto che gradualmente
contribuiva ad aggravare la mia allergia. La prima estate che affrontai in Ilva
fu una delle più calde in assoluto. Toccò i 40° e a noi toccò ristrutturare un
altoforno ancora caldo, situato vicino a un altro in funzione, a 1.800°. In
seguito bisognò revisionare dei silos contenenti residui oleosi che impregnavano
le nostre tute rendendole inutilizzabili: condutture buie e fuligginose che ci
rendevano irriconoscibili come minatori a fine turno. 
Strutture poste ad altezze irraggiungibili da chi non avesse una qualche
capacità funambolica. Difficile raccontare questo stato di cose a chi non
conosceva quell'ambiente. E infatti non lo raccontavo. Non lo raccontavo ai
conoscenti, non lo raccontavo ai parenti. 
Non lo raccontavo agli storici amici, insieme ai quali avevo condiviso battaglie
sociali. Col tempo le nostre vite erano cambiate; dal punto di vista del lavoro
però, la mia vita era cambiata più delle loro. Lavoratori per lo più "di
concetto", li ritenevo teorici idealisti, lontani anni luce dal mondo cui
accennavo loro con battute ironiche. Mia moglie era l'unica a conoscere nei
dettagli la mia realtà lavorativa. Quasi ogni mattina, mi chiamava per un rapido
saluto che mi rincuorava e poi, una volta a casa, mi martellava di domande per
conoscere tutto della mia giornata.
Benché restìo a raccontare aspetti poco rassicuranti per lei, mi ritrovavo poi a
farle un resoconto completo anche di dettagli tecnici. 
Questo suo modo di essermi vicina, era parte integrante di una condivisione
totale della nostra vita e aveva in effetti il potere di alleviare tante
giornate difficili. Così come mi aiutava il bellissimo, profondo legame con i
nostri figli. Ma anche al lavoro mi aiutavano i contatti umani. Ci tenevo a
stabilire rapporti di amicizia prima che professionali; una risata, una battuta,
qualche aneddoto ci faceva superare le giornate più pesanti. Avevo buoni
rapporti con tutti o quasi e avevo rispetto per i superiori come per l´ultimo
arrivato.
In passato avevo subito troppe vessazioni solo per essermi opposto a delle
ingiustizie, da parte di capi tesi ad affermare il proprio ruolo, per non
nutrire rispetto per chi avevo di fronte. Oltretutto lavoravo quasi sempre al
fianco dei miei operai per condividere rischi e fatica. Era nel periodo delle
"fermate", vale a dire il blocco produttivo di un settore del cantiere, che
permetteva a noi di intervenire, che divenivo duro ed esigente, preoccupato che
tutto andasse per il meglio. 
Ad ogni modo, odiavo quel lavoro. 
Non lo lasciavo perché volevo mettere un po' di risparmi da parte per avviare
una attività indipendente, magari nella ristorazione. Cosa non facile con una
famiglia monoreddito e due figli in crescita. D´altro canto, per quanto ancora
avrei potuto svolgere un lavoro così usurante con due vertebre schiacciate, un
menisco lesionato e una tendinite al braccio destro? E comunque sognavo un
lavoro che mi lasciasse più tempo per vivere insieme alla mia famiglia e
programmare finalmente delle ferie in estate, seguire il calcio, la politica,
fare passeggiate senza sentirmi stanco e stressato. E se la stanchezza era
dovuta alla manualità del lavoro, lo stress derivava dal carico di
responsabilità, per l'esecuzione tecnica secondo precisi parametri e tempi
sempre troppo limitati, dettati da gare al ribasso, che ci imponevano turni
impossibili, arrivando a volte a lavorare per 16 e addirittura 24 ore di
seguito! Nel contempo bisognava fare attenzione che nessuno si facesse male e, a
dire il vero, la frequenza degli incidenti in tutta l´Ilva non lasciava ben
sperare. 
A fine giornata pareva un bollettino di guerra, con incidenti di tutti i tipi:
ustioni, intossicazioni, fratture e, qualche volta, si moriva anche. Le morti ci
lasciavano attoniti, a pensare all´esagerato tributo da pagare in cambio di un
lavoro di per sé duro e alienante. 
Eroi, martiri del lavoro? Nessuna medaglia, non funerali di stato.
E credo che nessuno di quegli uomini avesse voglia di immolarsi a un dio che
chiedeva sacrifici in nome di interessi economici, e non si prodigava ad attuare
migliori misure di sicurezza, definendo "morti fisiologiche" quelle 2-3 che in
media si verificavano per anno in un cantiere dove operavano circa 20.000
persone. Ci sentivamo impotenti, rassegnate formiche al cospetto di un colosso.
Protestavamo e poi, dovendo continuare a lavorare, cercavamo di scongiurare la
morte cercando di non pensarci. D'altronde nella nostra ditta non era mai morto
nessuno. Sono passati ormai quasi nove anni dal mio ingresso in Ilva e sono
ancora qui, alle prese con un´ennesima "fermata" che si presenta particolarmente
complicata e che mi ha caricato di tensione già da qualche settimana. 
Neppure questa pausa pasquale è servita a ricaricarmi; neppure la giornata di
ieri passata in campagna respirando aria pura, cosa non comune per me. 
Ho avuto da ridire con mia moglie anche prima di andare a dormire, col pretesto
che non aveva sistemato bene la piega del lenzuolo. 
Lei ci è rimasta male perché era stanca, ma io ero nervoso e intrattabile e non
ci siamo neppure dati la buonanotte. 
Più tardi appena avrò un po´ di tempo la chiamerò per scusarmi, tanto ormai lo
sa che se non termina la fermata non torno sereno. 
E questo lavoro ci dà già delle noie, un´operazione che non va per il verso
giusto, ci tocca smontare e rimontare. 
Siamo a venti metri da terra per sostituire delle valvole di un enorme tubo che
è stato svuotato, così ci hanno assicurato, del gas che trasportava. Indossiamo
maschere collegate a bombole d´aria perché potrebbero esserci residui di gas,
non è la prima volta che torno a casa con nausea e mal di testa da scoppiare. E
infatti verso le dieci ho soccorso un ragazzo che si è sentito male. Questo gas
è inodore e insapore, perciò più insidioso; un paio di noi hanno il rilevatore
ma ormai è certo che da qualche parte c'è una perdita, comincio ad avere mal di
testa. 
Comunque noi siamo abituati ad operare così, né la ditta né l'Ilva si possono
permettere di bloccare i lavori ogni volta che qualcosa non va, non gli
conviene. A noi scegliere poi se ci conviene rischiare o non lavorare più. Meno
male almeno che i turni ora sono regolari, in fondo non è la prima volta che
respiro questo maledetto gas. Mi dà nausea, vertigini, mal di testa, ma una
volta a casa mi riprendo, devo resistere fino ad allora. 
Intanto il cellulare continua a squillare, sono quelli dell'altra squadra ed io
per rispondere e richiamarli devo togliere la maschera. Non posso ogni volta
scavalcare questo tubo che ha 3m di diametro per raggiungere la postazione di
sicurezza, perderei troppo tempo. Anche la scala di accesso è dall´altra parte,
così mi allontano del massimo che mi è consentito. 
Stiamo lavorando come forsennati, vorrei che Gabriele fosse qui e ci vedesse,
capirebbe perché insisto tanto sul fatto che studi. 
Ultimamente sono stato anche un po´duro con lui, ma non vorrei mai che si
trovasse costretto un giorno a fare questo. 
Ora non ce la faccio proprio più, mi sento mancare le forze. Mi allontano verso
l´ufficio, vorrei chiamare Franca ma si accorgerebbe che qualcosa non va, non
voglio preoccuparla. 
Nella mente mi scorrono delle immagini. Mi rivedo ragazzino a bottega dal
fabbro, durante le vacanze estive, mentre i miei amici giocano nel cortile
dell´oratorio vicino. Ma io ho perso mio padre a nove mesi e son dovuto crescere
in fretta. 
Mia madre, contadina, ha dovuto tirare su cinque figli da sola. 
Con un diploma professionale, non ho trovato di meglio da fare che il muratore,
stringendo i denti per la fatica eccessiva per un fisico esile come il mio.
Qualche anno dopo sono diventato un bravo venditore di macchinari per
falegnameria, con i cui proventi ho potuto costruire la mia casa. 
Dopo nove anni il mercato ristagna, torno così alla condizione di operaio
stavolta metalmeccanico, nel Petrolchimico di Brindisi. Dopo altri nove anni la
ditta ci impone la condizione di trasfertisti; non ce la faccio ad allontanarmi
dalla mia famiglia e rifiuto, ritrovandomi così in mobilità. Fino ad oggi ho
trascorso quasi nove anni qui in Ilva e chissà, forse la mia vita avrà una nuova
svolta. 
Non cerco di dare un senso a questa mia vita di fatica e sacrifici. Il senso è
gia tutto negli affetti. 
D´altronde la felicità non è una condizione continua, se non nelle fiabe. 
Noi dobbiamo accontentarci delle piccole cose e vivere intensamente i momenti di
felicità che ci capitano, come dice mia moglie, che sa restituirmi la gioia di
vivere. Ora devo tornare al lavoro, non mi sento ancora bene. 
Qualcuno mi sconsiglia di risalire, non ho un bell'aspetto, dice. Non posso,
siamo una squadra ed io ne sono anche responsabile. 
Infatti i problemi non sono ancora risolti; insistiamo, ricominciano le
telefonate. Cambia il turno, mi sollecitano a lasciare ad altri il completamento
del lavoro. Non posso, ci sono quasi riuscito, è un lavoro pericoloso, meglio
completarlo. 
Stasera a casa voglio abbracciare Franca, Gabriele e Roberta. 
Dire loro quanto li amo, proporgli di fare una crociera, è tanto che ci penso e
poi voglio cambiare lavoro, non ce la faccio più, sono stanco, stanco, così
stanco che all'improvviso ho voglia di dormire, mi si chiudono gli occhi,
squilla il cellulare, dormo. 
* * *
Amore mio, è passato un anno da quando non ci sei più. 
Quante volte mi sono chiesta se non sentivi lo squillo della mia chiamata, se
proprio in quel momento cadevi, se pensavi a noi. 
Di quel giorno posso ricordare tutto, posso anche rivivere lo straziante dolore
di una realtà dura da accettare, così dura da far crescere in un attimo i nostri
ragazzi, proiettati improvvisamente davanti alla morte, quella del loro adorato
papà. 
Voglio credere che quel giorno il Signore ti abbia fatto cadere tra le sue
braccia, per portarti a vivere una felicità mai provata prima. 
Voglio credere che tu sia qui tra noi, che continui a proteggerci col tuo amore
e la tua tenerezza. 
Dev'essere così, altrimenti non saprei spiegarmi perché continuo ad amarti tanto
e ad avere la forza di vivere senza di te.

 
Zag(c)

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