[Internazionale] INDIA: Il governo scatena la guerra

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Mon Nov 2 13:39:51 CET 2009


Il governo indiano ha dispiegato 100.000 militari in aggiunta alle attuali
forze paramilitari e di polizia nelle parti dell’India centrale, compreso
Chhattisgarh, Orissa e Jharkhand, Maharashtra, Lalgarh -.l’area Jungalmahal
del Bengala – una vasta area abitata principalmente da popolazioni tribali.
Le forze vengono ritirate dal Jammu e Kashmir e dal Nordest per unirle ai
battaglioni di CRPF, ITBP, CoBRA e BSF. Si parla anche di portare il
Rashtriya Rifles – una forza paramilitare che è direttamente guidata
dall’esercito indiano creata in particolare per il lavoro
controinsurrezionale famigerato nel Kashmir e nel Nordest nei decenni
passati, e l’acquisto di bombe di ogni tipo e nuove armi sofisticate.
La forza aerea è già stata dispiegata e una operazione aerea su larga scala
sta per iniziare.

Rigiriamo un appello/analisi delle forze democratiche che si battono per
fermare questo attacco.
***


Lettera Aperta al Governo Indiano sull’Offensiva Militare nel Centro India
Dr. Manmohan Singh
Primo Ministro, Governo dell’India,
South Block, Raisina Hill,
New Delhi, India-110 011

Esprimiamo profonda preoccupazione di fronte all’annunciata decisione del
Governo indiano di
sferrare un’offensiva militare senza precedenti nelle regioni abitate dalle
popolazioni adivasi
(indigene) negli stati dell’Andhra Pradesh, Chattisgarh, Jharkhand,
Maharashtra, Orissa e West
Bengala. L’obiettivo dichiarato di questa offensiva è “liberare” queste aree
dall’influenza dei
ribelli Maoisti. Una simile campagna militare avrà effetti devastanti per la
vita e la
sopravvivenza dei milioni di poverissimi che vivono in quelle aree: non è
difficile prevedere i
massicci sfollamenti, il peggiorare della miseria, la violazioni dei più
elementari diritti umani.
L’idea di attaccare i settori più poveri della popolazione indiana non può
essere giustificata
dalla necessità di domare una ribellione che ha radici oggettive. Le
campagne già sferrate dalle
varie formazioni paramilitare presenti da tempo su quei territori,
finanziate, in alcuni casi
organizzate da agenti del Governo indiano, hanno già creato una vera e
propria guerra civile in
alcune aree del Chattsgarh e del West Bengala, con parecchie centinaia di
morti e migliaia e
migliaia di sfollati. L’offensiva armata che è stata proposta avrà il solo
effetto di estendere una
simile emergenza ad un’area ancora più estesa, aggravando ancora di più le
condizioni di
povertà, di fame, di umiliazione e di insicurezza delle popolazioni adivasi.
Le condizioni di povertà in cui queste popolazioni vivono da sempre si sono
ulteriormente
aggravate negli ultimi 15 anni, in coincidenza con la progressiva adesione
del governo indiano
alle politiche neo liberiste. Il loro già modesto accesso alle foreste, alle
terre, ai fiumi, alle aree
di pascolo, alle fonti d’acqua e ad ogni altra risorsa di collettivo
utilizzo è diventato l’oggetto di
un attacco sempre più pesante da parte dello Stato Indiano che ha preso la
forma e lo statuto
di Zone Economiche Speciali (SEZ) ed altri progetti di “sviluppo” nel
settore soprattutto
minerario. Non è un caso che il sottosuolo di quelle stesse aree che saranno
il target
dell’offensiva militare del governo, sia ricchissimo di materie prime, oltre
che di foreste e di
acqua. Tutte risorse che fanno gola a parecchie multinazionali. La disperata
resistenza delle
popolazioni indigene locali contro i ripetuti tentativi di forzata
evacuazione ed espropriazione è
riuscita in più di un caso a difendere queste territori dai tentativi di
appropriazione da parte
delle Corporations. L’inquietante impressione è che dietro questa offensiva
del governo contro
una simile resistenza da parte delle popolazioni, ci sia il disegno di
facilitare l’ingresso e
l’operatività di queste Corporations con il progetto di sfruttare senza
ritegno le risorse naturali
che assicurano la sopravvivenza di questa popolazioni. All’origine della
protesta sociale c’è in
realtà una crescente disuguaglianza e una quantità di problemi irrisolti,
aggravati da una
continua violenza di stato, da una crescente repressione come unica risposta
alla resistenza
non-violenta di popolazioni letteralmente senza difese dinnanzi a uno
sviluppo che in effetti
non garantisce altro futuro che quello dell’emarginazione e
dell’espropriazione. Invece di
andare alle radici del problema, lo stato Indiano ha deciso di lanciare
un’offensiva militare per
annientare il problema: uccidere i poveri invece della povertà, è
l’implicito slogan di una simile
iniziativa.
Noi riteniamo che questo tentativo di soggiogare militarmente la propria
stessa gente senza
neppure analizzare le radici del conflitto, sarebbe un grave colpo per la
Democrazia indiana.
Anche provando a credere che una simile operazione possa avere successo
(cosa di cui
dubitiamo, ritenendo invece che avrebbe il solo effetto di allargare ancor
più l’area della lotta
armata) possiamo essere certi della miseria in cui precipiterà la massa di
gente comune, come
si é visto in numerose situazioni simili in tutto il mondo.
Chiediamo al governo Indiano di fermare immediatamente una simile iniziativa
e di ritirare le
forze militari già destinate alle aree tribali del Centro India.
Un’iniziativa che avrebbe il solo
effetto di innescare una vera e propria guerra civile e aggravare la già
enorme miseria in cui
versano i settori più poveri e vulnerabili della popolazione Indiana, oltre
a creare le condizioni
di libero saccheggio delle loro risorse da parte dl settore corporativo.
Chiediamo a tutti voi di unirvi al nostro appello.

***
Le ragioni del conflitto
Come è stato ampiamente riportato dalla stampa indiana in queste ultime
settimane il
governo Indiano sta progettando un’offensiva militare senza precedenti nelle
zone
infestate da non meglio identificate formazioni maoiste. Un’offensiva che
prevede
l’utilizzo anche dell’esercito e dell’aviazione, in rinforzo alle forze
paramilitari e alle unità
speciali già da tempo impegnate nelle aree più densamente coperte di foreste
degli stati
dell’Andhra Pradesh, Chhattisgarh, Jharkhand, West Bengala e Maharashtra,
prevalentemente abitate dalle popolazioni adivasi (indigene) dell’India.
Per meglio comprendere le ragioni di una simile offensiva (progettata sembra
con la
‘consulenza’ di alcune agenzie americane specializzate sul fronte
contro-insurrezionale!)
è necessario comprendere il complesso retroscena economico, sociale e
politico del
conflitto. In particolare, sono tre le dimensioni della crisi che vorremmo
sottolineare,
perché spesso dimenticate: (a) il fallimento del progetto di sviluppo da
parte dello stato
Indiano post-coloniale (b) le condizioni di crescente ed esacerbata violenza
subite dai
settori più poveri e marginalizzati, e (c) il massiccio assalto alle magre
risorse delle
popolazioni contadine e tribali, ripetutamente perpetrato in nome dello
“sviluppo”.
Ma sarebbe anche utile ricordare che i contenuti di questo documento non
sono affatto
una novità per le autorità indiane, che anzi avrebbe avuto l’opportunità di
venirne a
conoscenza per tempo, se nell’Aprile del 2008 avesse letto con attenzione il
Rapporto del
Gruppo di Esperti delegato dalla Commissione di Pianificazione del Governo
Indiano per
studiare “le sfide dello sviluppo nelle aree colpite dell’estremismo”. Alla
guida di tale
gruppo c’era il funzionario (ora in pensione) D. Bandopadhyay.
Lo Stato Indiano post-coloniale, sia nella fase iniziale sotto la guida di
Nehru che in quella
più recente neoliberale, ha fallito miseramente nel progetto di risolvere i
problemi delle
popolazioni che vivono nelle aree più remote del paese. Povertà, occupazione
a livelli
minimi di sussistenza, sicurezza abitativa, assistenza medica, educazione,
disuguaglianza, discriminazione sociale: questi problemi non hanno trovato
alcuna
soluzione, e si sono persino aggravati. Il totale fallimento della strategia
di sviluppo dello
Stato post-coloniale indiano sta dunque alla base dell’attuale conflitto.
Sarebbe bene ricordare alcuni dati ben noti, sebbene spesso dimenticati:
- il consumo giornaliero pro-capite del 77 % della popolazione Indiana nel
biennio
2004-05 era inferiore a RS 20 (meno del 50% del tasso di cambio tra la Rupia
e il
dollaro americano e dunque equivalente a circa $2 in termini di potere
d’acquisto);
- secondo l’ultimo Censimento disponibile (2001), solo il 42 % delle
abitazioni
indiane ha accesso all’elettricità; ma l’80% di esse (il che significa non
meno di 800
milioni di persone) non ha accesso all’acqua potabile.
- in materia di salario e lavoro: il 93 % della forza lavoro, ovvero la
schiacciante
maggioranza dei lavoratori in India, sono definiti “prestatori d’opera
informali”
dalla stessa NCEUS (Commissione Nazionale per le Imprese del Settore
cosiddetto
Unorganised, ovvero atipico), il che significa che lavorano senza alcuna
sicurezza
salariale, sociale, sanitaria. Tra loro il 58 % lavora nel settore agricolo.
Il resto è
occupato nel settore manifatturiero e nei servizi con salari regolarmente
inferiori al
minimo garantito nazionale (di Rs 70, ovvero 1 Euro al giorno). Le
condizioni di
lavoro sono pesantissime, e lungi dal permettere una qualche via d’uscita
dalla più
abietta povertà, finiscono per essere una garanzia di crescente miseria,
come la
stessa NCEUS ha appurato nel corso degli ultimi 15 anni: il numero di coloro
definiti
“più poveri e vulnerabili” che nel bienno 1999-00 era di 811 milioni è
cresciuto nel
2004-05 a 836 milioni.
La maggioranza di questi lavoratori sono occupati nel settore agricolo, ed è
evidente che una così grande e crescente sacca di povertà deriva dalla
stagnazione economica in cui versa tale settore. Ma tale stagnazione deriva
anche
dal fatto che lo Stato Indiano non ha mai seriamente intrapreso una riforma
agraria
degna di questo nome - e dal fatto che la distribuzione della terra è sempre
rimasta molto diseguale. Il 60 % degli insediamenti in area rurale non
possiede
neppure un pezzetto di terra coltivabile ed è quindi costretto a lavorare
(in
condizioni di massimo svantaggio) la terra altrui. L’estrema vulnerabilità
economica e la disperazione nelle fasce più marginali di piccoli contadini è
la causa
dell’impressionante ondata di suicidi che sta sempre più caratterizzando il
presente delle nostre campagne: tra il 1997 e il 2007, si cono verificati
182.936
casi di suicidio tra i contadini.
Questo dunque è il sommario inquadramento del conflitto in corso a livello
socioeconomico.
Tuttavia ci sono due settori della popolazione all’interno di questo
immenso scenario di miseria, che soffrono in modo particolare: le cosiddette
Scheduled Caste (SC) e Scheduled Tribes (ST).
Rispetto a tutti gli indicatori di benessere sociale, questi due settori
stanno in assoluto
peggio: i tassi di povertà sono i più alti, il non possesso della terra è la
norma, i tassi
di mortalità sono i più alti, i livelli di educazione formale sono i più
bassi, e così via.
Per mettere meglio a fuoco la portata di questo differenziale in termini di
svantaggio
sociale ed economico è necessario considerare il secondo e non meno
importante
aspetto dell’attuale conflitto: quello della violenza.
Una violenza che definiremmo strutturale nella sua duplice dimensione di
fondo:
- la prima è quella dell’oppressione, dell’umiliazione e discriminazione per
così dire
‘tradizionale’, derivante da considerazioni di casta e etnicità;
- la seconda è l’esperienza di persecuzione, aggressione e tortura che
questi settori
di popolazione (schedati come SC e ST) subiscono sempre più regolarmente da
parte delle forze di polizia che rappresentano lo Stato.
Per questi settori di popolazione, la violenza della povertà e della fame,
di condizioni di
vita sempre più ridotte ai minimi termini, è stata dunque aggravata dalla
violenza che
viene loro inflitta ogni giorno. All’esperienza di discriminazione,
umiliazione, oppressione
sociale derivante dal sistema delle caste, si aggiunge così quella derivante
dai
comportamenti che la polizia e le varie agenzie delegate dallo Stato
all’ordine pubblico,
liberamente adottano nelle aree popolate dalle popolazioni SC and ST:
costantemente
aggredite, malmenate, ripetutamente arrestate e una volta in carcere
nuovamente
malmenate o torturate, per il minimo pretesto.
Agli occhi di queste popolazioni marginalizzate, lo Stato viene dunque
percepito non solo
come assente sul fronte dello sviluppo economico e sociale, ma come diretto
agente di
repressione e sfruttamento. Bisogna infine ricordare che benché quantificata
nell’ordine
di un quarto del totale della popolazione dell’India, la somma combinata di
SC e ST
rappresenta la maggioranza nelle aree in cui il governo India sta
progettando di sferrare
la sua offensiva militare contro i cosiddetti ribelli Maoisti.
Il sommario background sociale appena delineato in relazione all’attuale
conflitto, ci
permette di mettere a fuoco la terza dimensione del problema: l’attacco
senza precedenti
che queste popolazioni marginalizzate subiscono sul fronte dell’accesso a
quelle risorse
che fino a ieri potevano considerare ‘beni comuni’. Risorse di base che fino
a poco tempo
fa non sembravano interessare granché il ‘mercato’, sono diventate oggetto
di usuale
saccheggio dal parte dello Stato e ciò ha determinato l’ulteriore
impoverimento di quegli
strati di popolazione che da esse dipendevano.
La svolta neoliberista che lo Stato indiano ha intrapreso dalla metà degli
anni ’80, ha
dunque aggravato le condizioni di vulnerabilità economica di quegli strati
di popolazione
già storicamente emarginati. Per quanto ridotto fosse l’accesso che i
contadini poveri, gli
indigeni, i fuori casta, potevano avere un tempo alle loro foreste, terre,
aree comuni di
pascolo, riserve di acqua e altre risorse di proprietà condivisa in modo
comunitario dai
villaggi, in modo da attenuare il degrado verso livelli sempre più minimi di
povertà, essa
è risultata sempre più irrisolvibile per effetto delle scelte che lo stato
Indiano ha
intrapreso in nome del cosiddetto sviluppo: in particolare le SEZ (Zone
Economiche
Speciali) e altri progetti di “sviluppo” industriale, soprattutto nel
settore minerario, o
dell’IT. Ignorando completamente la protesta delle popolazioni più
direttamente affette, e
i numerosi moniti provenienti dal mondo accademico, lo Stato Indiano è
andato avanti
nell’attuazione di 531 SEZ.
Vengono definite SEZ quelle aree in cui qualsiasi legislazione esistente in
materia di
occupazione o fiscale risulta ulteriormente indebolita, se non totalmente
annullata, in
modo da “attrarre” quegli investimenti esteri, o anche locali, interessati
al massimo
profitto con il minimo di “complicazioni”. Ogni SEZ richiederà per
definizione un tratto di
terra il più possibile ampio e compatto, e ciò comporta la cessione (ovvero
perdita) di
quelle stesse terre e della sussistenza che ne deriva, da parte dei
contadini.
Non ci risulta che sia stata effettuata una seria valutazione del rapporto
costi/benefici
derivante da queste SEZ. Il governo indiano però non sembra avere dubbi
circa i loro
benefici: che in termini di occupazione e di maggior reddito, potranno
ampiamente
compensare la perdita derivante dal minor gettito fiscale sommato alla
perdita delle
minime condizioni di sussistenza (e quindi alla produzione di maggiore
povertà) connesso
con questo massiccio attacco alla terra.
Tuttavia l’opposizione all’acquisizione di queste terre da destinare alle
SEZ e progetti
simili ha assunto nel corso degli anni una dimensione preoccupante. Walter
Fernandes
(Direttore dell’North Eastern Social Research Centre) ha approfonditamente
studiato il
fenomeno dello sfollamento derivante da progetti di sviluppo nell’India post
coloniale.
Nella sua stima il ‘costo sociale’ di questo processo tra il 1947 e il 2004
riguarda non
meno di 60 milioni di persone per complessivi 25 milioni di ettari di
territorio, 7 milioni dei
quali sono patrimonio forestale e altri 6 milioni dovrebbero considerarsi
“protetti” dai
diritti ancestrali di usufrutto collettivo. Quanti di questi sfollati sono
riusciti a reintegrarsi?
Solo uno su tre. E perciò comprensibile la riluttanza delle popolazioni di
fronte alle
promesse del Governo, che chiede loro di andarsene dalle terre in cui
vivono.
Esaminiamo ora che cosa è successo agli strati abbienti della popolazione
indiana
durante questo periodo di crescente emergenza per gli strati più poveri.
Mentre questi
ultimi hanno visto precipitare le loro già magre entrate e potere d’acquisto
a livelli
insostenibili, gli strati più abbienti hanno raggiunto rapidissimamente
livelli di
arricchimento inimmaginabili, da quando è iniziato il processo di
liberalizzazione
dell’economia Indiana. Le più recenti ricerche hanno dimostrato con assoluta
evidenza
che la forbice della diseguaglianza è cresciuta con ritmi esponenziali dalla
metà del 1980.
Un’analisi sommaria di questa crescente diseguaglianza non potrà non
evidenziare due
dati indiscutibili:
(a) nel biennio 2004-05, il 77 % della popolazione aveva a disposizione Rs.
20 al giorno
per i propri consumi quotidiani;
(b) nel 2007 la popolazione indiana che già da tempo aveva superato il
miliardo di
persone, è cresciuta del 22.6 % rispetto all’anno precedente (cfr. Rapporto
Annuale sulla
ricchezza mondiale pubblicato da Merrill Lynch e Capgemini nel 2008). Nessun
altro
paese del mondo presentava un simile incremento di popolazione.
Ecco dunque spiegate le radici dell’attuale rabbia sociale, disperazione,
ansietà. Secondo
il Gruppo di Esperti della Commissione di Pianificazione esse sono l’ovvio
risultato del
disastro dello sviluppo dello Stato Indiano: dei crescenti livelli di
disparità e dei continui
problemi di impoverimento sociale e violenza strutturale: oltre al fatto che
invece di
aumentare, l’accesso alle risorse di uso comune si restringe.
Nella maggioranza dei casi le popolazioni colpite cercano di esprimere il
loro disagio con
proteste di tipo pacifico: con marce, sit in, dimostrazioni, petizioni
inviate alle autorità. La
risposta dello Stato è sempre la stessa: di repressione anche nei casi di
protesta pacifica.
Le forze dell’ordine fanno a gara con le milizie private nell’uso della
forza, o nell’uso della
detenzione per reati mai commessi, o nel ricorso al tiro al piccione per
terrorizzare la
gente. Ricordiamo i casi di Singur, Nandigram, Kalinganagar e una seria
infinita di tanti
altri, in cui le forme di protesta pacifiche e democratiche sono state
schiacciate dallo
Stato con inaudita violenza. Ma questo tipo di azione da parte dello Stato
ha la sua quota
di responsabilità. La soppressione di ogni forma di protesta democratica con
la violenza,
innesca la violenza da parte delle masse dei poveri, che espropriati di ogni
mezzo (di
sostentamento e di espressione) non possono che optare per la resistenza
armata, per
difendere i loro diritti - come ha più volte messo in guardia la scrittrice
e attivista sociale
Arundhati Roy.
L’offensiva militare proposta dal governo Indiano non potrà che riproporre
questo
scenario in modo ancor più drammatico. Invece di andare alle radici del
conflitto, invece
di affrontare la reale e terribile sofferenza dei settori più marginalizzati
della popolazione
nella triplice dimensione problematica che abbiamo delineato, lo stato
Indiano sta per
scegliere l’opzione più miope di tutte: quella dell’intervento militare.
E’ necessario a questo punto ricordare che a livello geologico, i
territori-target di questa
offensiva, sono anche quelli più ricchi di risorse naturali: risorse
minerarie, forestali, in
termini di biodiversità e acque. Risorse che da tempo sono oggetto della
cupidigia di
numerose corporations, sia Indiane che straniere.
Fino ad ora la resistenza delle popolazioni indigene che si sono opposte a
questo
massiccio progetto di sfollamento ed espropriazione, ha impedito a molti di
questi
interessi corporativi direttamente sostenuti dal governo, di sfruttare
queste risorse per
obiettivi di mero profitto, totalmente privi di qualsiasi preoccupazione sul
fronte
ambientale e sociale. Il nostro timore è che questa offensiva da parte del
governo sia
anche un tentativo di sopprimere ogni forma di resistenza popolare e
democratica,
proprio perchè si oppone a questo processo di espropriazione e
impoverimento. In effetti
l’iniziativa sembra più che altro motivata dalla decisione di rendere
finalmente possibile
l’ingresso in questi territori, a tutte quelle corporations che fino ad ora,
pur forti dei vari
Protocolli d’intesa sottoscritti con i governi locali, avevano dovuto fare i
conti con la
resistenza dei villaggi. Temiamo insomma che il vero obiettivo di questa
offensiva sia
sgombrare il terreno a tutto ciò che si oppone allo sfruttamento (ovvero
saccheggio) di
queste aree. Ma questo significherà purtroppo anche l’estinzione delle
popolazioni
indigene che da tempo immemorabile abitano questi territori e ne sono i
custodi. 
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