[aha] riflessioni su AHA
lo|bo
lo_bo a ecn.org
Gio 4 Mar 2010 00:44:07 CET
Dopo l’email di Luisa ho letto questo articolo sull’ultimo numero di Via
dogana, si intitola "Cambiare l’immaginario del cambiamento", ho subito
pensato alla discussione che stiamo avendo in lista e all’intreccio dei
temi che c’è stato, come sempre :-D. Ho avuto molti dubbi sul postarlo o
meno, primo perché non è copyleft... ma è il problema minore, eheheheh,
secondo è più rilevante perché deriva da un pensiero femminista che è
considerato fastidiosamente dominante all’interno del movimento. Questo
comporta non pochi problemi di discussione ma me ne sbatto :-DDDDD.
L’autrice è Lia Cigarini, per molte un nome "storico" di questa pratica
politica, ma che io conosco da poco, quasi un anno e ho apprezzato da
subito.
L’articolo mi e' sembrato interessante sia perché fa delle dichiarazioni
molto forti sulla pratica dell’autocoscienza e sulla pratica politica
delle relazioni sia perche' quando si riferisce alla Solnit mi e'
sembrato riprendesse alcuni elementi della discussione che stiamo
avendo. Per questo mi e' venuto in mente di condividerlo. Non condivido
nell’articolo alcune descrizioni della Kelin ma vabbe...
Però mi sono venuti in mente quasi subito i CAE, le loro azioni e i loro
testi e i lavori che alcuni iscritti alla lista stanno facendo, tra cui
quelli di xd e dei les liens.
quindi buona lettura...
Ps: una persona mi ha detto che gli smile fanno tanto anni '90 ma a me
piace troppo usarli e poi io sono anni '90 :-D
Cambiare l’immaginario del cambiamento
Da tanto tempo sono attenta a quello che succede negli Stati Uniti,
paese dove ancora oggi esiste un forte e pesante movimento delle donne.
All’inizio del femminismo, negli anni ’60 e ’70, l’attenzione nei
confronti degli Usa e' stata vivissima, da quel paese infatti e' venuta
l’indicazione di fare i gruppi di autocoscienza, di sole donne: una vera
e propria creazione politica quasi artistica perché ha prodotto
racconti, letteratura, cinema, arte originale, una lingua altra e
articolata del sapere umano coinvolgendo tante donne in ogni parte del
mondo.
Oggi mi interessa il fatto che lì alcune donne, femministe o no, si
danno autorità di indirizzare l’agire politico dei grandi movimenti
(pacifista, ambientale, no global, ecc.) nei quali sono attive. Sono i
loro testi, in cui c’e' l’eco profondo dell’altra narrazione, intendo
quella delle storie !altre” raccontate dal femminismo, quelli che
costituiscono la teoria dei movimenti di oggi. Basta pensare a Naomi
Klein, autrice di No logo attiva insieme a tantissime donne nel
movimento no-global americano, convincendolo che gli atti simbolici e
culturali hanno un vero potere politico – e il capitalismo lo sa e la
sinistra no – evitando così la deriva di pura contrapposizione che porta
allo scontro di piazza, come nel movimento no-global europeo. Oppure, a
Sara Horowitz che ha creato un’associazione di lavoratori autonomi di
seconda generazione, visto che il sindacato non se ne occupava, con più
di cinquantamila iscritti nella sola New York, per "mettersi in ascolto"
dei suddetti. Oppure, a Susan Sontag che subito dopo l’11 settembre e'
stata la sola a sostenere che era necessario, comunque, mantenere un
conflitto relazionale con l’altro, invece di tentare di distruggerlo con
la guerra. Si potrebbe continuare con Elinor Ostrom, premio Nobel
dell’economia e altre, filosofe, sociologhe, economiste, ecc.
Certo le americane hanno un vantaggio: sono abituate/abituati ad agire
senza il supporto e senza fare conto sui partiti, poiché sia il partito
democratico che quello repubblicano sono da sempre più comitati
elettorali che partiti così come si intendono in Italia. Da noi,
infatti, i partiti erano organismi, pezzi di società e quindi da lì si
doveva passare altrimenti tutto quello che si faceva veniva definito
cultura, non politica, secondo uno schema che sopravvive nella testa di
molti. Sono abituate, le americane, a una politica diretta, a una
politica cioe' che non vede il suo necessario compimento nella
costituzione di un partito o nella rappresentanza parlamentare e si
metterebbero a ridere se qualcuno dicesse loro che fanno solo cultura e
non politica. In Italia invece lo schema del partito e della
rappresentanza e' talmente introiettato che persino una giovane
lavoratrice che pure partecipa con entusiasmo al tentativo di
trasformare, con la pratica della differenza, i rapporti di lavoro in
una fabbrica di Carrara, ha detto: io però sono entratat anche in
politica come consigliera comunale del mio paese. Chissà che cosa pensa
sia quello che fa nella sua fabbrica.
In effetti, siamo al paradosso: i partiti italiani sono diventati delle
pure sigle per eleggere deputati e senatori, come negli Usa, ma
nell’immaginario di tantissimi militanti ed elettori sono ancora il
cardine della politica e della democrazia. Questa mancanza di
consapevolezza finisce per mettere ai margini della politica quello che
succede nelle aree creative, che dovrebbero esserne invece al centro. Ad
ogni tornata elettorale la parte del paese che si considera migliore si
illude che il suo voto possa cambiare le cose. Poi segue la delusione.
La sinistra iataliana si e' specializzata in delusione (e per me in
insopportabili conversazione sulla degenerazione italiana). La
disperazione della sinistra può anche essere giustificata ma dire che
tutto va a rotioli non e' certo una visione alternativa delle cose. I
delusi/deluse restano così fissati sull’oggetto del loro disinganno e
non gli viene l’idea di voltarsi verso le aree creative che ci sono, e
tante, e in primo luogo quella delle donne. D’altra parte anche quelli/e
che non credono che il voto possa cambiare le cose, pensano ad un’azione
politica reattiva, di pura contrapposizione alle mosse dell’avversario,
azione che mi appare come un misero resto del conflitto di classe del ‘900.
In Italia ci sono tante donne che camminano nella politica e fanno
teoria, ad esempio: l’autoriforma della scuola, il Sottosopra sul
lavoro, il movimento No Dal Molin che lotta contro una nuova base
militare a Vicenza, le donne imprenditrici e lavoratrici che tentano di
cambiare i rapporti di forza in quattro fabbriche di Carrara. E ce ne
saranno altre che non conosco. Sono esperienze notevoli che si
accompagnano a una ricchezza di pensiero politico, eppure non posso
dire che tutto ciò abbia la forza di cambiare il modo di fare politica e
l’immaginario ad esso connesso, nella maggioranza di quelli che
vogliono, appunto, il cambiamento.
Mi chiedo come mai. Forse, io e altre abbiamo troppo insistito nel
camminare con i passi e il tempo della pratica del partire da sé e delle
relazioni tra donne, che e' sempre stata e rimane la nostra pratica
fondamentale, convinte che bisognasse per prima cosa mettere in luce
proprio questa. Con questo atteggiamento noi ostacoliamo senza volerlo
la fluidità e la varietà delle narrazioni e quindi l’aprirsi di nuovi
orizzonti, nuovi anche per noi. Sono convinta, oggi, che le narrazioni
già circolano mentre la prioritaria affermazione che senza pratica di
relazione non si va da nessuna parte, ci confina. e' come un bagaglio
pesante che non tutte/i sono disposti a portare. Mi impegno perciò nel
prossimo testo che scriverò e nei testi successivi ad affrontare nodi,
contraddizioni e problemi della politica e del lavoro senza fare un
riferimento esplicito alla pratica di relazione.
Tutto questo non scioglie il paradosso che dicevo prima ma forse dà più
forza alle persone che hanno passione politica per vederlo ed eliminarlo.
Per ora mi limito a segnalare una raccolta di brevi saggi, uscita nel
2005 in piena epoca Bush, autrice Rebecca Solnit, scrittrice, crtitica
d’arte femminista, attiva nei movimenti più vitali del suo paese, gli
usa. La raccolta s’intitola Speranza nel buoi. Guida per cambiare il
mondo (Fandango Libri, Roma 2005) e in essa io riconosco un punto di
vista vicinissimo all amia pratica politica. Per esempio, leggo questo
pensiero che e' alla base del movimento delle donne: "Al cuore del
processo c’e' la restituzione alle persone della loro capacità creativa
e la riattivazione del loro potenziale di intervento nel mondo". Ma nel
libro non ci sono riferimenti a questa o a quella pratica, se non alla
creatività che hanno i piccoli gruppi di affinità, come li chiama lei.
Quello che la Solnit dichiara e' il suo grande desiderio: "Voglio
proporre una nuova visione del mondo in cui avvengono le
trasformazioni... voglio ricominciare con una immaginazione adeguata
alle possibilità e alle singolarità e ai pericoli che sono su questa
terra in questo momento".
Di lei mi ha colpito soprattutto la sintesi in tre parole di quello che
la pratica della differenza, per approssimazione, si prefigge da anni:
il problema, oggi , dice lei, sta nel "cambiare l’immaginario del
cambiamento".
Solnit critica la "visione meccanicistica del cambiamento" che hanno gli
attivisti sia quelli della sinistra marxista sia quelli della sinistra
radicale e liberal i quali si aspettano sempre esiti finali e definitivi
da semplici rapporti di causa/effetto, con ritorni immediati. A questa
veduta lei oppone "il tempo con i suoi umori, la sua lentezza, la sua
subitaneità".
Penso a me, al mio immaginario di giovane ragazza così pieno di
rivoluzione, di conquista del potere, ecc., e penso al subitaneo suo
rovesciamento, venuto con la presa di coscienza che i miei desideri
erano altri e che quell’immaginario in realtà copriva idealisticamente
la mia sofferenza di donna. E da lì ricominciare con altre. E, però
anche, la lentezza di altre modificazioni. E la subitaneità di altre
intuizioni.
Secondo Solnit il cambiamento primo a più difficile da fare capire e'
rendersi conto "che la politica nasce dalla diffusione delle idee e
dalla immaginazione che prende forma... e significa che i cambiamenti
che contano non si svolgono semplicemente in scena sotto forma di azione
ma nelle menti di coloro che vengono descritti come pubblico. La
rivoluzione che conta e' quella che avviene nell’immaginazione, il che
equivale ad affermare che la rivoluzione non si presenta necessariamente
come una rivoluzione".
Solnit aggiunge che non e' d’accordo a concepire l’impegno politico come
qualcosa che serve per le emergenze anziché come una parte, anzi una
parte gioiosa della vita quotidiana, e lancia una sfida alle certezze
della politica tradizionale di sinistra non sostituendole ma
dissolvendole "come fa l’acqua, non per creare qualcosa nel futuro ma
per costruire nel presente, la politica del qui e ora, mettendo il
contesto innanzi alla ideologia".
Con molto coraggio Solnit, di fatto, invita la sinistra a volgere le
spalle al futuro citando la frase di Virgina Woolf: "Il futuro e'
oscuro, il che tutto sommato e' la cosa migliore che possa essere il
futuro, credo". Per la politica, conclude Solnit, non e' importante
prendere il controllo del futuro ma "lasciare andare", che e' la cosa
piu' potente che si possa fare: abbandonare il potere e trovare la liberta'.
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