[Ezln-it] Gianni Proiettis: 'Cuando la vida no vale nada'
Annamaria
maribel_1994 at yahoo.it
Tue Nov 2 17:06:46 CET 2010
POPOCATÉPETL - La lava del Messico
a cura di
Gianni Proiettis
1 novembre 2010
Cuando
la vida no vale nada
Quest’anno in Messico i morti non hanno aspettato il 2 novembre per farsi
vivi: un’impressionante serie di stragi, quasi sempre di giovanissimi,
perpetrate in varie città sta allarmando tutti, dalla cittadinanza martoriata
da tanta violenza e insicurezza all’opinione pubblica internazionale, agli
stati confinanti e perfino all’Onu.
Tutti, tranne il governo di Felipe
Calderón, il quale insiste nell’allucinazione di star vincendo una guerra
civile che ha fatto 30mila morti in meno di quattro anni, ha provocato la più
grave crisi di sicurezza e ordine pubblico dai tempi della Rivoluzione, ha
ferito la psiche della nazione screditandone l’immagine all’estero, senza
neanche scalfire il potere assoluto del narcotraffico, anzi aumentandone
l’aggressività.
Li chiamano “juvenicidios”
Venerdì 22 ottobre, Ciudad Juárez, ore
23:30. In una casa di Horizontes del Sur, un quartiere popolare, c’è una festa
di compleanno. Da due camionette scende un gruppo di uomini che imbracciano
armi da guerra. Dalla strada chiedono se nella casa c’è El Ratón. Poi aprono il
fuoco da distanza ravvicinata sugli invitati adolescenti: 14 morti, 15 feriti. L’unica
vittima trentenne è la padrona di casa, madre del festeggiato. Tutti gli altri
avevano meno di venti anni. Le testimonianze dei vicini dicono che la polizia,
chiamata immediatamente, ha tardato più di mezz’ora ad arrivare sul posto.
In un quartiere vicino di Ciudad
Juárez, nel gennaio scorso, in una mattanza quasi identica un commando armato
aveva sterminato 15 giovani che festeggiavano il compleanno di un amico. Allora
le prime dichiarazioni ufficiali cercarono di far passare la strage per una
vendetta dei narcos contro una banda rivale ma l’indignazione dei familiari
delle vittime sventò la manovra.
Domenica 24, Tijuana, ore 21:00.
Centro di recupero per tossicodipendenti El Camino. Quattro uomini armati
irrompono nel cortile dell’istituto, allineano gli interni contro un muro, li
fanno inginocchiare e li mitragliano: 13 morti. Il direttore della clinica,
Melquíades Hernández, è inquisito per irregolarità nella gestione. Spesso
questi centri di disintossicazione vengono utilizzati come “uffici di
collocamento” dai cartelli della droga e i pazienti reclutati come spacciatori.
Non è la prima strage perpetrata in un ricovero di questo tipo, sempre per “punire
traditori”. C’è chi mette in relazione quest’ultima mattanza con il sequestro
di 134 tonnellate di marijuana – pubblicizzata come la confisca più grande
della storia – poi andate in fumo davanti alle telecamere.
Mercoledì 27, Tepic (Nayarit), ore
09:57. L’Autolavado Gamboa in avenida Rey Nayar impiega una decina di
tossicomani in recupero. Il lavoro fa parte della terapia di reinserimento. Il
lava-auto sta a un centinaio di metri dalla sede della polizia federale. Un
commando a bordo di tre Suv spara indiscriminatamente con mitra kalashnikov su
tutti i presenti. Dei 15 morti, 12 sono impiegati del posto (dieci di loro
provenienti dal centro di riabilitazione Alcance Victoria), due sono clienti e
uno venditore ambulante. Nayarit, uno stato di un milione di abitanti sulla
costa pacifica tradizionalmente tranquillo, non si salva dalla crescente
violenza e la sua capitale, Tepic, ha cominciato a conoscere le sparatorie per
strada: 280 esecuzioni dall’inizio dell’anno. Poche ore prima della strage dell’Autolavado
Gamboa, sulla stessa avenida, un uomo era stato giustiziato di fronte al suo
bambino di tre anni.
Mercoledì 27, Città del Messico, ore
24:00. Nel quartiere di Tepito, “el barrio bravo”, si compra di tutto, dal fumo
al crack. All’incrocio fra l’avenida del Trabajo e la calle Granada un
gruppetto di gente, quasi tutti spacciatori o clienti, sono occupati in
transazioni di narcomenudeo, compravendita al dettaglio. Le raffiche che
partono da due macchine senza targa, che si avvicinano a fari spenti, lasciano
sette morti sulla strada. Neanche uno di quelli che hanno tentato la fuga è
riuscito a salvarsi.
Giovedì 28, ancora Ciudad Juárez, ore
01:00. Tre autobus di una maquiladora, i
capannoni di assemblaggio che dall’altra parte del fiume si chiamano
sweatshops, riportano a casa le operaie che hanno finito il turno. All’entrata
del sobborgo Caseta, un commando apre il
fuoco contro i pullmann: cinque operaie muoiono sul colpo, altre 14, ferite,
vengono ricoverate in ospedale sotto la vigilanza dell’esercito. Gli autobus
per riaccompagnare a casa le lavoratrici dopo il lavoro sono una concessione
recente fatta da alcune fabbriche dopo le centinaia di ‘feminicidios’ avvenuti
in città.
Venerdì 29, sempre Ciudad Juárez, ore
19:00. Al termine di una manifestazione organizzata dal Frente Plural Ciudadano
per chiedere la fine della violenza in una città ormai invivibile, un gruppo di
universitari è aggredito da tre volanti della polizia federale, che sparano
sugli studenti ferendone uno gravemente alle spalle. I suoi compagni
impediscono ai poliziotti di trascinarlo via e riescono a portarlo d’urgenza in
ospedale. La manifestazione si chiamava ‘Kaminata contra la muerte’ e si stava
dirigendo al Foro internazionale contro la violenza e la militarizzazione,
indetto a Ciudad Juárez questo fine settimana.
Verso lo stato d’emergenza?
L’analisi recente di una commissione
del Senato afferma che circa un quinto dei 2.500 municipi del Messico è sotto
il dominio dei narcos e che in circa la metà l’influenza dei cartelli della
droga è pesante. Come può affermare il ministro degli interni Blake Mora che
esiste governabilità nel paese quando gli stessi dati istituzionali lo
smentiscono? O dichiarare che l’ultima ondata di stragi conferma che la linea
del governo è quella giusta? Perché le autorità si irritano fortemente quando
si parla – ormai sempre più spesso – di “narco-stato” o di “stato fallito”? Perché
si cerca invariabilmente di far passare le vittime innocenti – molte cadute
sotto il “fuoco amico” dell’esercito – per delinquenti uccisi in un regolamento
di conti? Come è possibile che le dichiarazioni ufficiali finiscono sempre per
sbriciolarsi di fronte all’evidenza?
Sono alcuni degli interrogativi del
momento, insieme al dubbio, ormai avanzato da vari osservatori, che questa
pioggia di cadaveri possa avere una regia, un disegno complesso forse elaborato
altrove e sperimentato qui. Una trama in cui si intrecciano sparatorie fra
bande rivali e fra queste e la polizia o l’esercito, ‘desaparaciones’
collettive, come il caso dei venti turisti di Michoacán scomparsi nel nulla ad
Acapulco (ma sembra che ci sia lo zampino della polizia locale), granate
esplose contro caserme e commissariati ma anche in luoghi pubblici, omicidi
mirati su commissione, spesso contro attivisti politici, difensori dei diritti
umani e giornalisti.
Se dovesse rivelarsi intenzionale e
concertata, sarebbe una strategia del terrore messa in atto per giustificare
una maggiore militarizzazione del paese e un’ulteriore sospensione delle
garanzie fondamentali. Ma che potrebbe anche provocare reazioni impreviste nel
corpo della società messicana, allo stremo di sopportazione e resistenza.
Intanto Hillary Clinton ha usato in
più di un’occasione la parola “terrorismo” nel riferirsi ai pesanti e sempre
più frequenti episodi di stragi e attentati a sud del Rio Grande. Una parola
che, come un campanello d’allarme o una sirena, suole preannunciare e
giustificare un intervento militare statunitense.
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