[Redditolavoro] nuovi settori trainanti dell'ecomia

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Mon Dec 8 10:48:21 CET 2008


Crisi: che accade nel lavoro immateriale?
di Benedetto Vecchi
Domenica 7 dicembre 2008
[ versione per la stampa ]
Una delle vittime dell’attuale recessione economica è l’idea che l’innovazione tecnologica e la produzione immateriale avrebbe consentito un costante sviluppo economico. 

Il circolo virtuoso tra capitalisti di ventura, produzione di software e cooperazione sociale si è rivelato non solo perverso, visto che la finanza è stata la molla del bailout delle borse, ma anche si è spezzato definitavamente. 

La recessione economica mette a nudo semmai le fragilità di dispositivi di governance dell’impresa, della forza-lavoro e delle relazioni tra stati nazionali e che costringe, ad esempio, a prendere congedo dal neoliberismo fondato da quella occupazione dello stato per svenderlo così ampiamente descritta dalla giornalista e attivista Naomi Klein nel volume Shock economy. 

Il capitalismo cognitivo si trova tuttavia di fronte a un bivio. 

L’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti rafforza l’analisi di quegli studiosi che considerano esaurito il ciclo neoliberista, auspicando un ritorno dell’intervento statale in economia. Lettura semplicistica del neoliberismo, che non è mai coinciso con una ritirata dello stato-nazione. Anzi nei due decenni trascorsi lo stato ha moltiplicato le sfere su cui intervenire attraverso leggi e normative, finalizzate a rendere centrale la figura dell’individuo proprietario. Non è però da negare il fatto che lo stato si è riservato il ruolo di guardiano anche armato del capitalismo neoliberista, ma ha dismesso spesso gli abiti dell’imprenditore diretto. 

L’attuale crisi può forse rispolverare quegli abiti, come accade ad esempio nel capitalismo cinese guidato dal partito comunista. Oppure può scegliere, come è intenzionato a fare Barack Obama, di favorire lo sviluppo di una società della conoscenza, spostando risorse proprio nella produzione immateriale e intervenendo a favore delle imprese tradizionali, a patto però che innovino fortemente i propri prodotti. 

In altri termni, anche le produzioni hard devono fare l’esperienza di una forte iniezione di conoscenza scientifica. Ma tutto ciò riguarda il futuro prossimo. Nel presente, invece, accade che la crisi bussi fortemente alle porte delle imprese simbolo della produzione immateriale, da Google a Cisco, da Nokia a Dell. 

La prima ha ricorrere a luicenziamenti di massa è stata proprio la Google, che ha fatto la sua fortuna miscelando sapientemente innovazione e politica dell’attenzione verso quanto si eccentrico e «alternativo» avveniva tra il variegato mondo dei nerds e dei geeks, cioè le figure chiave della produzione high-tech tanto in Europa che al di là dell’Atlantico. 

«Don’t be the devil». Non comportarti male. E’ infatti questo il motto scelto a suo tempo da Larry Page e Sergey Brin al momento della fondazione di Google, escludendo così la possibilità di infrangere le leggi statunitensi, né di fare affari con gli stati che violavano i diritti umani o la privacy. E soprattutto giurarono che non avrebbero mai licenziato nessuno. Il motto, è noto, è stato più volte ignorato, in particolare modo per quanto riguarda la collaborazione con chi non rispetta i diritti umani. 

Ma mai Google aveva fatto ricorso ai licenziamenti, almeno fino a quando ha annunciato ieri che nelle prossime settimane «metterà in libertà» molti dei diecimila dipendenti a «tempo determinato». 

Si tratta di donne e uomini che lavorano ai servizi alla produzione - alla mensa interna, le pubbliche relazioni, gli autisti, gli addetti ai magazzini - i cui contratti scadono a fine anno. I ventimila dipendenti a «tempo indeterminato» non corrono nessun pericolo, ha tenuto a precisare Sergey Brin, uno dei due fondatori di Google, che ha spiegato la decisione di non rinnovare i contratti è dovuta al fatto che i «collaboratori esterni» erano diventati troppi e che i conti al Googleplex di Mountain View non tornavano più come in passato. 

Ma dietro le parole tranquillizzanti di uno dei fondatori si nasconde invece l’amara realtà che la crisi economica non risparmia nessuno e colpisce anche le imprese high-tech, considerate finora al riparo del bailout che sta terremotando le attività produttive statunitensi. 

Così, anche a Silicon Valley, la 128 route, Seattle e Mountain View, cioè i centri d’eccellenza nella produzione di alta tecnologia statunitense, viene applicata la regola vigente negli altri settori produttivi. Si licenziano prima i temps, il termine usato per indicare i precari, che percepiscono salari inferiori ai perms (i tempo indeterminato) anche se svolgono la stessa mansione. Oltre a ciò, i temps non hanno copertura sanitaria e non accedono alle stock options, le azioni che possono essere acquistate a prezzi inferiori del mercato e che spesso sono l’unica forma di aumento salariale per i knowledge workers, stabilendo così il fatto che il salario è una variabile dipendente dai profitti dell’impresa. 

La crisi bussa dunque alle porte della società simbolo della produzione immateriale. E se si aggiunge il fatto che dall’inizio dell’anno il costo delle azioni della Google sono passate da circa 700 dollari a 230 dollari vuol dire che a Mountain View le cose non vanno così bene come invece continuano a ripetere i due fondatori e Eric Schmidt, il manager che gestisce di fatto l’azienda. 

Già nelle scorse settimane, infatti, c’era stato l’annuncio dell’abbandono di alcuni progetti, considerati importanti per rendere ulteriormente competitiva la società del motore di ricerca più usato nel mondo. Si tratta di Lively, lo sviluppo cioè di un universo in 3d che doveva competere con Second life, e dello sviluppo di SerachMash, un motore di ricerca semantico. 

L’annuncio dei licenziamenti è rimbalzato da un sito all’altro della rete, alimentando il timore che i pessimi conti di altri colossi dell’informatica o delle telecomunicazioni lasciano presagire che quello di Google non è che il primo licenziamento di massa nell’industria high-tech statunitense. 

Aveva già fatto scalpore nei mesi scorsi che Motorola aveva licenziato 3000 dipendenti, ma quasi tutti erano occupati nelle filiali «estere», come ben sanno gli ingegneri torinesi licenziati dalla sera alla mattina. Più o meno con l’inizio della crisi dei subprime altre due imprese - Amd e Electronic Arts - aveva annunciato una riduzione della forza-lavoro, rispettivamente di 500 unità e di 60 unità. Da allora lo stillicidio è diventato quotidiano. 

In sordina, nei mesi scorsi, hanno cominciato a chiudere le piccole software house che lavorano su commissione della grandi imprese. Licenziamenti e fallimenti che meritavano solo qualche riga nei notiziari economici. 

Diversa era invece, all’inizio di Novembre, la reazione all’annuncio di Dell - una dei maggiori produttori di personal computer nel mondo - di applicare una specie di cassa integrazione da uno a cinque giorni per tutti i dipendenti, anche se negli Stati Uniti chi rimane a casa vede ridotto il salario delle giornate lavorative perse. 

E quando sono stati resi noti i pessimi conti trimestrali di Cisco, l’impresa che fornisce l’apparecchiatura elettronica e i programmi informatici per i router indispensabili per la connessione a Internet, era diventato chiaro che nessun sarebbe rimasto indenne in questa crisi economica. E se si pensa all’effetto a cascata provocato dalla a crisi dell’industria automobilistica sulle imprese high-tech forniscono i microprocessori e il software sempre più usati nelle automobili il quadro diventa vieppiù fosco. 

Al di là delle notizie che provengono da Google o da altre major dell’informatica, la tendenza a un “dimagrimento” nella produzione di software è costante dal 2001, quando cioè esplose un’altra bolla speculativa e molte imprese dot.com chiusero i battenti, licenziandiamo centinaia di migliaia di knowledge workers, indipendentemente se fossero temps o perms. 

Lo attesta uno studio dell’Alliance of technology workers, un’organizzazione sindacale statunitense “militante” cioè un po’ più radicale delle altre affiliate all’Afl-Cio. 

In un report intitolato Information technology labor markets: rebounding, but slowly, viene ricostruito l’andamento dell’occupazione dal 2000 al 2006, cioè da quando si sono manifestate le prime crepe della net-ecoonomy fino all’anno in cui gli analisti ritenevano che il vento era cambiato di direzione e le imprese high-tech navigavano spedite verso un periodo di prosperità. 

Se si leggono i dati forniti da questa organizzazione sindacale si apprende che in quattro anni il settore aveva perso oltre 300mila lavoratori e lavoratrici. In tutte le aree metropolitane dove è concentrata la produzione high-tech statunitense (Boston, Washington, Los Angeles, San José, Dallas, Austin e Seattle) il termine layoff usato per indicare pudicamente i licenziamenti è stato quello più usato per rappresentare la tendenza nel settore produttivo considerato trainante per tutta l’economia americana. 

Solo con il 2005 c’è stato un arresto nell’emorragia di knowledge workers, anche se nei due anni successivi il numero di occupati non è mai ritornato ai livelli del 2001.L’Alliance of Technology Workers sottolinea sì il fatto che molti degli «esuberi» sono stati in qualche maniera riassorbiti dal mercato del lavoro, ma da un’analisi più dettagliata delle diverse aree metropolitane emerge anche il fatto che molte imprese hanno preferito «delocalizzare» in altri paesi. 

Negli anni scorsi, la tendenza al downsizing e al decentramento produttivo anche per l’industria hig-tech statunitense era già stata ampiamente documentata per quanto riguarda la produzione dell’hardware sempre dalla stesso organizzazione sindacale. Le imprese di computer o di telefoni cellulari si erano prima spostate nelle maquilladores messicane, ma quando erano iniziati i primi scioperi avevano chiuso, dalla notte al mattino, i laboratori e si erano spostati chi in Brasile, chi in Thailandia, ma soprattuto in India e Cina. 

Per quanto riguarda il software, invece, lo spostamento di parti del processo produttivo per il software o alcuni centri di ricerca e sviluppo, ad esempio, si sono spostati in India, Cina, Russia o Europa sin dalla crisi della new economy nel 2001. Ed è forse per questo motivo che i licenziati di quel periodo non sono mai più stati riassunti. Se poi si consulta il sito Internet della Freelancers Union (www.freelancersunion.org) e si arriva al blog dove i «lavoratori della conoscenza indipendenti» raccontano le loro esperienze, i messaggi che segnalano come i compensi siano costantemente diminuiti dal 2001, la sensazione che la crisi non colpisce solo l’occupazione ma anche i livelli dei salari e di reddito. 

Ma la crisi non colpisce solo gli Stati Uniti, ma anche il vecchio continente. In particolare i paesi che hanno puntato molto sull’innovazione tecnologica e sullo sviluppo di settori high-tech devono fare i conti con imprese che licenziano, con un effetto a cascato in tutte la filiera del settore produttivo. 

Ne sa qualche cosa la Finalandia della Nokia, impresa leader nella telefonia cellulare, che annuncia il «congelamento delle assunzioni», mentre gli altri nodi di questa impresa a rete non hanno il problema di immagine della «casa madre» e licenzia senza troppe remore. 

E se si legge l’ultimo rapporto italiano di Assimform (l’associazione delle imprese informatiche) i dati parlano chiaro: il mercato informatico è in crisi. In Italia si vende meno e meno sono le commesse statali, che hanno costituito il più grande datore di lavoro per i lavoratori della conoscenza, sia nella forma di committenza a piccole e medie imprese sia nella forma delle consulenze richieste a lavoratori autonomi di seconda generazione. Certo Assinform chiude il suo rapporto sostenendo che l’attuale recessione può essere una chance per innovare la pubblica amministrazione. Ma per il momento quella di Assinform è solo una speranza. 

E speranza che la crisi possa facilitare la loro espansione è anche quella dei produttori di software open source. Come ha recentemente affermato Jim Whitehurst di Red Hat (l’impresa quotata in borsa che produce una versione del software open sorce Linux), la crisi economica determina una riduzione degli investimenti in innovazione tecnologica. Ma questo, aggiunge sempre il manager, aiuta le imprese open source perché i loro prodotti costano molto meno di quelli sottoposti al regime della proprietà intellettuale. 

Pochi i dati che invece vengono dalla Cina e dall’India per quanto riguarda le industrie dell’informatica e delle telecomunicazioni. Ma non è irrealistico prevedere che il futuro si preannuncia meno roseo del previsto per i due paesi che sono diventati il «retroterra produttivo» per molte imprese che mantengono aperti solo i centro di ricerca e sviluppo e di coordinamento del processo produttivo e finanziario negli Stati Uniti o in Europa, decentrando tutto il resto per ridurre il costo del lavoro. 

La crisi è dunque mondiale. E come ha affermato John Chambers, il super manager di Cisco, nessuno è indenne, che siamo solo all’inizio e che le cose andranno sempre peggio. 

Per il momento è tuttavia impossibile fare previsioni se ci saranno licenziamenti di massa come sta accadendo per Google. Chi non dorme sonni tranquilli sono ad esempio i dipendenti di Yahoo!, una delle imprese simbolo della net-economy. Uno dei suoi fondatori nonché amministratore delegato Jerry Yang si è recentemente dimesso e il futuro è sempre nero per Yahoo!, che già all’inizio del 2008 aveva licenziato 1200 dipendenti, il dieci per cento della forza-lavoro totale. 

Ma una delle cose certe è che la crisi diventerà una spinta per una ristrutturazione complessiva del settore. Da una parte si accentuerà la concentrazione oligopolistica. Dall’altra, potremmo assistere all’emergere di altri protagonisti, che magari parleranno indiano o cinese a patto però che riusciranno a sviluppare prodotti innovativi e maggiormente aderenti allo «spirito» del cosiddetto web 2.0. 

Ma se le fusioni o l’emergere di innovative imprese appartengono alle strategie del capitale, diverso è se si guarda a questa crisi dal punto di vista della cooperazione sociale e produttiva. In questo caso, la crisi si sta configurando come una distruzione di sapere, conoscenza, cioè di quella materia prima così rilevante nel capitalismo cognitivo. Inoltre, dentro e fuori lo schermo quella stessa cooperazione produttiva deve vedersela con i tentativi di normalizzare i comportamenti tanto della forza-lavoro che di quella figura indistinta, ma tuttavia rilevante che è il prosumer, cioè il consumatore che attraverso l’uso delle tecnologie digitali e del software che le fa funzionare segnala tanto gli errori che le possibilità di migliorarle. In questo caso, la normalizzazione passa attraverso una legislazione sempre più restrittiva delle norme istituzionali sulla proprietà intellettuale. 

La crisi può comunque essere sfruttata dalla cooperazione sociale e produttiva. In primo luogo, perché l’attuale recessione non significa che il capitalismo ritornerà al passato. 

Il sapere, il linguaggio e la capacità di sviluppare cooperazione attraverso la condivisione della conoscenza continueranno ad essere le caratteristiche del capitalismo contemporaneo. Il problema è come la forza-lavoro avvierà processi di autovalorizzazione. 

Da questo punti di vista la richiesta di reddito di cittadinanza potrà uscire dal sottosuolo dell’esoterismo e presentarsi come una parola d’ordine politica per la forza-lavoro en general. 

Allo stesso tempo la richiesta di spostare risorse nella produzione di conoscenza, e dunque a favore della scuola e dell’università, ha più chances di stabilire inedite alleanza tra forza-lavoro salariata e lavoratori autonomi di seconda generazione. 

In altri termini, la crisi va assunta come un terreno di conflitto per il consolidamento di forme di vita già dispiegate. In una foto che circola su Internet, c’è un uomo che porta un cartello dove c’è scritto: «scrivo codice in Html per mangiare». Ha il volto scavato, lo sguardo velato da rabbia e frustrazione. E’ il classico lavoratore della conoscenza, che non indossa giacca e cravatta, ma che vesto casual. E’ il lavoratore della conoscenza che che può tuttavia rompere la tela che lo ha reso «uno schiavo della rete». 

Nell’inverno del nostro scontento possiamo mettere in movimento energie, cooperazione, reti sociali e politiche per entrare nella primavera della nostra liberazione. Perché nella crisi massimo è il pericolo, ma massime sono anche le chances per prendere congedo dalla società del lavoro salariato.
  
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