[Ezln-it] articolo su un incontro con i prigionieri politici del Chiapas

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Sat Jan 22 18:07:06 UTC 2011


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 "La lucha es como un circulo. Se puede empezar en cualquier punto, pero 
 nunca termina."
 (Viejo Antonio)


 Sono emozionati il profe Patishtan, Rosario, Alfredo e gli altri membri 
 de La Voz del Amate mentre guardano con ferma ammirazione la kefiah del 
 popolo palestinese omaggiata loro da un’attivista che appoggia il 
 Coordinamento dei Comitati Popolari della Palestina. Stringendola forte 
 nelle mani, chiedono come la indossano “quelli dell’Intifada 
 palestinese”. E, con un gesto che rompe argini e confini, 
 contraccambiano il regalo togliendosi i cappellini autoprodotti con 
 scritto "CHE" e "EZLN" che destineranno a Abdallah Abu Rahma, militante 
 palestinese, ed a Jonathan Pollak, anarchico israeliano, entrambi 
 detenuti nelle carceri israeliane per aver combattuto il regime 
 sionista.

 La Voz del Amate è un collettivo politico che nasce nel 2006 
 all’interno del carcere del Amate, appunto, e che aderisce alla Sesta 
 Dichiarazione della Selva Lacandona e all’Atra Campagna dell’EZLN. Da 
 subito comincia a lottare a difesa dei diritti degli indigeni 
 incarcerati, diventando "la voce dei senza voce che si presta a dire la 
 verità". Si organizzano direttamente all’interno delle carceri, adesso 
 nel Cereso nro 5 Los Llanos di San Cristobal, facendo autoformazione, 
 corsi, controinformazione e creando gli strumenti teorici e spirituali 
 per la liberazione e per la difesa dei prigionieri politici indigeni. Il 
 fondatore del gruppo è il profe Alberto Patishtan, maestro indigeno 
 tzotzil originario della comunità El Bosque, condannato a 60 anni di 
 prigione per omicidio di 6 poliziotti. Lui è stato l’unico prigioniero 
 della Voz del Amate a non essere stato rimesso in libertà dopo i 41 
 giorni di sciopero della fame nel 2008, una lotta accompagnata da una 
 vasta mobilitazione sociale ha permesso la scarcerazione di 12 membri de 
 La Voz del Amate e di un centinaio di altri detenuti. “Ci vogliono zitti 
 e isolati, incapaci di organizzarci e di far valere i nostri diritti. Ma 
 qui dentro impariamo a camminare e da qui parte – meglio riparte – una 
 nuova lotta per la nostra liberazione. Sappiamo che non siamo soli e noi 
 non ci arrenderemo!” afferma Alberto.

 La lunga giornata al carcere comincia il mattino presto con l’acquisto 
 di tamales, panetti di mais cotti al vapore, da portare a los presos 
 politicos della Voz del Amate (grazie al contatto consolidato dal lavoro 
 cominciato mesi fa dal Gruppo "No estamos tod*s") per l’incontro 
 organizzato da Nodo Solidale di Roma, Nomads Bologna e Collettivo 
 Zapatista di Lugano, con l’ulteriore presenza di una attivista che vive 
 in Palestina e di una compagna francese del Comitè Chiapas di Parigi, 
 per condividere e diffondere lotte, resistenze, sogni e dignità.

 Una giornata intensa di ammiccamenti e tenerezze, di volti, gesti e 
 sorrisi che scardinano la durezza del carcere, accarezzandosi con 
 speranze e determinazioni che, forse, troppo spesso fuori dimentichiamo.

 Gli occhi si fanno attenti quando la compagna palestinese narra di un 
 popolo occupato e segregato, dei circa 6000 prigionieri politici 
 palestinesi, delle loro lotte, della loro capacità di creare legami e 
 forze comuni, della determinazione nello spezzare da dentro le 
 differenze fra le organizzazioni che neppure quelli fuori sono in grado 
 di scavalcare. L’interesse diventa fiamma viva nel sapere come si 
 organizzano questi “palestinesi”, come lottano, come sopravvivono. E non 
 solo in Palestina, perché anche in Europa – vogliamo far sapere - sono 
 troppi quelli che sono incarcerati unicamente per avere un colore di 
 pelle differente, per il fatto di venire da altri paesi e da altre 
 culture. Così come ora accade nei centri di detenzione per migranti 
 nella Francia della libertè, ègalitè et fraternitè e nell’Italia della 
 lunga storia migrante. Ma anche in Europa, come in Chiapas e in 
 Palestina avvengono le rivolte, come nel caso di Vincennes in Francia 
 quando il centro di detenzione venne totalmente bruciato dall’interno e 
 come nel caso delle decine di ribellioni e devastazioni che avvengono 
 nei CIE italiani.

 “Siendo el 5 de noviembre del ano 2010, diez para la siete de la mañana 
 me declaro en huelga de hambre”. Comincia con queste parole e un 
 cartello affisso alle sbarre della propria cella lo sciopero della fame 
 durato 31 giorni di Alfredo Lopez Jimenez, prigioniero politico dei 
 Solidarios de La Voz del Amate. Alfredo, portavoce di una protesta che 
 rivendica una migliore qualità del cibo, immangiabile e sempre scaduto, 
 viene dapprima minacciato e poi buttato in una cella di punizione. 
 Racconta che in quel momento non vede altra soluzione che mettersi in 
 "huelga de hambre". Uno sciopero portato avanti al principio da solo, 
 poi si aggiungono altri tre detenuti in digiuno solidale. Quando i 
 secondini partono per i pestaggi punitivi contro i ribelli, insorge 
 tutta la popolazione del carcere di Tonalà. Anche se picchiati 
 selvaggiamente, Alfredo e i suoi compagni, ottengono il trasferimento a 
 Los Llanos, dove si ricongiungono al grosso del collettivo La Voz del 
 Amate. E, secchi e malconci, dimostrano che una lotta si porta avanti 
 anche fino alle estreme conseguenze.

 Sono prevalentemente indigeni, poveri ed innocenti la maggior parte dei 
 detenuti in Chiapas. Troppo spesso indicati come capro espiatorio per 
 risolvere delitti, omicidi, sequestri e traffici rimasti senza 
 colpevoli, coloro che andranno a scontare lunghe pene di detenzione per 
 reati non commessi, vivono nella povertà estrema. Improvvisamente la 
 loro vita cambia e spesso senza avvocati, senza conoscere bene la lingua 
 spagnola e i loro diritti, si ritrovano in carcere senza neppure capire 
 il perché. Pedro Lopez Jimenez, racconta che dopo l'arresto l'hanno 
 torturato: sacco di plastica in testa, sommergibile (testa infilata in 
 un secchio d'acqua) ed infine scosse elettriche sui testicoli, la 
 picana. Tutto ciò affinché confessasse un sequestro. Pedro, ricorda, che 
 non sapeva che significasse "sequestro" in spagnolo, l'unica cosa che 
 sapeva era che lui non aveva fatto niente. Adesso deve scontare 37 anni 
 per quello stupro e quel sequestro confessati a scariche elettriche.

 Nello stesso caso, sono rimasti incarcerati Alfredo, la sua sposa Rosa 
 (e il loro pargoletto di due anni, concepito in carcere) e un altro 
 cugino, adesso trasferito a Motozintla, insieme ad un altro solidario de 
 La Voz del Amate, nel tentativo dell’autorità di frammentare il gruppo.

 Di fatto si tratta di una forma estrema di colonialismo subita ancora 
 una volta dai popoli indigeni per il solo fatto di essere tali e di non 
 avere risorse economiche con cui pagare la scarcerazione al corrotto 
 apparato giudiziario messicano. Ironia della sorte o paradosso del 
 sistema, vuole che sarà poi il carcere a trasformare le coscienze, 
 diventando un vero e proprio laboratorio di formazione politica che 
 permetterà a uomini e donne senza speranze di crescere, educarsi e 
 conoscere il senso profondo della lotta e della resistenza.

 Il profe Patishtan ne diventa un po’ il simbolo riconosciuto, capace 
 d’infondere speranza, dignità, rabbia. E pazienza, quella storicamente 
 conosciuta dai popoli originari che da più di 500 anni vivono sotto il 
 razzismo e i soprusi costanti della Conquista. La stessa pazienza che 
 permette loro di organizzarsi, di aspettare senza fretta, di saper, 
 ancora una volta ingoiare, per poi colpire ancora più forte, là dove 
 ancora più duole, dove il potere non se lo aspetta. Come dimostrò 
 l'insurrezione armata zapatista, diciassette anni fa.

 “C’è molta gente che guarda ma non vede, c’è molta gente che sente ma 
 non ascolta. Noi qui impariamo a vedere e ad ascoltare. E a lottare. Per 
 riconoscere da dove vengono lo sfruttamento e l’ingiustizia. La nostra 
 vita diventa una lotta e nella nostra lotta viviamo. Perché l’essenziale 
 è lottare poco importa se fuori o dentro, ma lottare.”

 Le condizioni all’interno del carcere Los Llanos non sono semplici: da 
 10 a 15 detenuti per una cella di tre metri per quattro: 3 file di letti 
 sovrapposti e uno spazio nel cunicolo senza nessuna possibilità di 
 movimento. Carcere sovraffollato (600 persone per 300 posti), quasi 
 nessun accesso al lavoro, cibo costantemente scaduto e di cattiva 
 qualità, con i detenuti che passano la maggior parte del loro tempo 
 costruendo amache, borsette e braccialetti nel grande cortile esterno 
 sotto il sole invernale chiapaneco. Pure La Voz del Amate produce i suoi 
 oggetti artigianali, prodotti cooperativamente e con i cui piccoli 
 guadagni sopravvivono tutti, solidarios compresi.

 Gli affronti nel penitenziario sono quotidiani. Le donne che arrivano 
 per le visite vengono perquisite subendo a volte violenza fisica e 
 maltrattamenti, un'immagine che richiama ai check point in Palestina, 
 finendo troppo spesso in lacrime. “Non una singola lacrima bisogna 
 versare per queste violenze - ci dice con rabbia Alfredo - perché non si 
 meritano neanche una lacrima nostra”. E le lacrime – dure - sono le 
 stesse, ma forse diverse, di quelle che i nipoti di Rosario versano 
 chiedendogli del perché delle sua assenza, del perché preferisce restare 
 là rinchiuso che tornare a casa, lasciando da sola la nonna. Rosario si 
 nutre di questa rabbia, lui che è un indigeno tzotzil condannato a 45 
 anni per l'omicidio di una persona che non ha mai visto.

 E poi le storie forti, tratteggiate con poche parole, di Andres Nuñez, 
 di Alejandro Diaz Santiz, di Josè Diaz Lopez, indigeni catturati nelle 
 montagne della resistenza zapatista, che ci comunicano tutta la loro 
 fermezza più con silenzi e sguardi che con lunghi discorsi. Sguardi e 
 gesti profondi, neri, atavici. L’indignazione per lo scontare pene per 
 delitti mai commessi, da giudici che condannano in una lingua che non 
 conoscono, quella degli invasori.

 In questa giornata d’immensa dignità, dove le regine rimangono comunque 
 pinches reinas, anche se di soli scacchi si tratta – e qui abbiamo modo 
 di verificare come una partita di scacchi sia utile esercizio di 
 strategia - la kefiah offerta diventa il simbolo di resistenza, non più 
 solamente di un popolo, ma di una fratellanza nelle lotte e nella 
 dignità. Una lotta condotta dall’interno che ci porta ancor di più a 
 pensare come le moderne strutture d’isolamento e punizione vadano 
 abbattute giorno dopo giorno, pietra su pietra e muro su muro.

 Dai presos messicani a quelli palestinesi, dai migranti rinchiusi nella 
 frontiera Europa ai nostri compagni sequestrati in Svizzera, a Roma e in 
 Europa per le lotte politiche, prendiamo la forza per immaginare una 
 sola grande ribellione che abbatterà qualsiasi gabbia e frontiera e che, 
 facendosi totale, romperà ogni forma di colonialismo, di povertà e di 
 razzismo.

 Ni un paso atras! Non un passo indietro!


 Nodo Solidale, Collettivo Zapatista di Lugano, Nomads di Xm24





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