[Ezln-it] Una rotondita' nuova per la tavola

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Sat Oct 10 19:53:51 CEST 2009



Una rotondita' nuova per la tavola

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Una tavola rotonda che non è rotonda.

Una tavola asimmetrica., pluridimensionale, dove il centro si frammenta tra
l’affinità e la differenza.
Ogni settimana dal 2006, il giovedì pomeriggio, c’è un appuntamento
fisso a San Cristobal, in Chiapas, Messico: il seminario del CIDECI (Centro
Indigeno di Formazione Integrale), dove la città si perde e comincia la
montagna.
La tavola è rotonda, di buon legno chiaro, in uno spazio ampio ed
accogliente.

Ero quasi frastornato al termine del seminario, non tanto per la
difficoltà nel seguire l’acutezza dell’analisi o i differenti stimoli
che venivano di volta in volta messi al centro della discussione.
Di altra natura è il motivo della mia riflessione frastornante.
Ha a che vedere con il dissolvimento della rotondità.

La frequentazione al seminario è ampia, libera, molteplice: studenti,
professori, intellettuali, libertari, signore, vecchietti, bambini,
indigeni e non indigeni.
Un appuntamento di studio, analisi e confronto in uno spazio non
ideologicamente determinato, se non per essere ambito di resistenza
radicale al modello neoliberale.

Il luogo estremamente affascinante in cui ci troviamo è stato partecipe
delle storie che hanno animato questo territorio e che si fa carico della
riproducibilità di una memoria collettiva millenaria. Le costruzioni
amalgamano il meglio delle tecniche architettoniche sviluppate dal sapere
indigeno e i materiali utilizzati, con una forte prevalenza del legno e
della terra cruda, lasciano intendere un percorso di ecosostenibilità che
immagina già il farsi reale di un modello di città nuovo.
Attorno al CIDECI, che si estende su un’area di circa 22 ettari, la forza
del mattone e del cemento, motori privilegiati della crescita di quel
prodotto interno lordo, indice fasullo e incompleto dello stato di
benessere del neocapitalismo, strappano senso alla montagna e ai boschi.
Coscientemente ignari che un modello diverso di costruzione sia possibile,
lì accanto a loro.

Qui gli indigeni di tutte le comunità del Chiapas possono venire per
imparare un mestiere per poi ritornare alle loro comunità e fare di questo
sapere acquisito un tassello fondamentale per la costruzione dei processi
di autonomia.
Ci sono laboratori di meccanica automobilistica, di falegnameria, di
panificazione, di erboristica, un laboratorio per la lavorazione del
metallo e quello di agroecologia con i suoi orti e le sue serre. Ci sono
cucine e ampie sale da pranzo, auditorium, una biblioteca, un centro
sanitario, e infine i locali per l’accoglienza dei ragazzi e delle
ragazze che qui vengono a lavorare ed apprendere.
Si lavora collettivamente, si condividono esperienze e saperi, si
intrecciano le storie di etnie differenti: un processo di formazione verso
l’acquisizione di specifiche abilità e mestieri, che si configura però
nell’ambito di un processo di decolonializzazione culturale. Qui la
formazione è una danza di scalpello tra le stratificazioni rugginose della
cultura positivista europea.
Il sapere originario ritrova spazio e praticabilità. Senza timore si
estende e si riconosce, con la capacità di essere presente e funzionale
nell’odierna realtà. Nel suo viaggio tra gli interstizi della
stratificazione culturale forzata, questo magma ribelle, rimescola,
rimodella, dimentica e scompone frammenti di una cultura altra. Alla luce
della libera riflessione, le culture originarie sembrano non costruire
barriere tra i saperi, ma percorsi molteplici di riflessioni reciproche in
cui è possibile la sincera condivisione di elementi culturali, al fine di
costruire un sapere espansivo, dinamico, antiautoritario, esplosivo. Un
sapere che, sì, è in grado di costruire, praticare, ideare forme di
relazione, di vita, di attività alternative rispetto al sapere unico
ereditato dal neocapitalismo.

La partecipazione ai laboratori è gratuita ed aperta a chiunque abbia
voglia di mettere in gioco il proprio sapere in una dinamica di
apprendimento che ampli le conoscenze pratiche e teoriche.

Ma ritorniamo, in un testo che ci permetta di essere circolari,
all’oggetto della mia frastornazione: la rotondità. Siamo seduti attorno
ad un tavolo, una cinquantina di persone in due cerchi concentrici. Uno
adiacente al tavolo, rotondo anch’esso. L’altro, un po’ più largo lo
circonda, addossato alle pareti rivestite di libri della biblioteca. Ognuno
tiene in mano una piccola dispensa: una quarantina di pagine fotocopiate
che riproducono articoli e documenti. Anch’io ho in mano una di queste
dispense. Ma non è uguale a quella degli altri. La settimana precendente,
allo stesso seminario e nello stesso ambito di relazione, erano state
distribuite delle dispense, quelle che gli altri partecipanti al seminario
hanno ora in mano. Oggi si discute attorno a questi articoli, così come la
prossima si discuterà su quelli presenti nella dispensa che ho preso
entrando.

Qui avviene il primo decisivo slittamento (all’infinito) del concetto di
rotondità: le regole del gioco della tavola rotonda sembrano un paesaggio
sterile che mi lascio alle spalle, mentre alla vista si aprono spazi di
pensiero che si sovrappongono, a strati non necessariamente paralleli.
Attorno a questa tavola i partecipanti al seminario non affrontano e
discutono un argomento, magari presentato da una o poche persone, in quel
preciso istante (regola principale del gioco della tavola rotonda). Ognuno
dei partecipanti sa già da una settimana quali sono gli argomenti di
discussione e approfondimento collettivo. Per una settimana ognuno di loro
ha avuto la possibilità di approfondire personalmente ogni singolo
documento, la possibilità di elaborare una propria visione su ogni
tematica trattata e una personale dinamica di relazione tra gli argomenti.
Ognuno dei partecipanti a questo seminario porta sulla tavola rotonda un
proprio magmatico bagaglio di informazioni e sensazioni che lì, in quel
momento, trovano lo spazio sufficiente per poter essere condivise,
relazionate, amalgamate, confrontate.

La rotondità del cerchio è seriamente compromessa. Flussi di pensiero si
attraversano. Procedono da tempi e dimensioni differenti e attraverso il
desiderio del confronto che li fa muovere, si incontrano e poi ripartono,
diversi da prima, in un viaggio ricco di stimoli perché collettivamente
condiviso e partecipato.

Mi è impossibile determinare, in questo luogo, un depositario del sapere
che ci illumina, ci informa, ci accompagna all’interno di un argomento
fino ad allora poco conosciuto e poco chiaro. Questo è un laboratorio di
costruzione del sapere collettivo, una palestra di formazione dove la
conoscenza è desiderio di comunicare il proprio sapere. Sulla base di un
tema dato, ognuno, avendo avuto il tempo per l’elaborazione, porta le
proprie sensazioni, le proprie analisi, le proprie ricerche di
approfondimento, le proprie esperienze. Le mette a disposizione di tutti
nell’ambito della discussione e dalla relazione tra le differenti
diagnosi: lì nasce, dirompente nella sua bellezza, il sapere collettivo,
sicuramente non inscrivibile all’interno di un cerchio.

Ma il seminario del CIDECI offre ulteriori piani di dissoluzione dei
tradizionali ambiti della divulgazione culturale e/o dell’analisi
politica. Infatti, oltre a stimolare la libera condivisione di saperi
individuali, questa tavola rotonda esplode ulteriormente
nell’attraversare saperi e lingue tradizionali.
Se lo spagnolo è una lingua che accomuna nella sua comprensione la maggior
parte dei partecipanti al seminario (e sottolineo “la maggior parte”,
il che vuol dire che alcuni non comprendono lo spagnolo), questo non può
darsi come dato culturale e linguistico determinante che costituisce un
piano esclusivo da cui partire per la riflessione e la condivisione.
L’orizzonte culturale trova spazio per potersi nuovamente e
inesorabilmente frammentare attraverso la partecipazione attiva di lingue
tradizionali. Una partecipazione che è fatta di analisi e di
approfondimento, che si intreccia nella dinamica di costruzione del sapere
collettivo.
Certamente sfuggono alla comprensione razionale i concetti esposti in
questi flussi di pensiero che cavalcano lingue a me sconosciute. Uno
stimolo in più per sfuggire al concetto di rotondità, della mia
rotondità percettiva. Da un lato perde di senso l’imperativo di una
cultura che si costruisce attorno ad un idioma, dall’altro rimetto in
moto gli assonnati processi di percezione sensoriale ed emotiva.
Ascoltare significa comprendere attraverso i processi razionali, ma
significa anche accedere alla comprensione attraverso livelli differenti di
percezione. Ascoltare una lingua altra, una lingua indigena significa
percepirne il cammino di resistenza attraverso secoli di barbarie ed
oppressione per l’imposizione di un pensiero unico, definito sacro e
civile. Significa assaporare l’emozione suscitata da suoni nuovi e
differenti che articolano concetti ed esperienze. Suoni tramandati con
orgoglio da generazione in generazione perché una vita dignitosa si
costruisce anche nel rispetto di una lingua propria, che non è solo
semplice mezzo di comunicazione, ma dinamica di costruzione di una propria
e particolare cultura.

Nel cerchio che si è dissolto nella percezione di piani, sfere, flussi,
intuizioni che si compenetrano, si amalgamo e/o si ricompongono in forme
temporali e spaziali differenti e innovative, ritrovo il senso della
partecipazione e della radicalità.



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