[Ezln-it] SupMarcors: Terza Lettera a Luis Villoro 2/3

Annamaria maribel_1994 at yahoo.it
Mon Aug 29 18:15:37 CEST 2011



FORSE...

Terza Lettera a Don Luis Villoro nello
scambio su Etica e Politica


III. Incolpare la vittima.



Uno psicologo nordeamericano, William Ryan, nel 1971 scrisse il libro
“Incolpare la vittima” (“Blaming the Victim”). Nonostante la sua
intenzione iniziale fosse una critica al cosiddetto “Rapporto Moynihan” che
attribuiva la responsabilità della povertà della popolazione nera degli Stati
Uniti alle condotte ed ai modelli culturali e non alla struttura sociale, quest’idea
è stata applicata principalmente a casi di sessismo e razzismo (più
frequentemente nei casi di violenza sessuale, dove si accusa la donna di aver “provocato”
il violentatore con l'abbigliamento, l'atteggiamento, il luogo, ecc..).

Anche se detto in altro modo, Theodor Adorno
definì il fatto di “incolpare la vittima” come una delle caratteristiche
specifiche del fascismo.

Nel Messico contemporaneo sono stati alcuni
membri dell'alto clero, autorità governative, artisti e “leader di opinione”
dei mezzi di comunicazione a ricorrere a questa bugia per condannare delle vittime
innocenti (principalmente donne e minorenni).

La guerra di Felipe Calderón Hinojosa ha
trasformato questo tratto fascista in un programma di governo e di applicazione
della giustizia. E non sono pochi i mezzi di comunicazione che l'hanno fatto
proprio, permeando così il pensiero di chi ancora crede a quello che si dice e
si iscrive su stampa, radio e televisione.

Qualcuno, da qualche parte, ha segnalato che
i crimini contro gli innocenti racchiudono una triplice ingiustizia: quella
della morte, quella della colpa e quella dell'oblio.

Il sistema che subiamo si prende cura, conserva
e coltiva il nome e la storia dell'assassino, sia per la sua condanna, sia per
la sua glorificazione.

Ma il nome e la storia delle vittime restano
dietro.

Le vittime vengono uccise un'altra volta quando
sono condannate a diventare un numero, una statistica. Molte volte nemmeno
questo.

Nella guerra che Felipe Calderón Hinojosa ha
imposto alla società intera del Messico, senza distinzione di classe sociale,
razza, credo, genere o ideologia politica, si aggiunge un ulteriore sofferenza:
quella di etichettare le vittime innocenti come criminali.

In questo modo, con lo slogan del
“regolamento di conti tra narcotrafficanti”, si maschera l'impero d’impunità.

E questa pesantissima lapide cade anche su
familiari e amici.

L'ingiustizia imperante non serve solo a garantire
l'impunità a funzionari governativi di ogni tipo, federali, statali e
municipali. Ma opprime anche le famiglie e le amicizie delle vittime.

Ed opprime anche i loro morti quando a
livello sociale si prescinde dal loro nome e dalla loro storia, ed una vita
retta viene deformata dagli appellativi prodigati dalle autorità e ripetuti
fino alla nausea dai mezzi di comunicazione.

Le vittime della guerra diventano allora
colpevoli ed il crimine che li amputa o li uccide altro non è che una forma
quasi divina di giustizia: “se la sono cercata”.

Felipe Calderón Hinojosa sarà ricordato come
un criminale di guerra, non importa se oggi, avvolto nello scapolare, si dà arie
da statista o “salvatore della patria”.

La sua storia sarà ricordata con rancore.

Nemmeno avrà, in mancanza di giustizia, la
beffa e lo scherno popolari che normalmente accompagnano l'uscita dei
mandatari.

Le sue patetiche imitazioni di “guida
turistica”, l'illegalità e l'illegittimità del suo arrivo alla presidenza, i
suoi fallimenti politici, le sue responsabilità nella crisi economica,
l'essersi circondato di una squadra di picchiatori e guardie del corpo
travestiti da funzionari, il nepotismo, il consolidare quello che è ormai noto
come “il cartello di Los Pinos”; tutte le sue figuracce resteranno in secondo
piano.

Rimarrà la sua guerra, persa, con la sua
quota di vittime "collaterali": la sconfitta, il deterioramento e il
discredito irrimediabili delle forze armate federali (i vari telefilm potranno
fare poco o niente per contrastarlo); la consegna della sovranità nazionale
all'impero delle strisce e le torbide stelle (l'abbiamo già detto: gli Stati
Uniti d'America saranno gli unici vincitori di questa guerra); l'annichilimento
delle economie locali e regionali; la distruzione irreparabile del tessuto
sociale; ed il sangue innocente, sempre il sangue innocente…

Può essere che alla morte non ci sia rimedio.

Che niente possa riempire il vuoto di
solitudine e disperazione che lascia la morte di un innocente.  

Può essere che niente di quello che si fa
possa riportare in vita le decine di migliaia di innocenti morti in questa
guerra.

Ma quello che si può fare è lottare contro la
tesi fascista di "incolpare la vittima", e nominare i morti e con
questo recuperare le loro storie.

Liberarli così dalla colpa e dell'oblio.

Alleviare la loro assenza.



IV. Nominare i morti e la
loro storia.



Mariano Anteros Cordero Gutiérrez, era il suo nome. Doveva compiere 20 anni quando,
il 25 giugno 2009 a Chihuahua, Chihuahua, fu assassinato.

Il padre di Mariano, il dott. Mariano Cordero
Burciaga, incontrò l’allora governatore dello Stato di Chihuahua, José Reyes
Baeza, e questi gli disse che l'omicidio era dovuto a scontri di strada.
Qualche settimana dopo gli avvenimenti, il Collegio degli Avvocati dello Stato
chiese chiarimenti sui fatti alle autorità competenti. Queste risposero che di
era trattato di “un regolamento di conti tra narcotrafficanti”. Incolpare la
vittima.

Di seguito, qualche passaggio della sua
storia:

Mariano studiava ingegneria gestionale
all'Istituto Tecnologico di Parral (ITP) ed era stato ammesso all'Università
Autonoma España de Durango, Campus Parral.

Prima di questi studi era stato volontario
presso il Collegio Marista del villaggio di Chinatú, Municipio di Guadalupe y
Calvo, Chihuahua. Era responsabile di 32 bambini indigeni che studiavano nella
primaria del collegio.

Mariano era un giovane zapatista, di quelli
che lottano senza passamontagna. Nel marzo del 2001, insieme al padre,
partecipò come cintura di pace alla Marcia del Colore della Terra. Nel 2002
partecipa alle molte manifestazioni della sfera altromondista a Monterrey,
Nuevo León, in occasione di un vertice di capi di Stato a cui partecipavano
Bush ed anche Fidel Castro. Quando è morto, Mariano conservava nel suo zainetto
che usava quotidianamente la Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, il
Manifesto del Partito Comunista ed il suo ultimo libro da lui acquistato: “Notti di fuoco e insonnie”.

Quando abbiamo percorso il nord del Messico
con L'Altra Campagna, al nostro passo per lo stato di Chihuahua il giovane
Mariano era presente ad una delle riunioni. Alla fine della riunione chiese di
parlare con me privatamente.

La data? 2 novembre del 2006. Alcune
settimane prima, il 17 ottobre di quell'anno, Mariano aveva compiuto 17 anni.

Ci sedemmo nella stessa stanza in cui si era
svolta la riunione. Parola più, parola meno, Mariano mi manifestò il desiderio
di venire a vivere in una comunità zapatista. Voleva imparare.

Mi sorprese la sua semplicità ed umiltà: non
disse che voleva venire ad aiutare, ma ad imparare.

Gli dissi la verità: che la cosa migliore era
che studiasse e si laureasse, perché qua (e là, e da tutte le parti) le persone
d'onore finiscono quello che cominciano; nel frattempo che non smettesse di
lottare lì, nella sua terra, con la sua gente.

Che al termine degli studi, se la pesava
ancora così, avrebbe avuto un posto tra noi, ma al nostro fianco, non come
maestro né come alunno, ma come uno in più di noi.

Chiudemmo il patto con una stretta di mani.

7 anni prima, l'8 maggio 1999, quando Mariano
aveva 9 anni, io gli avevo scritto un messaggio su una pagina di quaderno:

"Mariano: Arriverà il momento, (non
ancora, ma arriverà, è sicuro) in cui sul tuo cammino ne incontrerai altri che
lo attraversano e dovrai sceglierne uno. Quando arriverà questo momento,
guardati dentro e saprai che non ci sono opzioni, che la risposta è una sola:
essere conseguente con quello che si pensa e si dice. Se questo è vero, non
importa la strada né la velocità del passo. Quello che importa è la verità che
questo passo porta con sé”.

Oggi nominiamo Mariano, la sua storia, e da
questa geografia mandiamo alla sua famiglia un abbraccio zapatista fraterno
che, sebbene non guarisca, allevia…



V. Giudicare o tentare di capire?



Anche dalla nostra geografia abbiamo tentato di seguire con attenzione il
passaggio del Movimento per la Pace con Giustizia e Dignità guidato da Javier
Sicilia.

So bene che giudicare e condannare o
assolvere sono la strada preferita dai commissari del pensiero presenti in ogni
lato dello spettro intellettuale, ma pensiamo che bisogna fare uno sforzo per
tentare di capire varie cose:

La prima è che si tratta di una mobilitazione
nuova che, nel suo progetto di costituirsi in movimento organizzato costruisce
le proprie strade, con i propri successi e cadute. Come ogni cosa nuova,
pensiamo che merita rispetto. Loro possono dire, a ragione, che si possono
discutere le forme ed i metodi, ma non le cause.

E merita inoltre attenzione per tentare di
comprendere, invece di esprimere giudizi sommari, tanto cari a chi non tollera
niente che non sia sotto la sua direzione. 


E per rispettare e comprendere bisogna
guardare in alto, ma anche in basso.  

Vero che in alto balzano all'attenzione ed
irritano le moine che ricevono i responsabili diretti di tante morti e
distruzione.

Ma in basso vediamo che, tra familiari e
amici delle vittime, si risveglia speranza, consolazione, unione.

Noi pensavamo che forse era possibile che
nascesse un movimento che fermasse questa guerra assurda. Non sembra che sia
così, o non ancora.

Ma quello che si può apprezzare, fin d'ora, è
che ha reso tangibili le vittime.

Le ha tirate fuori dalla lista nera, dalle
statistiche, dalle fantastiche “vittorie” del governo di Felipe Calderón
Hinojosa, dalla colpa, dall'oblio.

Grazie a questa mobilitazione, le vittime
cominciano ad avere nome e storia. E si sgretola la menzogna della "lotta
al crimine organizzato".

Certo ancora non capiamo il perché si dedichi
tanta energia e lavoro ad interloquire con una classe politica che, da tempo,
ha perso ogni volontà di governo e non è altro che una banda di facinorosi.
Forse lo scopriranno da soli.

Noi non giudichiamo e, pertanto, né
condanniamo né assolviamo. Tentiamo di capire i loro passi e l'anelito che li
anima.

Insomma, il degno dolore che li unisce e
muove merita ed ha il nostro rispetto e ammirazione.

Pensiamo logico dialogare con i responsabili
dei problemi. In questa guerra è ragionevole rivolgersi a chi l'ha scatenata e
la cavalca. Chi critica che si dialoghi con Felipe Calderón Hinojosa dimentica
questo elementare fattore.

Sulle forme che ha preso questo dialogo sono
piovute critiche di ogni tipo.

Non credo che a Javier Sicilia tolgano il
sonno le critiche vili, per esempio, di Paty
Chapoy di La Jornada, Jaime
Avilés (di frivolo e isterico), o le viltà del Dottor ORA (....) a cui manca solo
di dire che Sicilia ha fatto ammazzare suo figlio per “promuovere” l'immagine
di Felipe Calderón Hinojosa; o le critiche di chi gli rimprovera di non essere
radicale, fatte proprio da chi si vanta di “non aver rotto neanche un vetro”.

Nella sua corrispondenza (e mi sembra in
alcuni eventi pubblici), a Javier Sicilia piace ricordare un poema di Kavafis,
in particolare il verso che dice: “Non devi temere né i lestrigoni né i
ciclopi, né la collera dell'adirato Poseidón”. Questi critici isterici non
arrivano neppure lontanamente a questo, ed i patetici rancori di questi
omuncoli non vanno oltre i loro pochi lettori.

In realtà questo movimento sta facendo
qualcosa per le vittime. E questo è qualcosa che nessuno dei suoi “giudici” può
portare a proprio favore.

Per il resto, né Javier Sicilia né alcuni dei
suoi amici disprezzano le osservazioni critiche che ricevono dalla sinistra,
che non sono poche e sono serie e rispettose.

Ma non bisogna dimenticare che sono
osservazioni, non ordini.

Trascrivo il finale di una delle lettere
private che gli abbiamo mandato:

"Personalmente, se me lo permette, le
direi di continuare con la poesia, e l'arte in generale, al suo fianco. In essa
si trovano sostegni più fermi di quelli che sembrano abbondare nel
chiacchiericcio senza senso degli "analisti" politici.

Per questo termino queste righe con le
parole di John Berger:

Non posso dirti quello che l'arte
fa e come lo fa, ma so che spesso l'arte processa i giudici, chiede vendetta
per l'innocente e proietta verso il futuro quello che ha subito il passato, in
modo che non sia mai dimenticato. 

So anche che il potente teme l'arte
in ognuna delle sue forme, ed a volte questa arte passa tra la gente come una
diceria e una leggenda perché dà senso a ciò che la brutalità della vita non riesce
a dare, un senso che ci unifica, perché alla fine è inseparabile dalla
giustizia. L'arte, quando funziona così, diventa il luogo di incontro
dell'invisibile, dell'irriducibile, durevole, il valore e l'onore”. 

Infine, forse tutto questo è irrilevante…





.. segue

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